• Non ci sono risultati.

Par 1 La crisi economica di inizio millennio: alcune considerazioni su cause ed effetti.

Il tentativo di delineare un percorso ragionato e coerente nella direzione dell’analisi e valutazione dei rapporti tra vincoli di finanza pubblica e diritti sociali deve necessariamente volgere lo sguardo alla disciplina dei conti pubblici, sia con riferimento alle politiche di contenimento della spesa pubblica adottate nella cornice europea e, di riflesso, nazionale; sia con riguardo agli effetti che su tale disciplina ha prodotto la situazione contingente, legata ad una crisi finanziaria con caratteristiche in parte nuove rispetto a quelle caratterizzanti le omologhe crisi dello scorso secolo.

E proprio su tale ultimo aspetto occorre fornire adesso alcuni spunti (senza pretese di esaustività, non essendo questa la sede per analizzare approfonditamente tale questione205).

La “corsa all’indebitamento” da parte degli Stati affonda le proprie radici in un essenziale

background: la necessità di assecondare le istanze revenienti dal multiverso panorama social-

elettorale, dovendo offrire riscontro in termini di politica legislativa (e relativo costo) alla domanda scaturente dall’aumento esponenziale dei gruppi di interesse, portatori di “pacchetti di voto”206. E così la ventata social-democratica che nel corso del ‘900 si è imposta nelle politiche macroeconomiche degli Stati europei ha determinato un incremento della spesa pubblica tale che,

205

Per l’analisi delle motivazioni economiche e giuridiche che sottostanno alla crisi finanziaria di inizio millennio, si veda, tra i numerosissimi contributi, S.M. De Marco, Indebitamento, insolvenza e crisi economica: dalla logica speculativa alla logica allocativa: i principi teorici della crisi di inizio millennio, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2010; M. Ruffert, The European Debt Crisis and European Union Law, in Common Market Law Rev., 2011; M. Fratini, Compendio di Contabilità Pubblica (Contabilità di Stato e degli Enti Pubblici), Roma, NelDiritto Editore, 2014; P. Santoro, E. Santoro, Manuale di contabilità e finanza pubblica, Sant’Arcangelo di Romagna, Maggioli, 2015.

206 A. De Toqueville, De la democratie en Amerique (1835), a cura di F. Furet, Paris, Flammarion, p. 298, scriveva «Si

l’on voulet étabilir un parallèle entre un république démocratique et une monarchie absolue […] on trouverait que le dépenses publiques dans la première sont plur considérables que dans la seconde».

101

per quel che concerne l’Italia, dai primi anni del XX secolo agli anni attuali, la percentuale nel rapporto tra spesa pubblica e PIL è lievitata di oltre il 40% (dal 10 al 52%)207.

Nel tentativo di fornire una giustificazione di tipo economico all’intervento che, per tali vie, lo Stato effettua nell’economia, occorre premettere che, in generale, il campo è conteso da due grandi teorie208.

Una prima, c.d. classica (o dei c.d. puristi), deve tributo ad A. Smith209 (il cui pensiero verrà sostanzialmente portato avanti fino alle teorie neoclassiche e raffinato, in particolare, da J. Buchanan210), secondo cui l’intervento dello Stato nell’economia deve ispirarsi a politiche di bilancio di «finanza neutrale». In altri termini, lo Stato deve rimanere fuori dai mercati, essendo, questi, animati da un perfetto equilibrio tra domanda e offerta, che verrebbe incrinato dall’intervento dello Stato stesso nell’economia. In tale contesto, per realizzare una neutralità finanziaria dello Stato è necessario che questi persegua una politica di pareggio di bilancio: in tal modo, quindi, tra le entrate e le spese ci dovrebbe essere un equilibrio tale, da impedire al pubblico potere di determinare qualsivoglia effetto sul sistema economico211.

207 G. Bognetti, La Costituzione economica italiana, Milano, Giuffré, 1995, p. 24, nel definire l’approccio economico

dell’Italia del ‘900 in termini di «capitalismo in acre salsa partitocratica», osserva che attraverso una «robusta componente “pubblicistica”, si è innestato sul nostro sistema economico un vastissimo dominio dei partiti politici, i quali, fuoriuscendo dal loro ruolo ideale di raccordo tra società civile e stato, si sono espansi nella società civile e si sono appropriati di larghe fette dell’economia, asservendole a loro vantaggio. Hanno ribollito la pietanza capitalistica in un brodo condito con spezie e droghe tutte loro».

208 Per una disamina esaustiva delle principali teorie economiche, con particolare attenzione alle scelte costituzionali

verso un principio di equilibrio di bilancio, si rimanda a C. Golino, Il principio di pareggio di bilancio. Evoluzione e prospettive, Padova, Cedam, 2013, pp. 69 e ss.

209 A. Smith, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, Chicago, 1976.

210 J. Buchanan, A contractrian Paradigm for Applying Economic Theory, in American Economic Review, 74, n. 2, 1975;

J. Buchanan, R.E. Wagner, Democracy in deficit: the political legacy of Lord Keynes, New York, 1977.

211 In relazione a tale corrente di pensiero, nell’esaminare in particolare le posizioni di J. Buchanan, C. Golino, op. cit. p.

75, sintetizza efficacemente il pensiero del noto economista: «Il ricorso al debito per finanziare maggiori spese avrebbe inevitabilmente comportato ulteriori oneri nel medio/lungo termine: Buchanan distingueva i costi soggettivi, determinati dall’onere reale del debito a carico delle generazioni future e i costi oggettivi – sostanzialmente minimi – che gravavano sui contribuenti nel momento in cui veniva assunta la decisione di spesa senza copertura fiscale. La divaricazione tra queste due tipologie di costi determinava l’incentivo per la politica di deficit spending, in quanto venivano omessi i meccanismi di auto-disciplina che un aumento delle tasse a copertura di maggiori oneri avrebbe potuto determinare». Il noto Economista osservava, inoltre, che l’indebitamento in concreto veniva dagli Stati destinato alla soddisfazione di spese correnti e non di investimento, inferendo l’immoralità di tali politiche, stante la sottrazione di ricchezza alle future generazioni. Sulla base della sfiducia che Buchanan nutriva nei riguardi della capacità dei Governi di autocontrollarsi nel fare ricorso all’indebitamento, C. Golino, op. cit., p. 77, deduce che «rispetto ai teoremi dell’Economia del benessere [di Keynes] che considerava il ruolo dello Stato all’interno di un’analisi dei fallimenti di mercato, quella contrattualistica [di Buchanan] può essere intesa come una teoria sui fallimenti del governo». Le conclusioni cui giungeva J. Buchanan, Budgetary bias in Post-Kenynesian Politics: The Erosion and Potential Replacement of Fiscal Norms, in ID., The Collected Works of J. Buchanan, vol. 14, Liberty Fund Indianapolis, 2000, p. 471, che postulavano l’inserimento in Costituzione del principio del pareggio di bilancio o, al più, di regole volte a limitare il ricorso all’indebitamento o all’aumento della spesa pubblica, erano le seguenti: «the most elementary prediction from public choice theory is that in the absence of moral or costitutional constraints

102

Secondo un’opposta corrente di pensiero (il cui precursore fu J.M. Keynes212, i cui sostenitori venivano anche detti c.d. pragmatici), invece, essendo stato dimostrato dalla grande crisi del 1929 come il mercato non sia capace di autodeterminare un proprio equilibrio tra domanda e offerta, sia caratterizzato da instabilità e assista a fluttuazioni prolungate nella produzione, nell’occupazione e nei redditi, occorre che lo Stato intervenga attivamente nell’economia. Secondo tale prospettiva lo Stato deve intervenire, in particolare nelle fasi di recessione, con politiche economiche di indebitamento, finalizzate a sostenere la spesa, stimolando così una ripresa dell’economia213.

Ciò premesso, sul piano nazionale, prima dell’entrata in vigore del Trattato di Maastricht e, più in generale, delle regole europee di imposizione di vincoli finanziari agli Stati membri (di cui si dirà nel prosieguo), il rimedio che i Governi italiani erano soliti adottare a fronte del cospicuo indebitamento consisteva nell’immissione massiccia di moneta nel circuito economico, determinando per tale via scontati effetti inflazionistici. In questo modo, certo, si riuscivano ad attirare investitori esteri, per via del cambio a loro favorevole della moneta; ma, al tempo stesso, si determinava l’aumento dei prezzi al consumo e, per conseguenza, l’impoverimento dei risparmiatori/elettori italiani, che assistevano alla diminuzione del valore reale del loro risparmio, senza rendersene realmente conto.

Subentrata la politica europea di controllo dei cambi delle monete e dei prezzi al consumo, per addivenire alla realizzazione della moneta unica, con la contestuale abdicazione da parte degli Stati alla sovranità nazionale sull’emissione della moneta, il modello di politica economico-sociale nazionale entrò in crisi e, invece di cambiare rotta e contenere la spesa pubblica, per oltre un decennio la politica italiana non ha fatto altro che ingigantire il debito pubblico, mediante il ricorso al credito, per consentire il prosieguo di quella allegra gestione delle risorse pubbliche che si era consolidata nel corso del XX secolo.

democracies will finance some share of current public consumption from debt issue rather than from taxation and that, in consequence, spending rates will be higher than would accrue under badget balance».

212

J.M. Keynes, The general Theory of Employment. Interest and Money, New York, 1935.

213 C. Golino, op. cit., p. 72, con riferimento a questo secondo filone, osserva che tali «nuove teorie – a parte la

costruzione metodologica innovativa specialmente in tema di macro-analisi dei sistemi economici e del ruolo stesso della moneta – si basavano, quale postulato primigenio, sull’assunto che l’investimento non dovesse necessariamente presupporre delle risorse già esistenti, accumulate attraverso il risparmio, quale rinunzia al consumo, ma che la sequenza tradizionalmente intesa di risparmio-investimento potesse essere capovolta, divenendo quindi investimento-risparmio, proprio perché il primo, realizzato attraverso l’indebitamento, avrebbe determinato un incremento nel reddito disponibile tale da generare il risparmio necessario e sufficiente a rimborsare l’indebitamento medesimo». Peraltro, i fautori di questa impostazione economica precisano che le politiche di deficit non devono essere senza freni, ma occorre che rispondano a criteri di razionalità. Sicché, sebbene la tendenza al pareggio di bilancio non debba colorare il bilancio annuale, il principio di equilibrio delle finanze deve tuttavia essere raggiunto nel medio-lungo periodo, con riferimento al ciclo economico.

103

Al contempo, il problema della sostenibilità del debito pubblico nazionale, che andava aumentando, non veniva avvertito con la dovuta attenzione, sia dall’opinione pubblica nazionale, che dalle Istituzione europee, che tendevano a tollerare “relativamente” le politiche di bilancio italiane, fino a quando, nel 2007, con le prime serie avvisaglie, e nel 2010, definitivamente, è esplosa la crisi economica214.

La bolla finanziaria alla base della omologa crisi, come noto, è stata determinata dalla concessione senza freni dei c.d. mutui subprime da parte degli istituti di credito americani. Tali mutui, concessi a soggetti sostanzialmente privi di reddito stabile o, comunque, con basse garanzie per la restituzione del credito (c.d. reddito marginale), erano caratterizzati da un rischio elevato, per il creditore, di insolvenza del debitore (nel mondo anglosassone, l’analisi non adeguata di rimborso da parte del mutuatario è nota con la locuzione credit score).

Tale maggior rischio veniva compensato con un tasso di interesse per la restituzione del mutuo più alto e con oneri maggiori, a parità di condizioni, rispetto ai mutui coperti da garanzie appropriate. Le caratteristiche essenziali di questo meccanismo erano da individuare: nella possibilità di vedere ampliata la platea di soggetti che sarebbero riusciti ad avere accesso al credito; nella fiducia che avrebbe indotto gli operatori a riporre affidamento su un mercato immobiliare dal valore in costante crescita (e che avrebbe potuto, quindi, facilitare la circolazione dell’immobile, qualora il primo acquirente/mutuatario si fosse rivelato insolvente); infine, nella facilità con cui si sarebbe riuscito a far circolare il credito, mediante la relativa cartolarizzazione e la sua conseguente immissione nel circuito finanziario, trasformandolo in prodotto finanziario (da cui, peraltro, si sarebbe creata una plusvalenza, stante la monetizzazione con la cessione del rischio – c.d. leverage o leva finanziaria – e la possibilità di alimentare ex novo il meccanismo alla base della concessione dei mutui, con le medesime caratteristiche).

Insomma, si trattava di una spirale autoalimentantesi, destinata a implodere nel momento in cui la bolla fosse esplosa. Come è puntualmente accaduto quando, a fronte del manifestarsi acclarato dell’insolvenza di una gran parte di debitori, messi alle strette dalla recessione economica (e conseguente disoccupazione) che stava maturando a conclusione, se vogliamo, di

214 M. Fratini, op. cit., p. 18, nel valutare l’approccio delle teorie economiche all’intervento dello Stato in economia,

osserva come le stesse, che pure hanno rappresentato un motore giustificativo, pur nella loro diversità, alla valutazione dell’intervento stesso, al contempo hanno «costituito un serio handicap alla comprensione dei segnali della crisi finanziaria dell’ultimo decennio. Esse, infatti, si sono preoccupate dei prezzi dei beni e dei servizi, ma hanno trascurato i prezzi delle attività finanziarie, sia perché (i puristi) riponevano grande fiducia nel riequilibrio automatico dei mercati finanziari, sia perché (i pragmatici) non avevano considerato, nei loro modelli macroeconomici, gli intermediari finanziari, reputando indifferente che le imprese si finanziassero con la vendita delle proprie azioni (ossia si procurassero risorse liquide in cambio di quote di proprietà) o si indebitassero emettendo obbligazioni».

104

una fase avversa di un “ordinario” ciclo economico, le banche hanno dovuto iniziare a contabilizzare nei propri bilanci la «svalutazione dei crediti». La “corsa allo sportello” che ne è derivata da parte dei correntisti, spaventati dalle prime notizie sulla situazione, ha creato una crisi di liquidità presso gli istituti bancari che, in alcuni casi, sono falliti.

A seguire, tale fenomeno dagli Stati Uniti, dove si è manifestato inizialmente, si è esteso all’Europa215, per poi toccare finanche la Cina216. E dalla finanza all’economia reale il passo è stato breve: gli effetti si sono manifestati, innanzitutto, con il credit crunch (ossia, una rigida stretta creditizia, peraltro paradossale in un momento in cui i tassi di interesse erano particolarmente bassi); poi, si è verificato un crollo dei prezzi delle case e delle borse (azioni e obbligazioni), che ha ridotto il volume delle attività edilizie e dei consumi (oltre che il valore dei risparmi investiti in azioni e obbligazioni); ancora, si sono fortemente ridotte le aspettative di imprese e famiglie (con effetti sugli investimenti e corrispondente aumento della propensione al risparmio); si sono ridotte le transazioni internazionali, con ricaduta degli effetti della crisi anche sui Paesi in via di sviluppo; per finire, a causa della riduzione dei volumi di vendita e fatturato delle imprese e della corrispondente riduzione della domanda di lavoro, c’è stata un’impennata della disoccupazione, cui è verosimilmente conseguita un’ulteriore caduta dei consumi.

Altro effetto, per quel che più rileva in questa sede, è stato quello di trascinamento nel vortice finanziario anche degli Stati, i cui titoli del debito pubblico erano stati massicciamente acquistati dagli istituti di credito finiti, poi, nel turbine della crisi finanziaria descritta. Il meccanismo dell’indebitamento, in sostanza, aveva creato una simbiosi sinergica (se non patologica) tra Stati, che si indebitavano, e banche, che acquistavano titoli di Stato per poi piazzarli sul mercato, così fornendo legittimazione (e salvezza finanziaria) alle politiche di indebitamento degli Stati. Ma quando le banche si sono trovate a loro volta nelle gravi difficoltà descritte, gli Stati sono dovuti intervenire per evitarne i fallimenti, aggravando ancora maggiormente lo stato di dissesto dei

215

Nonostante l’esistenza dell’accordo “Basilea2”, a tenore del quale, in teoria, gli intermediari finanziari sarebbero stati vincolati a prestare finanziamenti soltanto a soggetti in determinate condizioni di “solvibilità”. Sul contagio della crisi dall’America all’Europa appare di particolare interesse la ricostruzione operata da A. Poggi, Crisi economica e crisi dei diritti sociali nell’Unione Europea, in Rivista AIC, n. 1/2017, pp. 3-4, secondo cui il contagio dei titoli tossici derivati è sorto nei mercati di common law, nei quali la causa non entra a far parte dei rapporti negoziali: «Per inciso il contratto derivato è un istituto contrattuale sviluppatosi proprio negli ordinamenti di common law (derivative): strumenti finanziari basati su un altro strumento elementare che ne influenza il valore. Sono contratti che in quanto generati dall’ordinamento di common law non contemplano una “causa” e, quindi, possono essere stipulati liberamente dagli enti territoriali». E dall’America i derivati sono transitati in Europa tramite l’intermediazione delle banche inglesi, in quanto, essendo l’Inghilterra nell’Unione Europea e godendo quindi dei meccanismi del mercato unico (senza controlli, né barriere nella circolazione dei prodotti di qualunque natura – anche finanziaria), l’isola d’Oltremanica ha fatto da tramite verso il continente per la propagazione di tali titoli tossici.

216 In cui la Bank of China si è dichiarata disposta a correggere i propri bilanci per 8 miliardi di dollari per «svalutazione

105

conti pubblici, per consentire agli istituti di credito la possibilità di tornare a concedere prestiti a imprese e privati, nella prospettiva di una auspicata ripresa economica217.

Par. 2. La risposta dell’Unione europea attraverso i meccanismi di Governance

Outline

Documenti correlati