Innanzitutto, per come già anticipato, le disposizioni in materia di cittadinanza europea (di cui all’art. 9 del TUE, che la riconosce a qualunque cittadino di uno Stato membro), anche grazie alla pervicace azione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sono state capaci di incidere sostanzialmente sull’accesso ai sistemi nazionali di istruzione degli Stati membri, essendo in grado di scardinarne le pretese di nazionalità e territorialità, sulle quali si basavano. Ne è derivata la possibilità di accedere sia al sistema stesso, sia ai benefici a esso correlati, per tutti i cittadini europei, economicamente attivi, che, grazie alle libertà di circolazione e soggiorno intraeuropei (riconosciute dall’art. 21, TFUE), hanno deciso di stanziarsi in uno Stato europeo diverso da quello di origine. La disposizione, letta in combinato disposto con l’art. 18, TFUE, in materia di divieto di discriminazione tra cittadini di diversa nazionalità europea, che al tempo stesso, in positivo, stabilisce il diritto a un uguale trattamento tra i cittadini europei, garantisce il diritto di accedere, certamente, al sistema istruzione e, anche, alle provvidenze che la legge nazionale prevede a favore della realizzazione del diritto allo studio.
Tuttavia, occorre tenere presente che, a parziale contenimento delle potenzialità espansive dei diritti originati dalla cittadinanza europea, l’accesso non discriminatorio alle guarentigie previste dagli Stati ospitanti per il cittadino europeo è soggetto alla Direttiva 2004/38/CE, che offre la possibilità allo Stato membro di negare il diritto di residenza ai cittadini europei che non dispongano di risorse economiche sufficienti e che siano privi di assicurazione sanitaria, impedendo così che venga a determinarsi un irragionevole “onere” per il sistema di assistenza sociale dello Stato ospitante.
Nella citata sentenza Gravier, la Corte di Giustizia aveva in tale ultimo senso aperto il percorso alla linea interpretativa poi fatta propria dalla Direttiva 2004/38/Ce, rinvenendo il punto di equilibrio tra le due opposte esigenze (diritto del cittadino europeo vs equilibrio finanziario dello Stato ospite) nella garanzia di accesso al sistema istruzione a tutti i cittadini indistintamente, da un
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lato; ma, dall’altro, nell’accesso anche ai residenti europei ai benefici concessi dalla legislazione statale ai propri cittadini a condizione che la residenza dei primi avesse il carattere della permanenza. Sicché, tale carattere, unitamente alla verifica della cesura di un “legame reale” con lo Stato di appartenenza, consente al cittadino europeo di accedere anche alle provvidenze che la legislazione dello Stato ospite prevede a favore degli studenti e delle loro famiglie (in particolare, il tema si propone con riguardo all’istruzione superiore, per la quale il diritto d’accesso ai livelli superiori è garantito solo a favore dei meritevoli, che siano al tempo stesso incapienti).
Il divieto di discriminazione, poi, assolve la funzione di completamento di tutela rispetto al conseguimento dello status di cittadino europeo e del connaturato diritto di circolare liberamente sul territorio europeo, di cui si dirà a seguire con riguardo all’istruzione. Esso è volto a contrastare sia le discriminazioni dirette, che quelle indirette o dissimulate. Le prime ricorrono quando la nazionalità costituisce il presupposto per l’applicazione di un trattamento giuridico differenziato; le seconde, invece, pur prescindendo in astratto dal profilo della nazionalità ed essendo basate su altri criteri distintivi, come per esempio la residenza, nei fatti determinano uno svantaggio per i cittadini degli altri Stati membri, così producendo lo stesso effetto di una discriminazione diretta. In generale, occorre notare come la discriminazione nell’ordinamento europeo sia una conseguenza della commistione di più livelli di governo164, con competenze che non sono facilmente distinguibili tra essi, su materie che, inevitabilmente, tendono a sovrapporsi.
Come osservato da taluna dottrina165, per valutare la contrarietà di una norma nazionale alla libertà di circolazione sul territorio, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha elaborato un test, il quale, con approccio globale alle diverse libertà di circolazione (delle persone, dei servizi e dei capitali), sarebbe idoneo a identificare quando una disposizione sia di ostacolo a esse. «Tale test consta di quattro fasi successive. Occorre infatti stabilire: ● in primo luogo se la normaeva è indistintamente applicabile; ● in secondo luogo se cosetuisce un ostacolo alla libertà di circolazione; ● in terzo luogo se l’ostacolo può essere giustificato da un motivo superiore di interesse pubblico o generale; ● in quarto luogo se l’ostacolo rispefa il principio di proporzionalità». Il test che la Corte esegue sulle normative sia direttamente che indirettamente discriminatorie è pressoché analogo, specie con riguardo alle ultime due fasi dello stesso. Sicché, dalla declinazione e dagli esiti del test stesso è difficile comprendere se la Corte ritenga che la normativa sia direttamente o indirettamente in contrasto con la libertà di circolazione.
164 Tryfonidou A., Reverse Discrimination, in EC Law, Alphen aan den Rijn, Klower Law International, 2009, p. 6. 165 L. Daniele, Diritto del Mercato Unico Europeo e dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, Milano, Giuffrè, 2016, p.
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Certo è che, mediante tale processo di valutazione, la Corte è pervenuta ad ampliare in maniera rilevante il concetto di ostacolo alla libera circolazione, al punto che ci si è interrogati sulla possibilità di far valere le regole di quest’ultima anche in situazioni di rilievo meramente interno, ossia in cui tutti gli elementi della fattispecie al vaglio del giudizio di discriminazione si legano a un singolo Stato (a differenza delle situazioni c.d. transfrontaliere, nelle quali, viceversa, almeno un elemento della fattispecie si produce su di un ulteriore territorio).
Invero, con riguardo a questo tema, l’impostazione che sembra prevalere nella CGUE è quella di attribuire rilievo solo alle situazioni transfrontaliere (almeno con riguardo alla libertà di circolazione delle persone e dei servizi166). La tesi della Corte è quella secondo cui la ratio della libertà di circolazione europea è da rinvenirsi nell’intento di rimuovere gli ostacoli che uno Stato pone con riguardo a chi non risiede nel proprio territorio; potendo, per contro, lo stesso Stato decidere di ostacolare tale libertà con riguardo ai propri confini nazionali: «le norme del Trattato in materia di libertà di circolazione delle persone e gli atti adottati in esecuzione di queste ultime non possono essere applicati ad attività le quali non presentino alcun elemento di collegamento con una qualsivoglia situazione prevista dal diritto comunitario ed i cui elementi rilevanti rimangano confinati, nel loro insieme, all’interno di un unico Stato membro»167.
D’altronde, nel contemperare le esigenze connesse alle libertà fondamentali economiche europee con le prerogative legislative nazionali, deve anche tenersi conto «del fenomeno della concorrenza tra ordinamenti, e quindi della diversità delle leggi nazionali in chiave di promozione di determinati obiettivi, e in chiave di fattore competitivo di uno Stato membro rispetto ad altri nell'ambito del grande mercato interno realizzato dall'Unione europea»168.
Tuttavia, un’impostazione siffatta può originare (e ha già originato varie volte in passato) quelle situazioni che vengono indicate come di discriminazione a rovescio169.
166 Meno nettamente la Corte si è espressa con riguardo alla libertà di circolazione delle merci, avendo essa
manifestato aperture all’applicazione dei relativi principi anche rispetto a discipline nazionali riservate a situazioni meramente interne, come, tra le altre, nella sentenza Pistre (C-321/94), in materia di merci con denominazione tipica “montagna”, la cui normativa, seppur discriminatoria rispetto a produttori soltanto nazionali, è stata ritenuta tuttavia capace di ostacolare «per lo meno potenzialmente», gli scambi intracomunitari.
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CGUE Causa C-212/06.
168 F. Munari, Gli effetti del diritto dell'Unione europea sul sistema interno delle fonti, in Dir. Un. Eur., fasc. 4, 2013, p. 169 Tra gli altri autori che si sono occupati del tema, si segnalano: Tryfonidou A., Reverse Discrimination, in EC Law, cit.;
D. Hanf, ‘Reverse Discrimination’ in EU Law: Constitutional Aberration, Constitutional Necessity, or Judicial Choice?, in Maastricht Journal of European and Comparative Law, 2011, Vol. 18, Issue: 1-2; G. Pistorio, Le discriminazioni a rovescio derivanti dall'applicazione del diritto comunitario, in Europeanrights Newsletter, 2011; L. Daniele, Diritto del Mercato Unico Europeo e dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, cit., pp. da 41 a 43; Adam R., Tizzano A., Manuale di diritto dell’Unione europea, Torino, Giappichelli Editore, 2017, pp. da 368 a 370; L.S. Rossi, F. Casolari, The Principle of Equality in EU Law, Cham, Springer, 2017, pp. da 256 a 279; S. Montaldo, Freedom of Movement, Social Integration
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Questa tematica normalmente viene studiata con riferimento alla libertà di circolazione delle persone, essendo per contro esclusa dall’analisi la dimensione del mercato europeo170.
Per discriminazione a rovescio tradizionalmente si intende quel trattamento di minor favore riservato a coloro che sono soggetti alla legislazione nazionale e che non possono beneficiare dei maggiori vantaggi riconosciuti dalla normativa europea. Essa può verificarsi, da un lato, quando i cittadini europei non esercitano la propria libertà di circolazione transeuropea, rimanendo stanziati nel proprio paese di origine: come se costoro versassero in uno status solo potenziale (quello di cittadino europeo), a cui conseguono i diritti del caso alla condizione che oltrepassino i confini nazionali (una sorta di status – quello di cittadinanza europea – limitato quoad effectum o comunque il cui esplicarsi è sottoposto alla condizione sospensiva dell’esercizio della libertà di circolazione “fuori” dallo Stato ed entro i confini europei). Dall’altro, e paradossalmente, la discriminazione a rovescio si caratterizza per il buon fine della pretesa (attivata in giudizio) di esercizio dei propri diritti da parte degli altri cittadini europei nel territorio nazionale di coloro che vengono discriminati171.
Nel sistema nazionale italiano, il legislatore ha inteso conferire rilevanza alle (e conseguentemente tutela dalle) situazioni in cui si verifichino discriminazioni a rovescio. L’art. 53 della L. n. 234/2012, rubricato “Parità di trattamento”, dispone che «nei confronti dei cittadini italiani non trovano applicazione norme dell’ordinamento giuridico italiano o prassi interne che producano effetti discriminatori rispetto alla condizione e al trattamento garantiti nell’ordinamento italiano ai cittadini dell’Unione Europea».
Da questo angolo visuale, per quanto concerne, in particolare, l’istruzione, appare allo scrivente di particolare rilievo una recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Con sentenza C-675 del 2017 (Preindl), lo Stato italiano è stato costretto a riconoscere il diritto all’esercizio della professione di odontoiatra e di medico chirurgo a un cittadino austriaco, il quale,
and Naturalization: Testing Reverse Discrimination in the Recent Case Law of the Court of Justice, in European Papers, European Forum, 22 October 2018.
170 Così, E. Ambrosini, Reverse Discrimination in EU Law: An Internal Market Perspective, in L.S. Rossi, F. Casolari, The
Principle of Equality in EU Law, cit., p. 256.
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Nella prospettiva di analisi di questa tensione di flusso opposta, che vede da un lato chi non oltrepassa i confini dello Stato e anelerebbe tuttavia a essere tutelato dal Trattato UE; dall’altro, chi li supera e chiede di essere tutelato nel Paese “terzo” dove si reca, S. Montaldo, Freedom of Movement, Social Integration and Naturalization: Testing Reverse Discrimination in the Recent Case Law of the Court of Justice, cit., pp. 2-3, osserva l’attività della CGUE, ritenendo che «walking the fine line between reverse discrimination, national sovereignty, advances towards successful EU citizen integration in host Member States and the eventual establishment of a true European community of people, the Court of Justice has tried to find a way to eliminate the flaws outlined above. Or, at least it has tried to mitigate the impact of reverse discrimination, despite being constrained by the limits of its jurisdiction and of EU competences in general».
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grazie al sistema suo nazionale, era stato in grado di conseguire entrambe le qualifiche, pur essendo iscritto a due diversi corsi di laurea contemporaneamente, organizzati in maniera tale da rispettare i requisiti minimi prescritti dalla Direttiva europea 2005/36, che disciplina i casi di riconoscimento (automatico) delle qualifiche professionali. A nulla è valso al Governo italiano invocare il disposto di cui all’art. 142, 2° comma, del Regio Decreto n. 1592 del 1933 (T.U. delle leggi sull’istruzione superiore), a norma del quale si vieta «l’iscrizione contemporanea a diverse Università e a diversi Istituti d’istruzione superiore, a diverse Facoltà o Scuole della stessa Università o dello stesso Istituto e a diversi corsi di laurea o di diploma della stessa Facoltà o Scuola».
Riguardo al caso oggetto della pronuncia, sembra possa ragionevolmente prodursi una situazione discriminatoria nei riguardi degli studenti italiani che, avendone le capacità e la voglia, vogliano invocare un preteso diritto a iscriversi a due corsi di studio contemporaneamente, al fine di poter esercitare nel minor tempo possibile le professioni suddette. Gli studenti universitari di odontoiatria e medicina, infatti, stante l’impossibilità di iscriversi ai due corsi contemporaneamente, dovrebbero impiegare un numero di anni (ossia dodici, stante la durata ordinamentale di sei anni ciascuno) nettamente superiore (in paragone al dott. Preindl, almeno di cinque anni, limitandosi a considerare soltanto la durata legale dei due corsi di laurea), per poter conseguire il titolo e successivamente abilitarsi alla professione nelle due aree disciplinari predette.
Il caso pare simile a quello affrontato dalla Corte di Giustizia UE, c.d. Aubertin, in cui, certo, la Corte ha escluso la propria competenza a pronunciarsi, possedendo, la questione, risvolti meramente interni e non transfrontalieri, ma in cui nessun dubita della verificazione di un’ipotesi di discriminazione a rovescio (o à rebours). In tale fattispecie, invero, la situazione era parzialmente diversa, esercitando, il signor Aubertin, il mestiere di parrucchiere in Francia, per il quale egli era privo del titolo prescritto dalla legge francese. Tale titolo, invece, non era richiesto agli altri parrucchieri europei (nei cui Stati esso non era prerequisito per l’esercizio della relativa professione), che intendessero stabilirsi in Francia ed esercitare la propria professione. Nel caso di cui alla sentenza Preindl, invece, non si tratta della mancanza di titolo alla base dell’esercizio della professione di chirurgo e odontoiatra nel Paese straniero; bensì della eccessiva maggiore onerosità (in termini di tempo e spese correlate al tempo) a carico dei cittadini italiani, per poter conseguire i titoli richiesti per esercitare “a parità di condizioni” col cittadino austriaco entrambe le professioni suddette.
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Ciò che sembra rappresentare a sua volta un’ipotesi di discriminazione a rovescio.
D’altronde, la stessa Corte Costituzionale, a far data dal 1997, con sentenza n. 443, preso atto della tendenziale irrilevanza europea delle questioni prive di carattere transfrontaliero pur foriere di discriminazioni a rovescio e della opportunità, espressa dalla Corte di giustizia, di una eventuale risoluzione interna delle disparità di trattamento da esse derivanti, ha avuto occasione di affermare che «quello spazio di sovranità che il diritto comunitario lascia libero allo Stato italiano può non risolversi in pura autodeterminazione statale o in mera libertà del legislatore nazionale, ma è destinato ad essere riempito dai principî costituzionali», ivi incluso, per quanto di interesse nella presente, da quello di cui al combinato disposto degli artt. 3 e 34, Cost., prodromici all’esercizio delle professioni per le quali la Direttiva 2005/36 cit. ammette il riconoscimento automatico transfrontaliero.
E lo stesso legislatore, all’art. 2, par. 1, lett. h), della legge comunitaria 2004 (L. 18 aprile 2005, n. 62), nel delegare al Governo l’attuazione di alcune direttive comunitarie, già aveva previsto che: «i decreti legislativi assicurano che sia garantita una effettiva parità di trattamento dei cittadini italiani rispetto a quelli degli altri Stati membri dell'Unione europea, facendo in modo di assicurare il massimo livello di armonizzazione possibile tra le legislazioni interne dei vari Stati membri ed evitando l'insorgere di situazioni discriminatorie a danno dei cittadini italiani nel momento in cui gli stessi sono tenuti a rispettare, con particolare riferimento ai requisiti richiesti per l’esercizio di attività commerciali e professionali, una disciplina più restrittiva di quella applicata ai cittadini degli altri Stati membri».
Inoltre, nell’ipotesi in cui si aprisse questo varco nelle mura del nostro sistema nazionale di istruzione, per ipotesi mediante disapplicazione ex art. 53 della L. n. 234/2012, cit., del Regio Decreto del 1933, da parte del giudice nazionale adito da un aspirante studente italiano di entrambe le discipline menzionate, non si vede quali potrebbero essere le ragioni fondanti un divieto di doppia iscrizione negli altri corsi di laurea. Infatti, all’interno dell’ordinamento e a favore dei cittadini italiani, potrebbe soccorrere la tutela dei cit. artt. 3 e 34, Cost. e quindi, acquisterebbe rilievo l’irragionevolezza di un trattamento discriminatorio sull’accesso all’istruzione universitaria tra gli studenti di medicina e quelli di altre materie. D’altronde, già si è avuto modo di segnalare che l’istruzione e l’istruzione e la formazione professionale sono visceralmente connesse; sicché, è naturale corollario che l’una incida sull’evoluzione normativa dell’altra e viceversa.
È bene notare, peraltro, come a oggi sia possibile, entro certi limiti, conseguire il doppio titolo universitario anche nel sistema di istruzione terziaria italiano. Tale possibilità è ammessa a
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condizione che ci si iscriva presso Atenei convenzionati con università straniere (anche non europee). In sostanza, per tale via, si riesce a derogare al divieto del doppio titolo contemporaneo, ma solo perché uno dei due titoli viene rilasciato da un Ateneo diverso da quello italiano.
Sempre ipoteticamente, infine, e per completezza di prospettiva, accertata la necessità di eliminare il divieto di cui all’art. 142, 2° comma, del citato Regio Decreto del 1933, il discorso potrebbe estendersi anche ai titoli di istruzione superiore, ossia a quelli rilasciati dall’Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica e dagli Istituti Tecnici Superiori.