• Non ci sono risultati.

Par 2.1 Dal Trattato di Roma all’introduzione della moneta unica.

La politica dell’Unione Europea in materia di finanze pubbliche si può riassumere in una formula: divieto di disavanzi eccessivi. La formula, di per sé, porta un’ambiguità di fondo, essendo il frutto di una mediazione politica tra tutti gli Stati membri, condensata in quell’aggettivo (eccessivi), che non delimita un confine preciso, bensì una soglia tendenziale e variabile, correlata ad un percorso di rientro del debito pubblico nazionale di medio periodo, negoziato tra gli Stati membri, la Commissione e il Consiglio, seppure in relazione a parametri e soglie percentuali di cui si darà conto a breve.

Con il Trattato di Roma (Istitutivo della Comunità economica europea, firmato a Roma il 25 marzo del 1957 ed entrato in vigore il 1° gennaio del 1958), all’art. 2, si è stabilito che «la Comunità ha il compito di promuovere, mediante l’istaurazione di un mercato comune e il graduale riavvicinamento delle politiche economiche degli Stati membri, uno sviluppo armonioso delle attività economiche, una espansione continua ed equilibrata, una stabilità accresciuta, un miglioramento sempre più rapido del tenore di vita». L’art. 104, con una formulazione in certa misura affine al concetto di disavanzo eccessivo, caldeggiava una particolare attenzione degli Stati membri rivolta a garantire l’equilibrio della propria “bilancia globale dei pagamenti” e la fiducia della propria moneta, mediante un alto livello di occupazione e la stabilità dei prezzi.

L’inefficacia delle politiche europee di governo e regolazione dei bilanci pubblici nazionali226 ha prodotto l’effetto di far virare le politiche stesse nella direzione del governo e controllo della moneta. Vennero a tal fine istituiti il Fondo europeo di cooperazione monetaria (FECOM), con Regolamento (CEE) del Consiglio, n. 907 del 1973, e il Sistema monetario europeo (SME), con Regolamento (CEE) del Consiglio, n. 3181 del 1978227.

Successivamente, con l’Atto unico europeo del 1986, di revisione dei Trattati di Roma, venne introdotto nell’allora Trattato CEE l’art. 102 A, con cui veniva esplicitato l’obiettivo delle politiche europee di «assicurare la convergenza delle politiche economiche e monetarie necessaria per

226 Resa manifesta dal fallimento del Piano Werner, in prospettiva europea, e di iniziative analoghe assunte

singolarmente da alcuni Stati, successivamente e a seguito della rottura degli accordi di Bretton Woods (per un’efficace sintesi di questa fase transitoria, cfr. C. Golino, Il principio di pareggio di bilancio, cit., pp. 9-10).

227 Sempre C. Golino, op. cit., p. 11, osserva come «questa competenza, sul piano costituzionale, era un quid novi

rispetto alle materie del Trattato: infatti, sebbene l’art. 107 del Trattato CEE imponesse agli Stati di considerare la politica dei tassi di cambio come materia di interesse comune, i Regolamenti vennero adottati grazie alla clausola generale dei poteri impliciti», ex art. 235 del Trattato CEE.

109

l'ulteriore sviluppo della Comunità». Obiettivo, questo, perseguito anche a livello sovranazionale mediante politiche di ampliamento della libertà di circolazione dei capitali e di concessione di finanziamenti agli Stati che avessero adottato programmi di risanamento economico, caratterizzati da riduzione di disavanzo e spesa pubblica.

Nel 1992, con il Trattato di Maastricht, istitutivo dell’Unione Europea (Trattato CE), si pose di fatto al centro delle politiche europee il tema delle finanze pubbliche. In particolare, gli Stati avrebbero dovuto rispettare nei propri bilanci alcuni standard, finalizzati al conseguimento di specifici obiettivi da realizzarsi gradualmente e secondo certe procedure.

Il Trattato disciplinava le finalità di questa politica all’art. 2, in cui la Comunità promuoveva una «crescita sostenibile, non inflazionistica»; all’art. 3 A, par. 3, in forza del quale gli Stati si sarebbero dovuti adeguare al principio delle «finanze pubbliche e condizioni monetarie sane»; infine, all’art. 109 J, secondo cui gli Stati, fra gli altri criteri, si sarebbero dovuti ispirare a quello della «sostenibilità della situazione della finanza pubblica», specificando che «questa risulterà dal conseguimento di una situazione di bilancio pubblico non caratterizzata da un disavanzo eccessivo».

Tale ultima norma rinviava all’art. 104 C, par. 6, il quale, nello stabilire che «gli Stati membri devono evitare disavanzi eccessivi»228, poneva il disavanzo pubblico e il debito pubblico229 in relazione al PIL nazionale, nel rispetto dei parametri indicati dal «Protocollo n. 20, sulla procedura per i disavanzi pubblici eccessivi (1992)», allegato al Trattato medesimo.

L’art. 1 del Protocollo citato prevedeva come valori di riferimento: il 3% per il rapporto fra il disavanzo pubblico, previsto o effettivo, e il prodotto interno lordo ai prezzi di mercato; il 60 % per il rapporto fra il debito pubblico e il prodotto interno lordo ai prezzi di mercato230.

228 Questo è stato concepito da un certo momento in poi come un divieto a tutti gli effetti. Spiega infatti G. Della

Cananea, op. cit., p. 42 che esso «è funzionale alla creazione delle condizioni di convergenza necessarie per il passaggio alla terza fase dell’UEM [Unione Economica Monetaria]», fase conclusiva (le prime due erano consistite in misure di liberalizzazione della circolazione dei capitali e di convergenza delle politiche economiche degli Stati membri) di un percorso di convergenza delle politiche economiche e monetarie degli Stati membri, che postulava un dato contenimento del tasso di inflazione; stabilità dei cambi e stabilità dei tassi di interesse e della finanza pubblica.

229 R. Perez, Il controllo della finanza pubblica, cit., p. 300, spiega che «Il disavanzo pubblico (o deficit) è costituito dalla

differenza tra entrate e spese che si realizza in un anno, coperta mediante indebitamento. Il debito pubblico è costituito, invece, dalle passività del settore pubblico, derivanti dal necessario finanziamento del disavanzo costituite da titoli a medio e lungo termine, emessi dal Ministero dell’economia e delle finanze, collocati sul mercato e dagli interessi che alla scadenza dovranno essere pagati a coloro che hanno acquistato titoli».

230

G. Rivosecchi, L’indirizzo politico finanziario tra Costituzione italiana e vincoli europei, Padova, Cedam, 2007, pp. 364, afferma che «a quanto risulta dai negoziati che condussero all’inserimento dei criteri di convergenza del Trattato, vennero respinte sia le proposte volte a “costituzionalizzare” espressamente la c.d. “regola aurea” (in base alla quale le spese correnti non devono essere superiori alle entrate correnti), sostenuta dalla delegazione tedesca e olandese, sia le proposte volte a prevedere limiti al disavanzo corretto in base agli andamenti del ciclo economico, sostenute, tra gli altri, da Francia e Italia: le prime perché ritenute eccessivamente rigide e inclini ad incoraggiare politiche fiscali pro-

110

Peraltro, con riguardo alla prima relazione occorre precisare che si riteneva dovesse essere evitata l’attestazione del disavanzo a uno stabile 3% in rapporto al PIL, essendo tale valore quello massimo, ossia la soglia limite da rispettare in presenza di date condizioni congiunturali, esso essendo solo il «primo passo verso l’obiettivo a medio termine del pareggio»231.

Inoltre, ai sensi dell’art. 3 del Protocollo sui disavanzi eccessivi e dell’art. 2 del Regolamento (CE) 3605/1993 (relativo all’applicazione del protocollo sulla procedura per i disavanzi eccessivi), ai fini di una corretta determinazione degli elementi delle relazioni disavanzo/PIL e debito pubblico/PIL, i dati nazionali dovevano basarsi su un bilancio consolidato, che tenesse conto del «settore delle amministrazioni pubbliche, suddiviso nei sottosettori amministrazioni centrali, amministrazioni locali ed enti di previdenza e assistenza sociale, escluse le transazioni commerciali quali sono definite nel SEC [Sistema europeo dei conti economici integrati]» 232.

A ciò si aggiungevano degli obblighi di informazione tempestiva e regolare che, ai sensi dell’art. 4 del Regolamento da ultimo citato, gli Stati erano tenuti a fornire alla Commissione, almeno due volte all’anno, sui disavanzi pubblici previsti ed effettivi e sull’ammontare del debito effettivo.

cicliche, e le seconde perché basate su criteri labili e discrezionali nel calcolo del disavanzo consentito». Ad ogni modo, secondo l’Autore, op. cit., pp. 365-366, l’introduzione dei vincoli predetti trova i propri presupposti teorici «nella letteratura economica che riconnette all’insostenibilità del debito di uno Stato membro esternalità negative per tutti gli altri Paesi dell’Unione. Nel quadro di un’unione monetaria e di un sistema di cambi fissi, sono stati infatti sottolineati tali effetti negativi, specie in seguito al ricorso all’aumento dei tassi di interesse (con l’intento di attrarre capitali dall’estero) posto in essere dal paese non virtuoso, e alle relative spirali concorrenziali che verrebbero così a crearsi tra gli Stati, essendo, in regime di moneta unica, venuti meno i differenziali di cambio e le relative aspettative».

231 Come espressamente chiarito nella Decisione del Consiglio n. 95/236, contenente gli orientamenti di fondo delle

politiche economiche (di cui all’art. 103, comma 2, Trattato CE). In sostanza, il divieto di disavanzi eccessivi, prima dell’introduzione dell’euro, disvelava la propria ratio nell’esigenza, riferita retro, di limitare la partecipazione alla moneta unica alle economie tra loro omogenee, per evitare che la traslazione della singola economia nazionale in un mercato veramente unico potesse costituire un’esternalità negativa per le economie con performances migliori. Tuttavia, l’esigenza del divieto di disavanzi eccessivi perdura anche dopo l’entrata in vigore della moneta unica: in quanto assurta a regola di equa ripartizione tra gli Stati membri della complessiva capacità di indebitamento, posto che il ricorso di ogni Stato al finanziamento sul mercato influisce sui tassi di interesse praticati nell’intera area UE, risentendone tutti gli Stati che di questa fanno parte.

232 Nell’evidenziare l’importanza della conoscenza dei flussi reali e monetari, ai fini di un efficace coordinamento

sovranazionale sugli interventi economici attuati dagli Stati, C. Golino, op. cit., p. 16, spiega che «la quantificazione dei flussi è resa possibile da un metodo di rilevazione statistico e contabile che costituisce la base della contabilità economica nazionale. Quest’ultima sintetizza la formazione delle risorse del sistema e descrive il loro impiego in riferimento ad uno specifico intervallo temporale, di norma un anno solare». Preso atto della necessità storica di adottare il sistema di contabilità nazionale e trovare regole uniformi sul piano internazionale, per confrontare funditus i sistemi economici nazionali, con riguardo all’Europa l’Autrice spiega che «è stato elaborato nel 1970 il Sistema dei conti economici integrati (SEC), predisposto per ottenere la possibilità di un migliore confronto delle stime dei singoli Paesi membri. L’Italia adotta questo sistema a partire dal 1975. Dal 1999 è stata adottata la nuova versione, denominata SEC95 […]. Il SEC95 consente di fornire una visione più esaustiva dell’economia di un Paese, visto che prevede, tra l’altro, la stesura dei conti patrimoniali e delle variazioni delle attività e passività».

111

Questi elementi venivano tutti ritenuti essenziali e sufficienti nell’ottica anche della sorveglianza multilaterale, con la quale il singolo Stato era sottoposto alla peer pressure degli altri Stati membri, funzionale ad attribuire maggior peso alle indicazioni provenienti dalle Istituzioni europee e a garantire un’effettiva conoscenza agli Stati membri dei progressi reciproci nell’integrazione economica tra i loro vari bilanci.

Nell’ambito della procedura sui disavanzi eccessivi, infatti, l’art. 104 C del Trattato prevedeva una fase interlocutoria tra lo Stato e la Commissione, che si concludeva con un atto di natura conoscitiva, a cui seguiva una fase consultiva e l’emanazione di un parere della Commissione stessa ai sensi dell’art. 189. Sulla base di questo parere il Consiglio, organo di natura politica, constatava la sussistenza o meno di un disavanzo eccessivo. Nel primo caso, era prevista una fase a contenuto intimidatorio (con cui il Consiglio ammoniva lo Stato a tenere una certa condotta) e, successivamente ed eventualmente, una fase a contenuto sanzionatorio (per il caso di mancato adeguamento dello Stato nel senso propugnato dal Consiglio).

La procedura esaminata e il radicamento dei principali poteri in capo al Consiglio nel caso sussistesse un disavanzo eccessivo sono significativi dell’interesse comune che i vari Stati membri vantavano nella valutazione delle politiche di finanza pubblica intraprese dagli altri, pur nel rispetto della sovranità nazionale in materia di politiche di bilancio, che restava contraddistinta dal principio di sussidiarietà. Anche se occorre precisare che, in un panorama d’insieme del Trattato, quello che veniva ritenuto eccessivo era solo il disavanzo relativo alla parte corrente del bilancio, non essendo considerato, per contro, il disavanzo che scaturiva dalle spese per investimenti di per sé indice di una gestione “sana”.

Tuttavia, si riteneva che anche le politiche di bilancio dovessero essere oggetto di un vigile monitoraggio da parte dell’Unione Europea, in quanto, diversamente opinando, il percorso di avvicinamento all’adozione della moneta unica sarebbe stato inevitabilmente claudicante. E di ciò le Istituzioni Europee erano ben consapevoli, al punto che il 19 luglio del 1996, la Commissione, con una nota dal titolo “Ensuring budgetary discipline in stage three of Emu”, osservava come la preservazione di un certo rigore nel bilancio in questa fase di transizione rappresentasse «una condizione essenziale per sfruttare tutti i benefici della moneta unica». Infatti, dovendo considerarsi il valore di riferimento del 3% del PIL per il disavanzo come un limite superiore in circostanze normali, occorre che la strategia si fondi su un approccio a due livelli alla disciplina sul

budget e al coordinamento della politica di bilancio. Sicché, da un lato, gli obiettivi di bilancio di

112

sotto del 3% in condizioni normali e permette una certa differenziazione fra i Paesi membri; dall’altro, è necessario un coordinamento dell’Unione delle politiche di bilancio, affinché sia assicurato che esse delineino un disegno coerente per l’Unione nel suo insieme.

Per tale via, si è giunti alla definizione di una risoluzione del Consiglio europeo di Amsterdam, nel 1997, nota come Stability and Growth Pact, che, pur non assurgendo a fonte di diritto europeo, possedeva comunque una forte valenza politica e persuasiva. Da più parti si è messa in evidenza l’attitudine precettiva e, conseguentemente, l’efficacia dei vincoli posti sulle procedure di bilancio. In particolare, si è evidenziata la transizione da un sistema in cui il divieto dei disavanzi eccessivi viene inteso “in negativo”, ad un sistema in cui gli obiettivi sono fissati “in positivo”, con ciò dando per presupposto il funzionamento del patto di stabilità, con l’imposizione del conseguimento di certi risultati di gestione nei conti pubblici233.

Sostanzialmente ispirato dal principio di sorveglianza multilaterale, con tale patto sono stati raggiunti degli accordi sia su questioni sostanziali, che procedurali.

Quanto al primo aspetto, sul piano del divieto di disavanzi eccessivi, si è puntato a imporre agli Stati di raggiungere «una situazione di bilancio a medio termine che preveda un saldo» tendente al pareggio, se non addirittura positivo. Peraltro, si auspicava che tale tendenza ispirasse le politiche di bilancio degli Stati non solo nella terza fase, prodromica all’adozione della moneta unica, ma anche successivamente.

Per quanto concerne gli aspetti procedurali, sono stati sottratti alla Commissione margini di discrezionalità, dovendosi ritenere la medesima «invitata» ad agire ogni qual volta il disavanzo di uno Stato oltrepassasse la soglia del 3%, eventualmente motivando in forma scritta la propria posizione. Venivano poi stabilite altre regole: dall’entità delle sanzioni da irrogare (consistenti in depositi infruttiferi o ammende pari a una quota fissa del 0,2% del PIL e a una quota variabile dello 0,1% calcolata sulla differenza tra il disavanzo effettivo e la soglia del 3%); a termini procedurali; a procedura velocizzate in situazioni particolari (se risultava che il disavanzo fosse stato programmato deliberatamente); infine, a ipotesi di sospensione della procedura.

233

In tal senso, tra gli altri, G. Della Cananea, Il Patto di stabilità e le finanze pubbliche nazionali, in Rivista di diritto finanziario e di scienza delle finanze, n. 4 del 2001, pp. 561 e ss.; al tempo stesso, R. Perez, Il Patto di stabilità e crescita: verso un Patto di flessibilità?, in Giornale di diritto amministrativo, n. 9 del 2002, p. 1000. G. Rivosecchi, op. cit., p. 380, nel mettere in evidenza “gli effetti positivi” del Patto di stabilità e crescita, osserva come questi si dispieghino in due direzioni: «da un lato, [il Patto] costringe ad una sana disciplina di bilancio i paesi aderenti all’Unione e garantisce gli equilibri finanziari in una prospettiva “integrazionista” e federalista. Riducendo, in particolare, le differenze in termini di finanza pubblica tra i vari paesi, esso consente di fornire adeguate risposte ai possibili shock asimmetrici in assenza di un’autorità unica in materia di politica economica. Dall’altro, esso determina effetti positivi sulla disciplina di bilancio dei singoli paesi, specie in funzione di stabilizzazione».

113

Par. 2.2: Dall’introduzione della moneta unica alla Governance europea (passando

Outline

Documenti correlati