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Par 6.1 La soft law in materia di istruzione e formazione professionale.

Per quanto concerne in particolare i settori dell’istruzione e della formazione professionale, è bene ribadire un concetto e sgomberare subito il campo da qualunque suggestione. Gli artt. 165, par. 4, e 166, par. 4, TFUE, che disciplinano, rispettivamente, le materie citate, in tema di

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R. Baratta, op. ult. cit., p. 527-528, nel tentare di definire una categoria generale di clausole di flessibilità, suppone come esse, nel sistema di gerarchia delle fonti, possano definirsi «atti sopra legislativi collocandosi tra i trattati e le fonti legislative, o ancora fonti intermedie nella misura in cui modificano il diritto primario senza ricorrere alla procedura ordinaria di revisione e i loro effetti si impongono al legislatore». In particolare, in questa categoria, egli ricomprende anche altre disposizioni: «rilevano, per un verso, le norme che permettono di ampliare le competenze attribuite tramite talune procedure speciali di revisione che richiedono l’unanimità del Consiglio» (es.: art. 83, par. 1, 3° comma TFUE, ai sensi del quale all’unanimità, il Consiglio, previa approvazione del Parlamento europeo, può ampliare le sfere di criminalità con carattere transnazionale e per le quali siano necessarie azioni su base comune, sulle quali l’Unione europea può definire norme minime sulla definizione dei reati e sulle sanzioni); «assumono rilievo, per altro verso, la clausola generale in tema di passaggio dall’unanimità alla maggioranza qualificata e dalla procedura speciale a quella ordinaria (art. 48, par. 7 TUE, commi 1 e 2), nonché varie altre passerelle applicabili a settori specifici» (art. 31, par. 3, TUE, in materia di PESC; art. 81, par. 3, 2° comma, TFUE, in materia di diritto di famiglia avente implicazioni transnazionali; art. 153, par. 2, 4° comma, TFUE, in materia di politiche sociali; art. 192, par. 2, 2° comma, TFUE, in materia ambientale; art. 333, parr. 1 e 2, TFUE, in materia di cooperazioni rafforzate).Non è questa la sede per affrontare le pur interessanti questioni di problematicità che tali clausole rappresentano (come, per esempio, il presunto aggiramento delle procedure legislative nazionali di revisione dei trattati e, quindi, la lamentata crisi di democraticità nel loro concreto esplicarsi o, secondo alcuna dottrina, il fenomeno della «sham democracy» - G. Davies, Democracy and Legitimacy in the Shadow of Purposive Competence, cit., p. 3), per le quali si rimanda alle monografie di settore.

200 L. Einaudi, La Guerra e l’Unità Europea, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 40, in cui si trovano raccolti organicamente una

serie di scritti e articoli di giornale di Luigi Einaudi, che vanno dal 1918 agli anni Sessanta. L’Autore, ibidem, p. 41-42, prosegue: «Quella [idea] della società delle nazioni non solo è monca, ma va contro il fine che si vuole raggiungere. Poiché essa è ancora una lega fra stati “sovrani”, essa rinnega il principio dal quale muove. Ponendoli gli uni accanto agli altri, acuisce gli attriti fra gli stati, li moltiplica, proclama al mondo la volontà degli uni a non volere adattarsi all’uguale volontà degli altri, epperciò cresce le occasioni di guerra». Sicché, conclude l’illustre Autore, non c’è altra soluzione, se non quella «di mettere accanto agli stati attuali un altro stato. Il quale abbia compiti suoi propri ed abbia un popolo “suo”. Invece di una società di stati sovrani, dobbiamo mirare all’ideale di una vera federazione di popoli […]. Gli organi supremi, parlamento e governo, della confederazione non possono essere scelti dai singoli stati sovrani, ma debbono essere eletti dai cittadini della confederazione. Esercito unico e confine doganale unico sono le caratteristiche fondamentali del sistema. Gli stati restano sovrani per tutte le materie che non siano delegate alla federazione; ma questa sola dispone delle forze armate, ed entro i suoi confini vi è una cittadinanza unica ed il commercio è pienamente libero». Solo in questo modo i conflitti, certo, non spariranno, ma saranno spinti lontano, ai limiti della federazione.

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competenza hanno cura di precisare che le azioni dell’Unione sono, nel primo caso, finalizzate all’adozione di misure incentivanti; nel secondo caso, finalizzate all’adozione di misure atte a contribuire alla realizzazione degli obiettivi previsti nell’articolo 166. Ma in entrambi i casi viene esclusa qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri.

In questo contesto, in sostanza, l’Unione Europea dispone di una competenza soltanto complementare, potendo utilizzare unicamente atti c.d. di soft law, consistenti, essenzialmente, in misure di incentivazione (art. 165, cit.), in raccomandazioni (artt. 165 e 166, cit.) e in più generiche misure atte al conseguimento degli obiettivi (art. 166, cit.).In particolare, in entrambe le materie, l’adozione delle misure suddette viene demandata al Consiglio e al Parlamento europeo, che deliberano in conformità alla procedura legislativa ordinaria (di cui all’art. 294, TFUE), previa consultazione del Comitato Economico e Sociale e del Comitato delle Regioni; sempre in entrambi i casi, il Consiglio può adottare anche raccomandazioni, su proposta della Commissione.

In occasione dell’elaborazione della Strategia di Lisbona, l’Unione Europea e gli Stati membri posero le fondamenta per il ricorso al metodo aperto di coordinamento201, nelle materie, tra le altre, dell’istruzione e della formazione professionale.

Tale metodo si caratterizza per una politica dell’Unione che non si traduce in atti vincolanti, ma consiste nella fissazione di obiettivi, cui le politiche nazionali tendono a convergere. Da un lato, la Commissione Europea svolge un ruolo di coordinamento e di sorveglianza, con un’azione di monitoraggio delle politiche degli Stati adottate per il conseguimento degli obiettivi; dall’altro, opera il meccanismo della peer pressure, mediante il quale gli Stati membri si valutano reciprocamente.

Per linee essenziali, il metodo aperto di coordinamento202 si basa su alcuni momenti fondamentali:

201

M. Cocconi, Il diritto europeo dell’istruzione, Oltre l’integrazione dei mercati, cit., 2006, p. 198, osserva che «l’introduzione del metodo aperto di coordinamento doveva rispondere, sulla base della strategia di Lisbona, alla necessità di preservare e al tempo stesso di adeguare le istituzioni degli Stati sociali nazionali ai mutamenti strutturali dell’economia europea discendenti dall’apertura alla concorrenza globale, consentendo, al tempo stesso, di preservare i tradizionali valori portanti di solidarietà del modello sociale europeo». L’Autrice, ibidem, pp. 199-200, ritiene che il metodo aperto di coordinamento sia il mezzo più idoneo a conseguire lo scopo di una «individuazione dell’identità storico-sociale dell’Unione» e di «contribuire a rafforzarne la sua “legittimazione sostanziale” verso gli Stati membri», per due ragioni: «Da un lato, l’aumento della concorrenza interna al mercato comune rendeva insufficienti a preservare tali valori interventi di riforma dei sistemi sociali limitati a livello nazionale per il rischio del ricorso, da parte dei singoli Stati membri, a misure di dumping sociale» (ossia quel meccanismo in base al quale gli Stati – con la propria attività normativa, ad esempio, in materia di orario di lavoro, sicurezza, protezione dell’ambiente e retribuzione – consentono alle imprese di scaricare sui sistemi sociali nazionali i costi della precarizzazione del lavoro e della disoccupazione, guadagnando competitività sul mercato europeo). Dall’altro lato, «pertanto, si rendeva necessario indurre gli Stati membri ad accettare una convergenza nel settore sociale verso alcuni obiettivi condivisi», ciò che non poteva avvenire tramite normativa vincolante europea, stanti le resistenze degli Stati membri.

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- il Consiglio adotta un atto in cui vengono identificati e definiti gli obiettivi comuni da raggiungere (guidelines);

- si attua una procedura di benchmarking, in base alla quale vengono identificati degli strumenti che “misurano” quantitativamente e qualitativamente l’indice di conseguimento degli obiettivi, con la fissazione di scadenze temporali e parametri di riferimento e l’avvio di un learning

process tra gli Stati, che consenta a questi, nelle relazioni reciproche, di apprendere le best practicies;

- gli Stati membri redigono i propri piani nazionali per concretizzare le linee comuni, trasformandole in obiettivi di livello nazionale e regionale;

- la Commissione redige una relazione, sulla base della quale il Consiglio dispiega la propria attività di monitoraggio e valutazione ed eventualmente adotta delle raccomandazioni.

I concetti di “apertura” e “coordinamento” del metodo in discussione, quindi, sono il frutto di una sintesi tra le esigenze di tutela delle identità nazionali, nei settori, fra gli altri, dell’istruzione e della formazione professionale, e di partecipazione alla realizzazione degli obiettivi comuni da parte di tutti gli stakeholders sociali (Stati, Regioni, Enti locali e organizzazioni private), da un lato; e le esigenze di un processo di integrazione europea che trascenda i ristretti limiti del mercato, dall’altro.

Sulla strutturazione di tale metodo inoltre convergono i principi ispiratori di diversi strumenti, cui l’UE fa ricorso per disciplinare politiche di integrazione europea in parallelo all’integrazione economica: da un lato, si attinge al metodo comunitario, per il ruolo di coordinamento del Consiglio europeo, che valuta e monitora il percorso di convergenza verso gli obiettivi comuni, sulla base di un rapporto predisposto dalla Commissione; dall’altro, del metodo intergovernativo viene enfatizzato lo sforzo di sussidiarietà, decentrando a livello statale, regionale e locale le azioni intraprese e valorizzando il ruolo delle parti sociali e della società civile, con politiche di partenariato variamente declinate203.

202 Per un approfondimento teorico specifico su tale metodo, cfr., ex multis, S. Del Gatto, Il metodo aperto di

coordinamento: amministrazioni nazionali e amministrazione europea, Napoli, Jovene, 2012; AA.VV., Assessing the Open Method of Coordination. Institutional Design and National Influence of EU Social Policy Coordination, edited by E. Barcevičius, J. Timo Weishaupt and J. Zeitlin, Hampshire, Palgrave Macmillan, 2014.

203 In coerenza con quanto si va affermando, M. Cocconi, op. ult. cit., pp. 203-204, nel considerare il metodo aperto di

coordinamento più un “affinamento”, che un’innovazione delle varie forme di coordinamento previste dai Trattati, osserva che «la portata innovativa del metodo introdotto da Lisbona non consiste infatti nel superamento dei procedimenti già contemplati a livello costituzionale ma nella loro inclusione all’interno di una strategia complessiva e coerente, comprensiva di misure di liberalizzazione, di politiche di coesione e di riforma sociale [tra cui si riscontrano obiettivi di formazione permanente, di alto livello di istruzione, protezione sociale, politiche occupazionali attive], di politiche di sostegno alla crescita macroeconomica, accanto a quelle di preservazione della stabilità, e di misure

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In definitiva, la logica alla base del metodo in discussione è quella di utilizzare, come già accennato, gli atti di soft law, che al tempo stesso costituisce il punto di forza e la debolezza delle politiche europee in ambito di coesione sociale. Il punto di forza è costituito dal ridimensionamento delle critiche di delegittimazione democratica204, che accompagnano le politiche europee in cui si fa ricorso ad atti legislativi vincolanti; ma la debolezza è l’assenza di strumenti di coazione e di dispositivi sanzionatori, in primis, per il caso di mancato conseguimento degli obiettivi comuni indirizzati dal Consiglio agli Stati membri con le guidelines e, successivamente, per il caso di mancato adempimento delle prescrizioni a questi rivolte con le eventuali raccomandazioni adottate dal Consiglio stesso.

Per concludere, gli elementi di funzionamento del metodo aperto di coordinamento predominanti sono la peer preassure intergovernativa e la spirale di emulazione indotta dalla comunicazione reciproca tra gli Stati delle best practices.

microeconomiche [tra cui si possono annoverare le riforme dei mercati finanziari, le politiche delle imprese, con particolare attenzione alle PMI, innovazioni tecnologiche e l’e-commerce]».

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Sul punto, per una critica costruttiva allo stato di delegittimazione democratica di quella che viene definita tecnocrazia europea, con particolare riguardo alla tematica delle competenze, cfr. G. Davies, op. cit.; inoltre, cfr. G. Majone, Rethinking the Union of Europe Post-Crisis: Has Integration Gone too Far?, Cambridge, University Press, 2014, pp. 179 e ss: in particolare, ibidem, p. 179, l’opinione dell’autore si sintetizza nell’affermazione in base alla quale, nessuno Stato può diventare membro dell’Unione, senza prima essere stato riconosciuto come “democratico” dagli altri Stati membri. E, ciò posto, «The EU istself, however, is not a fully-fledged democracy: it suffers from a serious “democratic deficit” – not a total absence but an incomplete development, or even a distortion, of the practicies and istitutions of representative democracy. For example, legislation can only be initiated by the non-elected European Commission». E proprio in questa antinomia si annida il paradosso: «if the EU were a state it could not become a member of the Union». Anche se non manca chi invece sostiene tra le righe delle proprie asserzioni l’opposto, affermando che «In Europa, in verità, c’è molta Europa, molta più di quanta ne immaginiamo: l’Europa “reale” è diversa, più profonda, più presente – e, in realtà, migliore – dell’Europa “percepita”, sia sotto il profilo della qualità, che sotto quello della quantità»: B. Caravita, Quanta Europa c’è in Europa?, Torino, Giappichelli, 2015, p. 7.

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CAPITOLO TERZO.

IL WELFARE (E IL DIRITTO ALL’ISTRUZIONE) ALLA PROVA DELLA CRISI ECONOMICA.

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