4. Nazionalismo, radicalismo e comunismo, tra lotta per l’indipendenza e questione sociale
4.5 Crisi economica e movimenti di massa: dall’individuale al sociale
La crisi economica mondiale, che cominciò nel 1929 e durò sino al 1933-34, ebbe pesanti ripercussioni sul sudest asiatico. Alcune delle categorie di beni che più subirono la crisi, materie prime e beni alimentari di prima necessità, erano infatti i settori sui quali si basavano le economie del sudest. Ma la crisi fu ancora più profonda. Dagli anni trenta, l’Indocina “smise di funzionare”. Sino a qualche anno fa gli studiosi occidentali avevano sottovalutato il decennio precedente gli anni della seconda guerra mondiale, ma non è più così34.
La crisi economica si trasformò spesso in crisi sociale. In Birmania une ribellione agraria si scatenò nel distretto di Tharrawaddy, in Indonesia e nelle Filippine il malcontento venne utilizzato da alcune organizzazioni di sinistra per scatenare una rivolta nel 193135. In Malaysia la crisi economica fece emergere la precarietà di una società basata su una divisione del lavoro su base razziale: 167.903 cinesi, rimasti disoccupati, furono rimpatriati36.
A Giava e nel Siam le particolari condizioni economiche attutirono gli effetti della crisi, e forse anche per questa ragione non si registrarono disordini sociali. In questi paesi il commercio con l’estero era gestito dagli stranieri, che furono coloro che maggiormente subirono la crisi. A livello popolare, vi fu un aumento della disoccupazione, che però non si trasformò in disoccupazione di massa37.
La crisi economica, in definitiva, dimostrò come, oltre l’economia di sussistenza, si fosse sviluppata nel sudest un’economia basata sull’esportazione. I movimenti sociali del 1930-31, però, non possono essere spiegati solamente con la crisi. Ad essa bisogna aggiungere la condizione specifica di ogni singolo paese, e la capacità organizzativa e d’elaborazione delle organizzazioni che guidarono la protesta38.
33 Cfr.T
RAN HUY LIEU, Les Soviets du Nghe-Tinh, Edittions en langues Etrangères, Hanoi 1960, p. 24
34 Cfr. M
ILTON OSBORNE, “Continuity and in the Vietnamese Revolution: New Light from the 1930's”, in
Pacific Affairs, vol. 47, n. 1 (Spring, 1974), pp. 37-45. Cfr. anche NGO VINH LONG, “Rewriting Vietnamese History”, in Journal of Contemporary Asia, vol. 10, 1980 pp. 286-292
35 Cfr. D
AVID JOEL STENBERG (edt.), In Search of Southeast Asia A Modern History, University of Hawaii Press, Honolulu 1987, pag. 288, e DANIEL GEORGE EDWARD HALL, Storia dell’Asia sudorientale, Rizzoli, Milano 1972, pp. 943-948
36
Idem, p. 975
37 Idem, pp. 969 e 990
38 Pierre Brocheux sostiene che i rivolgimenti politici vietnamiti del 1930 e del 1931 furono coincidenti
con la crisi economica mondiale, ma non legati da un rapporto di causalità. E’ sempre difficile in storia contemporanea stabilire quando prevalga la diretta causalità tra due eventi. Mi limito a notare che anche in Birmania e nelle Filippine vi furono nel 1930 delle ribellioni. In Viet Nam, come abbiamo visto nel precedente capitolo, le condizioni di vita dei contadini non erano migliorate, bensì peggiorate nel corso dei primi tre decenni del Novecento. La crisi mondiale aggravò ulteriormente la povertà contadina, e la storia dei movimenti popolari ci insegna che, nel caso una classe o un ceto viva in condizioni di indigenza, spesso basta un solo leggero peggioramento perché scoppi la rivolta. Si tratta della classica
Nel caso del Viet Nam, già a fine anni venti, prima della crisi, divenne evidente come la
mise en valeur francese si era tradotta solamente nell’aumento dei profitti per alcune
grandi imprese francesi e per alcuni grandi proprietari terrieri locali. Le condizioni di vita della popolazione non erano migliorate, anzi. L’economia di sussistenza, unica garanzia contro la morte per fame, era messa in pericolo dall’avanzata dell’economia monetaria di scambio.
Della grave situazione si accorsero anche le élite politicizzate delle città. La lotta per l’indipendenza, se voleva raggiungere dei risultati, doveva avere un seguito di massa. Le strategie collaborazioniste, di rivendicazione legale di cambiamenti, s’erano rivelate fallaci,.
Il caso del Viet Nam Quoc Dan Dang (VNQDD) è a tal proposito esemplare. Il VNQDD venne fondato il 25 dicembre 1927 ad Hanoi da Nguyen Thai Hoc39. Hoc, ex studente della scuola di commercio, a partire dal 1925 aveva cominciato l’attività politica. Inizialmente essa si limitò alla presentazione di richieste di miglioramento delle condizioni di vita dei poveri, di promozione e protezione dell’economia nazionale. Tali richieste, però, vennero sistematicamente rifiutate dall’autorità coloniale e Hoc progressivamente si orientò sempre più a sinistra.
Il programma della VNQDD tentava di unificare le aspirazioni alla liberazione nazionale e quelle alla liberazione sociale. Esso faceva chiaramente riferimento al Guomindang alleato dei comunisti e alle parole d’ordine di Sun Yat-sen. L’emancipazione sociale di tutto il popolo era uno degli obiettivi primari, però la lotta di classe veniva rifiutata poiché avrebbe diviso il popolo vietnamita e, quindi, implicitamente aiutato i francesi nella loro opera repressiva. Il motto “Democrazia, Nazione, Società” riassumeva l’impostazione del VNQDD.
Composto prevalentemente di piccoli intellettuali e di giovani, il VNQDD disponeva anche di una piccola ma attiva base lavoratrice e operaia. Il programma politico del partito, che era strutturato su basi leniniste, puntava tutto sul lavoro organizzativo ed educativo. L’agitazione di massa era posta in secondo piano rispetto agli atti eclatanti e agli attentati terroristici. Ciò era dovuto sia alla composizione di classe del partito, sia al rifiuto dell’agitazione di classe.
Il VNQDD agiva in competizione con la Thanh Nien. Nel 1929, al fine di sottrarre consensi ad essa tra i lavoratori delle piantagioni del sud, Nguyen Van Nien, militante della commissione lavoratori della VNQDD, propose l’uccisione del direttore generale dell’azienda che s’occupava di reclutare lavoratori stagionali o annuali nel nord da inviare nelle piantagioni del sud. Nguyen Thai Hoc, consapevole che tale azione avrebbe potuto decapitare l’organizzazione a causa della repressione che ne sarebbe seguita, si oppose all’operazione. Nguyen Van Nien, però, agì ugualmente e Hervé Bazin venne assassinato il 9 febbraio 1929. Cominciò una repressione che, in definitiva, sancì la fine dell’organizzazione.
Il VNQDD, pur strutturato su basi leniniste, non fu capace né di tenere segreta la sua organizzazione, né di renderla immune dalle infiltrazioni, né di evitare le delazioni dei suoi membri. Un anno dopo, il 26 gennaio 1930, si incontrarono i resti del VNQDD, i quali decisero che, nonostante la sconfitta fosse vicina, si dovesse ugualmente lanciare un’insurrezione generale. Vale la pena di riportare parte della dichiarazione di Hoc. Essa da l’idea dell’impostazione ideale del nazionalismo vietnamita: “La vita è un gioco al buio; se ti vengono consegnate carte nere, tu resisti per perdere tutto il tuo capitale.
goccia che fa traboccare il vaso. Per le posizioni di Brocheux vedi PIERRE BROCHEUX, “The State and the 1930s Depression in French Indo-China”, in PETER BOOMGAARD, IAN BROWN, Weathering the Storm
The Economies of Southeast Asia in the 1930s Depression, Pasir Panjang, Intitute of Southeast Asian
History, Singapore 2000, pp. 251-259
39 H
La fortuna è contro di noi e il Partito corre il rischio di dissipare tutte le sue forze. Una volta che la paura è entrata nel cuore della gente, essa perderà l’entusiasmo e la fede, e il movimento rivoluzionario diventerà freddo quanto la cenere. Noi perderemo il supporto del popolo, e prima o poi ci arresteranno. Moriremo di una morte lenta e solitaria nelle prigioni e nei campi penali. E’ meglio morire adesso e lasciare dietro di noi l’esempio del sacrificio e lottare per le prossime generazioni. Se non avremo successo, almeno saremmo diventati uomini”40.
L’insurrezione del 1930, che passò alla storia come insurrezione di Yen Bai, fu un totale insuccesso, segnò la fine della VNQDD e la morte di Nguyen Thai Hoc. La parabola del VNQDD può essere considerata la parabola del nazionalismo che, lontano dalle posizioni anarcoidi di Nguyen An Ninh, tentava di ripetere in Viet Nam l’operazione che, in parte, riuscì al Guomindang in Cina.
Il tentativo fallì. L’impatto della grande depressione, la reazione della borghesia vietnamita ai movimenti popolari del 1930 e del 1931, l’insoddisfacente costruzione teorica, che sfiorava il marxismo ma non ne accettava le più elementari conseguenze, pose in crisi il programma e la strategia dei nazionalisti.
Se gli anni venti furono gli anni della ribellione individuale, gli anni trenta furono perciò gli anni dell’entrata delle masse nella vita sociale e politica vietnamita.
I nazionalisti alla Nguyen Thai Hoc, che pure avevano inteso che qualcosa stava cambiando, non furono in grado di lasciare completamente il vecchio per approdare al nuovo. Tanti di loro, superata la tempesta del 1929, del 1930 e del 31, aderirono al PCI. Per esempio, tanti di coloro che a Parigi, nel maggio del 1930 protestarono contro la repressione coloniale che seguì la rivolta di Yen Bai, e che vennero deportati a Saigon, divennero i protagonisti della vita politica nazionale su posizioni marxiste41.
Ma ciò che scosse il Viet Nam in quegli anni furono i sollevamenti popolari, le rivolte contadine, gli scioperi dei lavoratori. Il PCI, che come vedremo nacque ufficialmente nel febbraio del 1930, individuò nelle manifestazioni previste per il primo maggio 1930 la prima occasione pubblica per far sapere al popolo vietnamita che una nuova grande organizzazione, radicata in tutto il territorio nazionale, era nata e si candidava a rappresentare e guidare i lavoratori e i contadini.
Le manifestazioni di quell’anno furono particolari: mentre nelle città le mobilitazioni rientrarono nella norma, nelle campagne il primo maggio divenne spesso il punto di partenza di grandi movimenti rivendicativi. Nel sud, a Long Xuyen e Cao Lanh, le azioni di protesta durarono sei settimane42.
La più grande mobilitazione si ebbe nello Nghe-Anh43. Qua le manifestazioni, composte di migliaia di contadini, attaccarono le sedi delle autorità. Non si trattò solamente di continue e ripetute manifestazioni di massa, quanto della creazione di un altro potere: il controllo coloniale venne dissolto, vennero stabilite nuove istituzioni di villaggio, in alcuni casi si arrivò alla confisca delle terre per i ricchi proprietari terrieri.
La direzione provinciale del PCI appoggiò e cercò di governare una rivolta che non controllava appieno. A livello centrale, ci si accorse subito che, senza un allargamento della rivolta ad altre province, i francesi avrebbero ben presto represso nel sangue la
40 “Life is like a game of chance; if you are dealt black cards, you stand to lose all your capital. Fortune is
against us and the Party runs the risk of dissipating all its forces. Once fear has entered the heart of people, they will lose their enthusiasm and faith, and the revolutionary movement will become as cols as dead ashes. We will lose support, and we will be arrested sooner or later. We will die a slow and lonely death in prisons and penal camps. It is better to die now and leave behind the example of sacrifice and striving for later generations. If we do not succeed, at least we will have become men”. Idem, pp. 221-222
41 D
AVID MARR, cit., pp. 40 e 387
42
Idem, p. 380
43 Cfr. T
ribellione. Si cercò, quindi, di innescare delle ribellioni in altre province ma, a parte il caso della provincia dello Quang Ngai, i risultati furono negativi.
Il Partito non scelse di criticare dall’esterno l’avventurismo dei contadini, quanto di difendere ad ogni costo, anche se si era consapevoli che si sarebbe andati verso una cocente sconfitta, il “soviet” dello Nghe-Tinh44. In questo modo, il PCI si pose alla testa del movimento, cercò di adeguare la lotta armata e le istituzioni che s’erano formate alla situazione concreta, e lanciò una campagna nazionale di sostegno ai rivoltosi. Nel giro di qualche mese, però, i rivoltosi vennero sconfitti. Essi avevano ucciso circa 130 persone, mentre i francesi ne ammazzarono 3.000, e ne incarcerarono tra 3.000 e 4.00045.
Per la prima volta, i contadini dimostrarono che era possibile sconfiggere i francesi, e che l’alleanza contadini-lavoratori era la soluzione verso cui doveva tendere incessantemente il PCI, perché solamente in questo modo la rivoluzione sarebbe potuta diventare realtà.
Il partito, i cui membri nel 1930 e 1931 subirono una feroce repressione che ne portò migliaia in prigione, trasse dal soviet dello Nghe-Tinh alcune importanti lezioni. Emersero tutti i limiti di un’impostazione volontarista, che non tenesse conto della capacità di reazione dei francesi, e della più generale situazione economico-sociale vietnamita. Emerse la necessità di un’azione nazionale: una rivolta locale o dei favorevoli rapporti in una regione non erano sufficienti per rovesciare il regime coloniale; era necessario un piano nazionale, che venisse condotto in maniera omogenea a livello locale. Emerse il bisogno di un ampio lavoro di preparazione, per la creazione di un’ampia organizzazione, formata da quadri che avessero solidi legami di massa. La repressione del 1930-31 non permise una ripresa immediata dell’attività sulla base dei nuovi principi. Essi, però, vennero discussi nelle prigioni, rielaborati da singoli e dal partito durante gli anni trenta, quando, lentamente, ricominciò il lavoro di costruzione dell’organizzazione. Di sicuro, la sinistra comunista e rivoluzionaria era entrata con forza nella storia del paese. Ed è un dato di fatto che, al di là delle divisioni tra trotskysti e stalinisti nel Nam Bo, da allora i comunisti ebbero il sopravvento all’interno del movimento anticolonialista.