Parte seconda
5. La seconda guerra mondiale e la calma tempestosa dell’Indocina
5.2 L’inizio della fine delle colonie
Nel luglio del 1914 più di 72.000 kilometri quadrati e più di 560 milioni di persone erano sotto il controllo di una potenza coloniale. Più della metà della superficie terrestre e circa un terzo della popolazione mondiale26. E poi c’erano i domini, come il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda, e semi-colonie come la Cina e la Persia.
La prima guerra mondiale portò cambiamenti profondi e duraturi nel sistema coloniale. Si modificarono i rapporti di forza27.
Nonostante la Gran Bretagna e la Francia continuassero ad avere immensi imperi coloniali, e nonostante la divisione a loro vantaggio dei resti dell’impero ottomano, esse persero la capacità economica propulsiva che le caratterizzava a vantaggio di altri stati imperialisti: Stati Uniti e Giappone. Da nazioni creditrici, Gran Bretagna e Francia divennero potenze debitrici nette dopo la guerra28. E gli 8,5 milioni di militari europei morti, insieme ai 5 milioni di civili, forse erano un danno ancora più grande di quello economico. La Gran Bretagna, pur mantenendo le sue colonie, operò un ridislocamento del suo apparato difensivo verso lo scenario Europeo29.
La Germania sconfitta perse le proprie colonie a vantaggio delle altre potenze. L’Italia ed il Belgio, pur potenze coloniali, non avevano i mezzi e la volontà per imporsi come forze realmente globali. E purtuttavia, proprio tra le due guerre la dimensione fisica delle conquiste coloniali raggiunse il suo più alto livello30.
L’anticolonialismo di Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale, partorì il sistema dei mandati, che, se da una parte contribuirono a rendere la gestione dei territori da parte delle forze mandatarie una questione internazionale e non una questione interna, dall’altra non modificò la sostanza dei rapporti politici coloniali, sia nei mandati che nelle colonie vere e proprie31.
Dal punto di vista coloniale, ordine, razionalizzazione e sviluppo economico furono le nuove parole d’ordine che caratterizzarono gli anni venti32. Le esigenze di bilancio, che imponevano l’attivo nell’amministrazione delle colonie, e l’esperienza della prima guerra mondiale, durante la quale le colonie oltre che fornire materiale umano da mandare al fronte, rifornirono di materie prime le metropoli, suggerì una politica economica ed accordi commerciali che legassero le produzioni coloniali alle produzioni della madrepatria, ed una rivisitazione delle forme amministrative e di controllo della produzione e del territorio33. Nel 1929 il parlamento britannico approvò il Colonial
26 F
RANZ ANSPRENGER, The Dissolution of the colonial empires, Routledge, London 1989, p. 13
27
“Nel corso di ben due conflitti mondiali, le Potenze coloniali non esitarono a rendere le proprie colonie compartecipi delle vicende in corso, a spartire con loro vittorie e sconfitte, e, soprattutto, a dare loro in mano quelle armi espressione di Forza e Superiorità, rendendole compartecipi delle loro tecniche e tecnologie, delle loro risorse, delle loro culture; furono elargite promesse, che non si volle o non si seppe rispettare. Ma il clima ormai era profondamente cambiato rispetto ai decenni prebellici, come profondamente cambiate erano le mentalità e ambizioni dei dominati. E in questo senso si può correttamente tornare ad affermare che fu proprio il colonialismo il padre spirituale del risveglio politico asiatico e africano e, di conseguenza, del lungo travaglio che ne derivò”. VALERIA FIORANI PIACENTINI,
cit., p. 35
28 J
AMES FOREMAN-PECK, A History of the World Economy – International Relations Since 1850¸ Harvester, Great Britain 1995, p. 177
29 J
OHN DARWIN, The End of the British Empire – The Historical Debite, Blackwell, Oxford 1991, p. 58
30
RAYMOND F.BETTS, Decolonization, Routledge, New York 2004, p. 11
31 F
RANZ ANSPRENGER,cit., p. 32
32 Per il caso francese cfr. R
AYMOND F. BETTS, France and Decolonisation 1900-1960, Macmillan, London 1991, p. 21
33
RAYMOND F. BETTS, Uncertain Dimensions – Western Overseas Empires in the Twentieth Century, Oxford University Press, Oxford 1985, pp. 43-44
Development Act, che promuoveva il commercio, e nel 1931 in Francia si approvò una
legge che autorizzava prestiti alle colonie, a patto che venissero usati per rendere le economie locali profittevoli34.
Si crearono dei sistemi sempre più chiusi tra la metropoli e le colonie. Alle colonie veniva impedito, al contrario di ciò che successe durante la prima guerra mondiale, di sviluppare un proprio apparato industriale, che sarebbe stato in contrasto e concorrente con quello della madrepatria, ed assunsero invece il ruolo di fornitore di materie prime, le quali venivano scambiate con i prodotti manifatturieri prodotti metropolitani. Quest’impostazione favorì la specializzazione e le monoculture. Si realizzò quello sviluppo del sottosviluppo, di cui ancora oggi viviamo le conseguenze.
Le esportazioni francesi verso i suoi imperi crebbero dal 12,4% del totale nel 1913 al 15,2% nel 1928, e lo stesso può dirsi per l’impero britannico35. Secondo Betts, nel 1938 il commercio intracoloniale della Gran Bretagna e della Francia raggiunsero rispettivamente il 38 ed il 27%36.
Nonostante l’esperienza della prima guerra mondiale, che portò milioni di soldati coloniali a scoprire l’ipocrisia dei loro padroni, il peggioramento delle condizioni materiali di vita di tanta parte del mondo coloniale, e lo sviluppo, specialmente nelle città coloniali, sia di un’intellettualità per natura non pronta a subire un’inferiorità stabilita sia priori, sia di primi nuclei di lavoratori operai, gli anni venti non sembravano, e non furono, anni di crisi del sistema coloniale. In India, 60.000 bianche e 150.000 soldati indiani bastavano a tenere sotto controllo un subcontinente di 400 milioni di abitanti37. Mai prima nella storia un gruppo così piccolo di stranieri aveva controllato un impero così vasto.
Sono ancora oggi molto discusse sia le ragioni per le quali cominciò la corsa alle colonie, sia le ragioni per le quali essa terminò. Accettare l’impostazione leniniana, per cui il possesso di una colonia offriva piena garanzia per il successo di un monopolio economico di fronte alle incertezze della competizione con altri concorrenti, e quindi più sviluppato era il capitalismo, più sarebbe stata sentita la mancanza di materie prime, e più sarebbe diventa centrale la ricerca delle materie prime e quindi la corsa all’accaparramento di colonie, dovrebbe oggi, nel XXI secolo, far riflettere su cosa è stato il colonialismo, l’imperialismo, ma anche cosa è stato il neocolonialismo dopo la seconda guerra mondiale, posto che quel sistema capitalista di accaparramento delle risorse non è terminato con la fine delle colonie38.
La Grande Depressione, in ogni caso, fu un colpo pesantissimo per il sistema economico internazionale, che si riprese solamente alla fine della seconda guerra mondiale, e che segnò un nuovo arretramento nei rapporti tra gli stati imperialisti e le colonie. Per coloro i quali il 1914 non fu un momento di svolta, lo fu il 1929.
Gli stati imperialisti scaricarono i costi della crisi sulle colonie, che videro così diminuire la propria capacità di creare ricchezza attraverso il commercio. Ciò diede forza ai focolai di rivolta che, da allora, non si spensero sino a quando la
34 Idem, p. 97 35 J
AMES FOREMAN-PECK,cit., p. 201
36 R
AYMOND F.BETTS,Uncertain Dimensions – Western Overseas Empires in the Twentieth Century,
Oxford University Press, Oxford 1985, p. 98
37 F
RANZ ANSPRENGER,cit., p. 35
38 Si pensi, per esempio, alla diversa impostazione coloniale che gli USA esercitarono ed esercitano
tuttora. Cfr. SIDNEY LENS, The Forging of the American Empire, Pluto, London 2003 (prima edizione 1973). Per una discussione sul sistema coloniale britannico e sulle ragioni della sua fine, cfr. JOHN
decolonizzazione non fu terminata39. Dopo la prima guerra mondiale, inoltre, avanzò in Gran Bretagna, ma in generale in tutto il mondo imperialista, la consapevolezza che il nazionalismo dei popoli colonizzati sarebbe stato un elemento costante della questione coloniale, e perciò lo si doveva affrontare col tatto e l’attenzione del caso40.
La Grande Depressione colpì quasi tutti i paesi, ma in maniera diversa. Cominciata negli Stati Uniti nel 1929, qua la produzione scese del 30%, mentre la diminuzione fu solamente del 7% in Europa, con punte del 16% in Germania41. In generale, il commercio internazionale negli anni trenta fu un terzo di quello del 192942.
La crisi colpì specialmente le materie prime, cioé i beni prodotti dalle colonie. Le quotazioni del riso indocinese, per esempio, passarono da 7,15 piastre per 100 kilogrammi nel 1929 a 1,88 nel 1934. Mentre i singoli stati rispondevano ognuno con la propria maniera, chi con il New Deal, chi con il riarmo, chi con i piani quinquennali, quasi tutti con l’aumento del protezionismo, anche per i prodotti agricoli, le colonie dovettero subire la situazione. Rimasero legate al mercato mondiale o, meglio, al mercato della potenza imperialista di riferimento. Dovettero subire il protezionismo per i prodotti agricoli, e la politica della porta aperta per i prodotti industriali e manifatturieri. Tant’è che durante gli anni trenta i paesi europei e gli Usa crebbero, ma non i paesi asiatici (India, Thailandia e Cina)43. Crebbero anche i paesi dell’America Latina, ma perché non furono coinvolti nelle due guerre mondiali.
I territori diventati colonie, nel 1939, alla vigilia della seconda Guerra mondiale, erano territori profondamente diversi rispetto a quando le potenze imperialiste arrivarono. Avevano impattato frontalmente con il sistema produttivo e sociale capitalista e colonialista, ed avevano vissuto cambiamenti irreversibili. Da tutti i punti di vista. Economico, sociale e culturale.
E poi ci fu la seconda guerra mondiale. Fu un cambio di paradigma. “Con la Seconda Guerra Mondiale il problema coloniale si pone in termini nuovi: la Carta Atlantica prima, lo Statuto delle Nazioni Unite e la Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo poi, riconsacrano solennemente i principi della libertà e dell’autogoverno per
tutti i popoli. Non solo. Anche sul piano culturale si è ormai concluso un lungo processo di revisione: le teorie ottocentesche relative a un privilegio – o a una tara d’origine – che in passato avevano legittimato la superiorità di una razza sull’altra (ancora accettate da talune correnti di pensiero nel primo dopoguerra), ora vengono smentite non soltanto sul piano scientifico ma anche su quello politico. Pertanto, l’accettazione di principi quali quelli di un ‘diritto di dominio’ o di una ‘missione civilizzatrice dell’uomo bianco’, e di una corrispondente condizione di assoggettamento, non appaiono più ammissibili. Il godimento dei diritti civili e politici e, di conseguenza, il godimento della libertà individuale e collettiva – diventa un denominatore comune per tutti gli Uomini”44. 5.3 Il fascismo giapponese e l’invasione del sudest asiatico
La questione contadina, nel fascismo giapponese, assunse una centralità e un’importanza maggiore rispetto al caso tedesco e italiano. Nonostante l’industrializzazione e la modernizzazione avesse comportato il depauperamento dei contadini giapponesi, che videro peggiorare le loro condizioni di vita, i ceti medi agrari
39
Ma, a dimostrazione di quanto il fenomeno coloniale sia vario, nel 1935 avvenne, con l’invio delle legioni fasciste in Etiopia, l’ultima conquista portata avanti col benestare della Chiesa cattolica e coi vecchi metodi coloniali. Cfr. FRANZ ANSPRENGER,cit.. p. 2.
40 J
OHN DARWIN, cit., p. 102, e RAYMOND F.BETTS, France and Decolonisation 1900-1960, Macmillan, London 1991, pp. 19 e 31
41 C
HRISTOPHER DOW, Major Recessions – Britain and the World, 1920-1995, Oxford University Press, Oxford 1998, p. 393
42 J
AMES FOREMAN-PECK,cit., p. 176
43
Idem, pp. 181-185
44 V
e i grandi proprietari riuscirono a controllarne ed organizzarne il consenso, attraverso atti di irregimentazione sociale più o meno autoritari e violenti. In questo modo la violenza “sociale” venne irreggimentata e non poté trasformarsi in rivolte agrarie o nella nascita di partiti e movimenti socialisti che facessero riferimento ai contadini poveri45. Dentro questa strategia, l’esercito svolse un ruolo importante, in quanto proprio tra i contadini poveri, irreggimentati e non “ribelli”, andò a costruire il cuore delle proprie truppe46. In questo modo, l’esercito fu anche una delle modalità di utilizzo della manodopera eccedente delle campagne.
La struttura autoritaria dell’esercito, oltre ad una proiezione interna, sviluppò una proiezione esterna imperialista, la quale si legò agli interessi espansionistici delle grandi zaibatsu, che per mantenere i tassi di profitto pre-crisi economica degli anni trenta, spinsero per l’espansione strategica del paese fuori dai confini nazionali.
Nonostante ciò, il paese arrivò alla guerra con la Cina quasi impreparato. Sino a quel momento, la struttura dell’esercito e della marina, infatti, era preparata per una guerra con l’Unione Sovietica, cioè per una guerra di terra in un territorio freddo, piuttosto che per una guerra verso il sud, caldo e per la cui conquista s’aveva bisogno di una potente marina militare.
L’avanzata giapponese, sino alla fine del 1938, fu in ogni caso vittoriosa. Tra il 1939 e il 1941 ci fu un periodo di stallo. Nel frattempo, la Germania invase la Polonia e la seconda guerra mondiale scoppiò anche in Europa. La forza militare nazista sembrava invincibile, e inanellò una sequenza formidabile di successi.
Influenzati dalle vittorie naziste, i giapponesi cercarono, durante il 1940, di concludere la campagna di Cina. Falliti i tentativi di far nascere un governo nazionalista filo- nipponico, si individuò nella chiusura delle linee di rifornimento ai nazionalisti di Jiang Jieshi il primo passo verso la distruzione del regime nazionalista. Le direttrici attraverso le quali armi e altro materiale raggiungevano Chongqing erano la Birmania, il Bac Bo e Hong Kong. Convinti di poter dividere gli Stati Uniti, vera grande potenza occidentale presente in Asia durante la seconda guerra mondiale, dalla Gran Bretagna e dalla Francia, i giapponesi intimarono a queste due di vietare il passaggio di materiale diretto a Chongqing47. Gran Bretagna e Francia, impegnate sullo scenario europeo, non potevano contrastare le forze nipponiche.
Il 19 giugno 1940, negli stessi giorni nei quali la Francia si arrendeva a Hitler, i giapponesi presentarono un ultimatum a Georges Catroux, governatore generale dell’Indocina, al quale seguì il patto del 30 agosto 1940, che permise alle truppe giapponesi, il 22 settembre dello stesso anno, di entrare nell’Indocina. Entrarono via terra, e Lang Son fu sede di violenti scontri tra nipponici e francesi. Iniziò l’occupazione giapponese dell’Indocina.
Ben presto, però, il ruolo geostrategico della presenza giapponese in Indocina mutò. Il 13 aprile 1941, infatti, il Giappone firmò un patto di neutralità con l’Unione Sovietica, che gli consentì una relativa tranquillità sul fronte nord. L’attenzione si spostò a sud. Gli Stati Uniti divennero l’unico ostacolo ad un’espansione verso la Cina e il sudest asiatico venne considerato necessario per il controllo delle materie prime e per arrivare da posizioni di vantaggio alla spartizione del mondo con la Germania e l’Italia. Per vincere, bisognava impostare una guerra veloce, di sorpresa, poiché, nonostante l’aumento ingente delle divisioni dell’esercito e della capacità di fuoco dell’aeronautica e della marina, dopo due anni le forze armate giapponesi non
45 F
RANCO GATTI, cit., p. 247
46 S
ABURO HAYASHI, Kogun The Japanese army in the Pacific War, Greenwood Press, Westport 1978, p. 4
47
Il 12 giugno 1940 il Giappone concluse anche un accordo con la Thailandia, nel quale vennero discusse anche tali questioni
avrebbero più potuto vittoriosamente combattere una guerra con gli Stati Uniti. Nacque così Pear Harbor e l’invasione del sudest asiatico.
L’Indocina ricoprì il ruolo di base logistica48. Il terzo gruppo aereo era inoltre presente nell’area con circa 430 aerei49.
La vittoria iniziale fu dovuta principalmente al fattore sorpresa, che permise ai giapponesi di conquistare il dominio dei mari, e al dato che le forze alleate non avevano grandi eserciti in Asia, cioè eserciti adeguatamente preparati per contrapporsi ai nipponici. Anche se spesso i numeri degli effettivi che si confrontavano era pari, le truppe nipponiche erano più fresche, meglio organizzate e con un morale nettamente maggiore delle truppe coloniali50.
Conclusa questa prima fase della guerra, alcuni si resero conto che si doveva cercare la pace con i britannici, poiché non si sarebbe stati capaci di combattere contemporaneamente contro gli europei e gli americani (e i russi, complice anche il freddo inverno, non erano stati sconfitti dai nazisti). Ma poi prevalse un’altra linea, che tendeva a continuare la guerra per convincere la Gran Bretagna ad arrendersi e gli Stati Uniti a perdere il morale e la voglia di riconquistare le posizioni perdute. I giapponesi pensavano anche che gli americani avrebbero potuto riattaccare a partire dai primi mesi del 1943, invece cominciarono alla fine del 1942. Si verificarono, anche in questa fase, scontri tra la Marina e l’Esercito, con la Marina che addirittura voleva invadere l’Australia, attacco che andava contro ogni limite e capacità militare nipponico.
Il cuore delle operazioni, in questo contesto, erano le zone esterne, e dunque l’Indocina funzionò sempre più da base logistica, secondaria dal punto di vista militare ma necessaria come retroguardia.
Nel 1943 la guerra subì una svolta anche nel Pacifico. L’URSS resisteva, gli attacchi statunitensi erano più consistenti del previsto, la sognata invasione dell’India non divenne realtà, l’Italia, con l’armistizio dell’8 settembre, era uscita dalla guerra. Il Giappone rivide in peggio le stime sull’andamento della guerra. Le navi affondate aumentarono vertiginosamente. Le comunicazioni ed il trasporto via mare divennero altamente rischiose, e perciò si puntò sul miglioramento delle comunicazioni via terra. In questo contesto si collocò il tentativo di creare un canale di collegamento terrestre che dal Manchukuo arrivasse sino all’Indocina.
L’operazione “Ichigo”, che ebbe luogo in Cina nell’aprile del 1944, quando ormai era chiaro che le forze giapponesi non avrebbero potuto vincere la guerra (gli statunitensi stavano combattendo nelle Marianne e presto sarebbero avanzati verso le Filippine), ebbe tra i suoi obiettivi proprio quello di creare una linea di comunicazione con il sudest asiatico.
L’Indocina, quindi, doveva rimanere un territorio nel quale agire con una relativa tranquillità. Almeno sino al 1945, quando il contesto cambiò: lo scenario meridionale non era più primario, la situazione militare in Birmania e nelle Filippine peggiorava, in Francia de Gaulle aveva conquistato il potere, gli atti anti-giapponesi in territorio indocinese aumentarono esponenzialmente, cresceva la paura di uno sbarco Usa. Si decise una stretta, volta ad assumere il pieno controllo del territorio, e l’8 marzo 1945 l’ambasciatore giapponese in Indocina presentò al governatore Decoux una serie di richieste, preludio del colpo di stato, che venne attuato nella notte tra l’8 ed il 9 marzo 1945. Le forze francesi furono sopraffate con velocità e semplicità.
48 “The main logistical base for the southern operations will be French Indo-China. Formosa serves as an
intermediate relay base, while the Canton area is an ancillary relay facility”. SABURO HAYASHI, cit., p. 33
49 Idem, pp. 33-34. Vedi ancge R
ICHARD FULLER, Shokan Hirohito’s Samurai, Arms and Armour, London 1991
50 Cfr. P