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Le critiche ai principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite: il ricorso al paradigma condizionalistico.

L’intervento delle Sezioni Unite

3. Le critiche ai principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite: il ricorso al paradigma condizionalistico.

241 Si veda Eusebi, in Riv. It. dir. e proc. pen., 2000, pag. 1059, secondo cui “Perché mai il medico

che compia un passaggio sbagliato nell’ambito di una procedura terapeutica complessa dovrebbe rispondere dell’eventuale esito infausto di quest’ultima per il mero fatto che l’errore abbia aumentato la probabilità valutabile ex ante di tale esito (anche soltanto del 30%) laddove giustamente si riconosce che il medico che non ottemperi,addirittura, all’obbligo della presa in carico di un malato risponde dell’eventuale evento lesivo solo ove sussista una probabilità contigua al 100 % di non verificazione del medesimo in presenza di un obbligo correttamente adempiuto?”.

242 F. Angioni, "Note sull'imputazione dell'evento colposo con particolare riferimento all'attività

medica", cit., pag. 1290.

243 M. T. Trapasso, “Imputazione oggettiva e colpa tra <azione> ed <omissione>: dalla struttura

all’accertamento. Nota a Cass. Pen., S.U., 11 settembre 2002, Franzese”, in Ind. Pen., 2003, pag. 1239 e ss.

Passando ad analizzare le considerazioni critiche espresse dalla dottrina successiva alla pronuncia, circa i principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite, la critica più radicale è venuta da coloro244 che sostengono che il paradigma di riferimento per l’accertamento del nesso ex artt. 40 e 41 c.p. non può più essere rappresentato dalla teoria condizionalistica.

Tale assunto si basa su due differenti ordini di ragioni. In primo luogo si sottolinea che i presupposti filosofici e scientifici di tale teoria sono ormai stati superati dalle concezioni più moderne e recenti. Ad esempio, il postulato secondo cui il principio di causalità rappresenta un dato della realtà e non solamente un elemento della struttura del pensiero umano, ossia una categoria dell’intelletto, è stato superato dal criticismo kantiano. Ancor più radicalmente, l’evoluzione scientifica del XX secolo con la teoria della relatività e la fisica quantica, ha messo in crisi l’assioma secondo cui il divenire dei fenomeni naturali è regolato da principi causali.

Se, dunque, i presupposti concettuali di fondo sono profondamente mutati non resta che capire se, nonostante ciò, la condicio sine qua non continui a rivestire un ruolo di primo piano sul versante giuridico. Se si guarda alla pronuncia delle Sezioni Unite la risposta non potrebbe che essere affermativa: tuttavia alcuni mostrano di non condividere quella parte della sentenza secondo cui lo schema condizionalistico, integrato dalla sussunzione sotto leggi scientifiche, consentirebbe una selezione delle condotte penalmente rilevanti, e dunque una delimitazione dell’area dell’illecito penale. Si sostiene, infatti, che lo schema condizionalistico in realtà estenda il suo manto di copertura anche su condotte non meritevoli di sanzione penale, lasciando viceversa impuniti comportamenti meritevoli di pena. Per sostenere ciò si portano alcuni esempi ricavati dalla prassi giurisprudenziale. Vi sono, infatti, decisioni in cui si nega la rilevanza di condotte gravemente negligenti e imperite, poiché non si è raggiunta la certezza che il compimento della condotta doverosa avrebbe scongiurato il verificarsi dell’evento. Ad esempio, ciò si verifica nel campo delle patologie

244 E. Di Salvo, “Nesso di causalità e giudizio controfattuale”, in Cass. Pen., 2003, n. 12, pag.

neoplastiche, in cui le percentuali di mortalità sono particolarmente elevate, ed è quindi molto difficile provare il nesso causale anche a fronte di un intervento chirurgico connotato da condotte completamente errate e da colpa grossolana. Sul versante opposto vi sono invece condotte che hanno un limitato disvalore etico- sociale, avendo una modesta rilevanza, e che tuttavia sono univocamente antecedenti causali dell’evento: si pensi, ad esempio, a chi ha provocato un’accesa lite con un paziente gravemente cardiopatico che muore nel corso del diverbio.

Proprio sulla base di queste considerazioni si propugna l’abbandono della concezione condizionalistica e si opta per la distinzione tra la causa e le condizioni pure e semplici. Si può, dunque, definire “causa” quell’ “antecedente che si sia inserito in un decorso causale che, alla stregua di attendibili risultati di generalizzazione del senso comune o di leggi scientifiche esplicative dei fenomeni, di carattere universale o statistico, sia predicabile di normalità, determinandone una deviazione e quindi una polarizzazione verso l’evento”245, ossia come un antecedente particolarmente qualificato, in grado di modificare il normale svolgimento degli eventi.

Secondo questa concezione perderebbe ogni rilevanza anche il giudizio controfattuale, poiché l’accertamento causale consisterebbe, in primo luogo, nell’accertare se la condotta del soggetto agente ha arrecato o meno un contributo eziologico alla produzione dell’evento, e, in secondo luogo, nel valutare se tale contributo possa o meno essere considerato “imponente”, cioè se sia o meno un contributo “di spessore”. La valorizzazione così operata dello “spessore” del contributo eziologico apportato alla produzione dell’evento consentirebbe di superare quello che era stato indicato come il limite della teoria condizionalistica, consentendo di attribuire rilevanza penale solo a quelle condotte che hanno avuto un ruolo di preminente importanza ed escludendo invece quelle meno rilevanti.

Balza però subito agli occhi che una tale teorizzazione presta il fianco alla critica di abbandonare paradigmi oggettivi a tutto vantaggio di criteri dai confini alquanto incerti: non è ben chiaro, infatti, quando la condotta possa definirsi “di spessore” tale da giustificare la sanzione penale, ossia quali siano i

criteri sulla base dei quali il giudice potrà compiere tale giudizio di rilevanza. Non del tutto opportuno pare poi, a mio avviso, il richiamo al disvalore etico – sociale della condotta quale elemento in grado di rappresentare il discrimen tra ciò che è penalmente rilevante e ciò che invece non lo è. Anche in questo caso, infatti, si corre il rischio di scivolare verso valutazioni prettamente soggettive, che prescindono da elementi tecnico – giuridici, in un ambito in cui, invece, occorrerebbe rimanere saldamente ancorati a criteri di tipo oggettivo, che prescindano da considerazioni di politica criminale, riservate, come ben sappiamo, alle scelte del legislatore.

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