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CAPITOLO I Osservazioni general

3. Le sentenze conformi datate 2005.

Anche nel 2005, così come nell’anno precedente, la IV Sezione della Cassazione Penale continua a oscillare tra pronunce conformi e pronunce difformi rispetto ai principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite.

Sicuramente desta qualche perplessità e curiosità il fatto che, a distanza di tre anni dalla decisione delle Sezioni Unite, vi sia ancora chi propugna l’applicazione di un criterio di tipo prettamente percentualistico e su tale convinzione fonda il proprio ricorso per cassazione. Ciò si verifica, ad esempio,

nel caso314 che vede accusato del delitto di omicidio colposo per la morte di Pierina La Riccia il dott. Antonio D’Agostino, assolto, sia pur con differenti motivazioni, sia in primo grado che in appello. La parte civile ricorre per cassazione contestando la regola giuridica prescelta dai giudici di merito per l’accertamento causale e criticando “un uso eccessivamente rigoroso dell’insegnamento venuto da queste SS. UU….prende posizione con quella <cospicua fetta della giurisprudenza di legittimità schieratasi apertamente a favore della massima tutela del paziente posto in cura>….ed a tal fine richiama giurisprudenza di questa Suprema Corte antecedente alla pronuncia della SS. UU.”. La IV Sezione ritiene del tutto inammissibile tale motivo di ricorso, condividendo l’insegnamento della Franzese e sottolineando che il criterio “proporzionalistico” o “percentualistico” puro, prescelto dal ricorrente, “non è stato ritenuto adeguato, da questa Suprema Corte, a tutelare, insieme agli interessi del paziente anche il diritto del medico innocente a vedere proclamata la propria estraneità al fatto”.

Un’altra sentenza, datata 2005, che si colloca sulla scia delle Sezioni Unite è quella relativa al decesso di Michele Serafino315 il quale, a seguito di un infortunio domestico in cui aveva riportato ustioni estese al 50 % del corpo, veniva sottoposto ad un primo intervento chirurgico il 4 ottobre 1995 e ad un ulteriore intervento il successivo 6 novembre. Nella notte seguente a tale ultima operazione, che era stata eseguita dalle 17.15 alle 20.20, le condizioni del Serafino si aggravarono e il paziente fu trasferito alle 6 del mattino presso il reparto di rianimazione dove, nonostante i tentativi di salvarlo, due ore dopo si verificava la morte. Il Tribunale di Bari assolveva i medici e gli infermieri tratti a giudizio per la non sussistenza del fatto, mancando qualsiasi prova del necessario nesso eziologico tra la condotta omissiva loro contestata e il decesso del Serafino. La

314 Cass. Pen., IV, 9 dicembre 2004 (12 aprile 2005), n. 13198, D’Agostino, in F. Giunta, D.

Micheletti, P. Piccialli, P.Piras, “Il diritto penale della medicina nella giurisprudenza di legittimità (2004-2008)”, Pisa, 2009.

315 Cass. Pen., IV, 1 dicembre 2004 (11 marzo 2005), n. 9739, Di Lonardo e altri, in Riv. it. med.

leg., 2005, pag. 195 – 196 e pag. 942 - 943; in Riv. Pen., 2005, pag. 828 e ss.; in Riv. Pen., 2006,

pag. 249; in Foro It., 2006, pag. 243 e ss., con nota di A. Di Landro; in Cass. Pen., 2006, pag. 1470-1471; in Giust. Pen., 2006, II, pag. 454.

Corte d’Appello della stessa città, invece, condannava i dott.ri Di Lonardo e Giudice, e le infermiere Poto e Catino per il delitto di omicidio colposo, confermando l’assoluzione solo per l’infermiera Loiacono per non aver commesso il fatto. In particolare, si censurava il comportamento del dott. Giudice e delle due infermiere perché omettevano nel post operatorio di controllare i parametri vitali del paziente, non riuscendo così ad intervenire tempestivamente e rendendo pertanto irreversibile la sindrome in atto. Per quanto riguarda invece la posizione del Di Lonardo, capo dell’equipe operatoria316, gli si muovono plurimi addebiti: aver omesso di richiedere una preventiva consulenza anestesiologica; aver deciso di compiere un intervento altamente specialistico nell’ultimo turno pomeridiano, quando è risaputo che il presidio medico e paramedico nei reparti ospedalieri è notevolmente meno allertabile alle emergenze che non nelle ore del giorno; aver omesso di tenere sotto controllo il decorso postoperatorio del Serafino, omettendo peraltro di vigilare sul personale medico e paramedico affinché esso controllasse i parametri vitali del paziente.

Tutti gli imputati presentano ricorso per cassazione, ma le loro doglianze vengono respinte. In particolare, per quanto attiene al nesso causale, la IV Sezione richiama punto per punto quei passaggi della decisione di merito che consentono di ritenere la sentenza gravata del tutto in linea con i parametri della Franzese. In primo luogo, si respingono le censure relative all’individuazione della causa

mortis, a parere dei ricorrenti imperscrutabile per la mancata esecuzione

dell’autopsia. La Corte di merito, infatti, ha individuato con certezza la causa della morte, escludendo anche l’interferenza di differenti fattori causali. Si legge nella sentenza d’appello che “le cause della morte sono state indicate, con apprezzabile grado di assoluta verosimiglianza, scientificamente ancorato ai dati clinici desunti dalla documentazione sanitaria acquisita, in uno shock ipovolemico

316 La sentenza che qui si analizza ha attirato l’attenzione dei commentatori proprio in relazione ai

principi da essa posti riguardo la responsabilità del capo équipe. Infatti, la IV Sezione sancisce che tale soggetto è titolare di una posizione di garanzia, in virtù della quale egli è tenuto, non solo a impartire al personale medico e paramedico le adeguate istruzioni per la cura del paziente, ma anche a predisporre le opportune misure affinché le proprie istruzioni vengano effettivamente eseguite. La sua posizione di garanzia nei confronti del paziente, inoltre, si estende alla fase dell’assistenza post-operatoria, che il chirurgo ha il dovere di controllare e seguire direttamente, anche attraverso interposta persona.

a seguito di sanguinamento massivo da ulcera gastrica o intestinale”; essa ha anche indicato i dati oggettivi sui quali questa ipotesi, formulata dai periti, è stata ritenuta fondata (quali le possibili cause dell’instaurarsi di tale ulcera).

Individuata la causa della morte del Serafini, si individua la condotta doverosa omessa proprio nella totale assenza di assistenza e di controllo del malato, indicandosi con precisione le terapie e i presidi medici concretamente e tempestivamente praticabili che sarebbero stati tali da “certamente evitare l’evento”. Ciò, non solo sulla base di quella massima d’esperienza secondo cui vigilare il postoperatorio consente di scongiurare gli eventi lesivi ad esso connessi, ma tenendo anche conto “del notevole intervallo di tempo trascorso tra la comparsa di quei sintomi …..ed il momento dell’irreversibile aggravamento……specie in considerazione del fatto che l’essere il paziente affidato ad una struttura di altissimo livello operativo…avrebbe dovuto consentire che, praticati nei tempi congrui gli interventi farmacologici e chirurgici appropriati, fosse evitato l’evento”. Si può dunque sottolineare che i giudici di merito, e di riflesso la stessa Cassazione, non si sono fermati a valutare la c.d. causalità generale relativa all’evento astratto, compiendo anche quell’ulteriore accertamento ex post e considerando tutte le concrete emergenze disponibili.

Nel 2005 non mancano neppure interessanti pronunce dei giudici di merito. Merita di essere menzionata anzitutto una sentenza del Tribunale di Teramo317 che si sofferma su uno dei principi fondanti della Franzese: l’oltre ogni ragionevole dubbio.

Prima però di analizzare questo profilo pare utile riepilogare, sia pur per sommi capi, il caso affrontato dal Tribunale. Muharremi Nadire, gravida alla diciannovesima settimana, muore alle 2.10 del 27 aprile 2000 nell’ospedale di Giulianova dove era ricoverata da due giorni a causa di iperpiressia severa, dolenza addominale e dolorabilità in corrispondenza del fianco sinistro. Già nel mese di marzo la donna era stata ricoverata per iperpiressia e vomito e le era stata

317 Trib. Teramo, 31 dicembre 2005, n. 1017, Antelli e altri, in Cass. Pen., 2006, pag. 2393 e ss

con nota di F. D’Alessandro, “L’oltre ogni ragionevole dubbio nella valutazione del nesso causale e della colpa: passi avanti della più recente giurisprudenza di merito e di legittimità.”.

prescritta l’amniocentesi, che però non si riusciva ad eseguire a causa dell’insufficienza di liquido amniotico. Alle 23.10 del 25 aprile, dopo i precedenti controlli del battito fetale, effettuati sia alle 15.15 che alle 17.30 tramite apparecchio ultrasuoni (controlli che non avevano rilevato anomalie), si constatava che il battito fetale non era più percepito e si poneva la diagnosi di morte interuterina fetale. I sanitari procedevano, in un primo momento, alla induzione del parto per via vaginale, mediante ossitocina, ma poiché la terapia non dava esito provvedevano all’estrazione laparotomia del feto alle 3.00 del 26 aprile. La donna, intanto, presentava abbondante emorragia e, posta la diagnosi di shock settico con CID, veniva trasferita in rianimazione dove però decedeva.

In sede di indagine si accertava che la morte della Nadire andava inquadrata in una Multiple Organ Dysfunction Syndrome (MODS), che consiste in un’alterata funzionalità multiorgano dipendente da shock, nella specie di tipo settico, con CID (coagulazione intravascolare disseminata). La causa della gravissima infezione veniva, a sua volta, ravvisata in una corionamnionite, ossia in un’infiammazione delle membrane fetali che è statisticamente la seconda causa di sepsi in epoca prenatale.

Il Tribunale passa quindi a valutare le condotte dei medici che ebbero in cura la donna e individua due differenti profili di colpa. Da un lato, negligenza e imprudenza per il mancato ricorso all’esame ecografico, che è lo strumento più sicuro per accertare la presenza del battito cardiaco fetale; dall’altro, il rimprovero per la mancata e tempestiva diagnosi di corionamnionite.

Tuttavia il giudizio si conclude con una sentenza di assoluzione: il giudice reputa non provata la sussistenza del nesso causale, non essendosi superato il ragionevole dubbio, così come richiesto dalla Franzese. Infatti, quanto all’errore nel rilevamento del battito fetale si ricorda che, per la letteratura medica, “perché la ritenzione in utero del feto morto possa determinare un processo infettivo e quindi un processo settico, occorrono molti giorni di soggiornamento, addirittura alcune settimane”. Pertanto, anche se la morte del feto non era stata immediatamente avvertita, e si era probabilmente verificata qualche ora prima delle 23.10, ciò non ha comunque avuto alcun effetto causale rispetto allo

scatenarsi dell’infezione. Per quanto attiene, invece, alla mancata diagnosi della corionamnionite si sottolinea che, al momento in cui si sarebbe potuti concretamente intervenire, le possibilità di successo sarebbero state minime, e “non solo vi è ragionevole dubbio circa l’efficacia impeditiva della condotta medica che doveva essere praticata, ma anzi tutto lascia propendere per una conclusione di segno contrario”.

Il Giudice, in proposito, sottolinea che la certezza processuale richiesta dalle Sezioni Unite “non impone di raggiungere un convincimento di colpevolezza…solo quando si possa escludere anche il dubbio più remoto, una ombra di dubbio, un dubbio immaginario…ma impone certamente di raggiungere tale convincimento al di là di ogni ragionevole dubbio. Esso, come detto, non è un mero dubbio possibile, in quanto ogni cosa umana è aperta a qualche dubbio possibile o immaginario ma, come rappresentato dalla migliore e più autorevole dottrina in materia, è quella situazione che dopo tutte le considerazioni, dopo tutte le verifiche delle prove raccolte, non consente di raggiungere una convinzione incrollabile nella verità dell’accusa”. In assenza di precise indicazioni da parte delle Sezioni Unite, dunque, la stessa giurisprudenza di merito “si appropria” della definizione contenuta nel paragrafo 1096 del Codice Penale californiano, già parametro di riferimento dell’elaborazione dottrinale di Federico Stella318.

Vede come triste protagonista della vicenda sempre una partoriente anche un’altra pronuncia di merito, datata 2005, che rispetta i dettami del 2002 in tema di causalità. Il caso, deciso dal Giudice Monocratico di Varese319, vede imputati per l’omicidio colposo di Raffaella G., l’ostetrico ginecologo Giorgio Z. e l’anestesista rianimatore Antonietta D.. La donna, dopo aver partorito alle ore 21.17 del 21 novembre 2001, subisce una protratta emorragia. Rimane in sala parto fino all’1.00 e viene poi sottoposta a manovre rianimatorie che non evitano però, un’ora più tardi, il decesso.

Per quanto attiene al nesso causale il giudice si rifà correttamente a quanto sancito dalle Sezioni Unite. Merita pertanto di essere condivisa la

318 F. D’Alessandro, “L’oltre ogni ragionevole dubbio nella valutazione del nesso causale e della

colpa: passi avanti della più recente giurisprudenza di merito e di legittimità”, cit., pag. 2416.

sentenza, anzitutto nella parte in cui individua la causa della morte nel protrarsi di un’emorragia originata da una seria atonia uterina. Per individuare tale causa, infatti, il giudice richiama tutti i dati fattuali e le annotazioni della cartella clinica da cui emerge in maniera evidente la presenza di un fenomeno emorragico; a ciò si accompagnano una serie di considerazioni medico-scientifiche in base alle quali l’atonia uterina è causa di emorragia.

In tale quadro clinico ben delineato si inserisce l’omissione dei sanitari, i quali sono intervenuti esclusivamente con un intervento di prima cura, ossia la somministrazione di ossitocina. I giudici si soffermano, invece, sugli interventi sia diagnostici che terapeutici, concretamente praticabili e invece colpevolmente omessi, per concludere che “nella situazione specifica di quella paziente e sulla base delle premesse cognitive enunciate, si deve dunque affermare che con elevatissimo grado di credibilità razionale l’omissione del comportamento alternativo lecito….è stata condizione necessaria dell’evento”320.

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