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I CRITERI DI DEFINIZIONE DEI SERVIZI D ’ INTERESSE ECONOMICO GENERALE , TRA SUSSIDIARIETÀ , PROPORZIONALITÀ E RAGIONEVOLEZZA DELLE SCELTE NAZIONALI

PROPORZIONALMENTE NECESSARIA PER LA REALIZZAZIONE DELLE MISSIONI D ’ INTERESSE GENERALE

5. I CRITERI DI DEFINIZIONE DEI SERVIZI D ’ INTERESSE ECONOMICO GENERALE , TRA SUSSIDIARIETÀ , PROPORZIONALITÀ E RAGIONEVOLEZZA DELLE SCELTE NAZIONALI

Sia nelle pronunce del biennio ’91-’92 che in quelle successive, rimane sostanzialmente sullo sfondo una diversa questione interpretativa relativa all’allora art. 90. Ci si riferisce al problema concernente i criteri con cui individuare le prestazioni di interesse generale. Invero, in ciascuna delle sentenze analizzate, la Corte si preoccupa di verificare se l’attività portata alla sua attenzione possa qualificarsi come servizio d’interesse economico generale, al fine di ricondurla nell’ambito applicativo dell’articolo in questione. A questo proposito, come visto in precedenza, il Giudice segue un approccio decisamente casistico e, salvo talune eccezioni, emerge palesemente la sua intenzione di non addentrarsi in interpretazioni ricostruttive in ordine alla nozione

astratta di servizio d’interesse generale. Tendenzialmente, la giurisprudenza comunitaria si dimostra “passiva” rispetto alle valutazioni politico-discrezionali effettuate dagli Stati-membri al fine di individuare i bisogni della collettività da soddisfare in forma doverosa secondo il modulo del pubblico servizio. Nell’ottica della Corte, infatti, qualificare o meno una certa attività produttiva come servizio d’interesse economico generale significa semplicemente verificarne la sussumibilità entro lo spettro applicativo dell’art. 86, senza pretendere di indicare nel contempo la consistenza stessa dell’interesse generale. Peraltro, siffatto indirizzo ermeneutico appare del tutto in linea sia con il Trattato, nella parte in cui attribuisce ai singoli Stati la competenza a decidere in tema di politica economica, sia con i successivi Documenti adottati dalla Commissione a partire dal 1996, nei quali si riafferma costantemente che è compito delle Autorità nazionali, in ossequio al principio di sussidiarietà, definire cosa risponda all’interesse generale, sia, da ultimo, con il recente Protocollo sui servizi d’interesse generale approvato nell’ambito dell’Accordo di Lisbona241.

Piuttosto, dalla giurisprudenza della Corte si ricava la più prosaica intenzione di ritagliare uno spazio entro cui controllare la compatibilità tra le scelte di politica economica effettuate in sede nazionale e l’interesse della Comunità relativo alla creazione di un mercato unico.

Tale controllo, esercitato in modo congiunto dalla Commissione e dalla Corte si esplica in una duplice direzione: da un lato esso è volto a valutare se la definizione dell’interesse generale nazionale sia conforme ad un parametro “comunitario” di ragionevolezza; in questo senso, sebbene non risultino pronunce al riguardo, si può ritenere che ove uno Stato decidesse di pubblicizzare - vincolandola a standards tariffari e distributivi troppo stringenti – una certa produzione che il mercato ha dimostrato di poter sostenere in modo soddisfacente, allora tale scelta nazionale potrebbe essere censurata, essendosi violati i limiti posti dall’art. 86, par. 2. Da una definizione irragionevole della missione d’interesse generale deriverebbe infatti una ingiustificata deviazione dal diritto comune della concorrenza che si renderebbe necessaria onde indirizzare l’attività dei privati verso il raggiungimento degli scopi prefissati in modo improprio dall’Autorità nazionale. Del resto, laddove il mercato si dimostrasse capace di realizzare una missione di “ragionevole” interesse generale, sarebbe illogico derogare

al regime concorrenziale, imponendo inutili restrizioni. Con ogni probabilità, è proprio a questa logica di ragionevolezza che si ispira la Comunicazione della Commissione sui servizi d’interesse generale, adottata nel 2000, nella parte in cui, a proposito della cosiddetta “libertà di definizione” si sancisce da un lato che “spetta fondamentalmente agli Stati membri definire che cosa considerino servizi d’interesse economico generale, in funzione delle specifiche caratteristiche delle attività” e, dall’altro, che “tale definizione può essere soggetta a controllo soltanto in caso di errore manifesto”242.

Al di là delle ipotesi estreme, i rapporti tra diritto comune e diritto speciale, nei casi in cui la deroga sia approntata mediante l’attribuzione di diritti speciali ed esclusivi, risultano attualmente regolati dai principi elaborati nelle sentenze Corbeau e Comune

d’Almelo e ripresi dalla Commissione nei Documenti adottati in tema di servizio

d’interesse economico generale: pertanto potrà derogarsi al diritto della concorrenza, con riguardo a quelle forniture che garantiscono profitto, nella misura in cui ciò sia necessario per garantire che il servizio di base venga erogato in condizioni di equilibrio economico-finanziario.

Ciò posto, non si ritengono condivisibili le interpretazioni di quanti ritengono che l’orientamento emerso tra il ’93 e il ’94 abbia determinato una “comunitarizzazione dell’individuazione degli interessi generali dei cittadini che richiedono deroghe ai principi di concorrenza”243: ciò può, forse, valere per i settori toccati dalle Direttive di

liberalizzazione che, prefissando in sede comunitaria il livello del servizio universale, hanno sostanzialmente ridimensionato la facoltà degli Stati di assicurare in via obbligatoria ogni prestazione costitutiva del pubblico servizio244. Peraltro, come detto

nel capitolo precedente, anche in tali settori, non risulta pacificamente sottratta agli Stati la capacità di definire in via autonoma una più elevata soglia del servizio universale.

Ad ogni modo, al di fuori di questi ambiti, né la Corte di Giustizia, né la Commissione hanno mai tentato di appropriarsi del compito di definire l’interesse generale da realizzare nel singolo Stato-membro, compito peraltro “nuovamente” attribuito alle Autorità nazionali con il Protocollo di Lisbona: probabilmente, come si

242 Comunicazione della Commissione, 20 settembre 2000, cit., pt. 22. 243 V. SOTTILI, cit., 60.

244 In questo senso si esprime G. NAPOLITANO, Towards a European legal order for services of general

economic interest, cit., 567, laddove segnala come “the growing Europeanisation of the public utilities legal order is becoming manifest in the way in which the new law harmonises the liberalised markets, defines scopes and techniques for safeguarding universal service and shapes the nature, powers and procedures of the national regulatory authorities”. Cfr., sul punto, supra, note 105 e 144.

ricordava pocanzi, può ipotizzarsi che gli organi comunitari si siano ritagliati nel tempo il potere di sindacare ab externo la ragionevolezza delle scelte di politica economica effettuate in sede nazionale. Ma, come ogni sindacato estrinseco e come segnalato dalla stessa Commissione nel 2000, anche tale potere potrà esercitarsi nei soli casi in cui l’irragionevolezza delle scelte si presenti manifesta. Per il resto, il potere-dovere di definire l’interesse generale rimane assegnato agli Stati-membri, i quali sono altresì abilitati a determinare le deroghe dai regimi concorrenziali che si rivelino necessarie per realizzare quel predefinito interesse generale: le Istituzioni comunitarie dovranno dunque limitarsi a valutare ex post la proporzionalità delle deviazioni dal diritto comune che siano state approntate.

Nella chiave di lettura che si propone, diventano dunque assolutamente dirimenti le nozioni di servizio universale e, ove questo non sia previsto, di obbligo di pubblico servizio: infatti, in base a quanto la fornitura obbligatoria risulterà estesa, dovrà determinarsi la misura in cui derogare al diritto comune onde poterne garantire la sostenibilità.

Si ritiene pertanto che nella dialettica tra la Comunità e gli Stati-membri, l’unico modo per comprendere a chi spetti definire l’interesse generale consiste nel verificare a quale Autorità sia rimesso il compito di definire il contenuto doveroso del servizio: quest’ultimo infatti coincide tendenzialmente con quella “missione d’interesse generale” cui si riferisce l’art. 86, par. 2, ed è solo in virtù di quest’ultima che può deviarsi dal regime concorrenziale.

Ciò posto, nei casi in cui il livello obbligatorio del servizio sia predeterminato dalle Direttive comunitarie, appare piuttosto insincera la costante affermazione della Commissione, secondo cui il compito di definire l’interesse generale spetterebbe in ogni caso agli Stati-membri. D’altro canto, proprio in relazione a questi ultimi casi, in futuro occorrerà probabilmente valutare la compatibilità delle norme comunitarie che determinano la soglia del servizio universale con quell’art. 1 del Protocollo di Lisbona in cui, in modo enfatico, viene riconosciuto “il ruolo essenziale e l’ampio potere discrezionale delle autorità nazionali, regionali e locali di fornire, commissionare e organizzare servizi d’interesse economico generale il più vicini possibile alle esigenze degli utenti”.

Nei settori in cui, invece, non si è intervenuto in modo cospicuo mediante la normativa secondaria, può dirsi che effettivamente l’onere di individuare l’interesse generale continui a ricadere sulle Autorità nazionali.

6. ART. 86, PAR. 2, TCE: LE CONDIZIONI DI APPLICABILITÀ DELLA NORMA E LE

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