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I L PROCESSO DI SVALUTAZIONE DEL PRINCIPIO DI NEUTRALITÀ E I SUOI ( IPOTIZZABILI ) LIMITI

“ INDIFFERENZA SIGNIFICATIVA ” DELLA C OMUNITÀ NEI CONFRONTI DEGLI ASSETTI ORGANIZZATIVI NAZIONALI

2. I L PROCESSO DI SVALUTAZIONE DEL PRINCIPIO DI NEUTRALITÀ E I SUOI ( IPOTIZZABILI ) LIMITI

Ciò premesso in linea generale, non può negarsi che il principio di neutralità, pur rivestendo in astratto un indubbio significato, sia stato nel concreto ampiamente svalutato, se non, addirittura, dimenticato, per lo meno nel contesto applicativo dell’ultimo quindicennio. Appare sintomatico, in questo senso, il modo in cui la dottrina più recente si sia approcciata all’analisi del principio in esame.

Vero è che, per definizione, una regola di dichiarata “indifferenza” non è scontato che meriti un vasto approfondimento ermeneutico.

D’altro canto, appare quanto meno singolare che solo in rarissimi casi i commentatori si siano domandati se il principio di cui all’art. 295, TCE possa avere una qualche valenza in positivo. Di norma, infatti, la neutralità verso i regimi proprietari nazionali è stata richiamata come una sorta di simulacro giuridico a cui riferirsi in modo ossequioso, salvo poi dilungarsi in approfondite analisi che dimostravano come in realtà il rispetto della Comunità Europea per gli assetti organizzativi nazionali fosse meramente formale, tanto è vero che nulla ha impedito negli ultimi anni alle Autorità europee di sollecitare in modo diretto ed indiretto i processi di privatizzazione delle imprese pubbliche320.

Ebbene, come si vedrà, risulta senz’altro innegabile che la presenza pubblica nelle economie nazionali si sia ridotta in modo cospicuo a partire dall’inizio degli anni

320 Esempi di siffatte analisi sono riconoscibili, tra l’altro, in E. M. APPIANO, L’influenza del diritto

comunitario sui processi di privatizzazione negli Stati membri, cit.; W. DEVROE, Privatizations and

Community law: neutrality versus policy, cit.; S. M. CARBONE, Brevi note in tema di privatizzazioni e

Novanta, anche e soprattutto grazie alle pressioni di vario tipo esercitate dalla Comunità Europea, tra le quali emerge, com’è noto, la progressiva rimozione dei diritti speciali ed esclusivi secondo quella logica di proporzionalità esaminata nella prima parte del presente studio.

Tuttavia, si segnalerà altresì come l’azione delle imprese partecipate integralmente o parzialmente dal socio pubblico appaia ancora estremamente significativa, al punto che, anche in dottrina, non mancano vari studi che trattano del regime giuridico applicabile alle esperienze produttive di natura pubblicistica321. In tal

senso, è peraltro noto che - per lo meno nell’ambito di alcuni servizi d’interesse economico generale - il processo che pretende di escludere lo Stato da ogni intervento di tipo gestorio parrebbe ancora lontano dal realizzarsi compiutamente.

In questa sede, si tenterà dunque di individuare le ragioni che, in taluni casi, ancora ostacolano la definitiva ritrazione del pubblico potere in posizioni meramente regolatorie322; talora, infatti, le gestioni pubblicistiche si presentano come la

conseguenza di scelte politiche scarsamente lungimiranti che strumentalizzano la logica della neutralità comunitaria, al fine di difendere improprie forme di intervento pubblico dietro lo schermo di una legittimità meramente formale. Si ritiene d’altro canto – e su questo versante sarà condotta l’analisi – che ancora sussistano taluni contesti tecnico- economici nell’ambito dei quali la presenza gestoria pubblica non solo sia da considerarsi legittima, ai sensi dell’art. 295, TCE, ma anche necessaria, in ragione di caratteristiche che tutt’oggi possono sconsigliare la completa ritrazione dello Stato.

321 Limitando i richiami ai contributi più recenti, si vedano, fra gli altri, G. ROSSI, Gli enti pubblici in

forma societaria, in Serv. pubbl. app., 2004, 221 ss.; ID., Le gradazioni della natura giuridica pubblica,

in Dir. amm., n. 3/2007; F. GOISIS, Contributo allo studio delle società in mano pubblica come persone

giuridiche, Milano, 2004; G. GRUNER, Considerazioni intorno alle società pubbliche dello Stato, in Serv.

pubbl. app., 4/2004 e 1/2005; M. RENNA, Le società per azioni in mano pubblica. Il caso delle S.p.A.

derivanti dalla trasformazione di enti pubblici, Torino, 1997; P. PIZZA, Le società per azioni di diritto

singolare tra partecipazioni pubbliche e nuovi modelli organizzativi, Milano, 2007.

322 Sul passaggio dallo Stato “gestore” allo Stato “regolatore” la bibliografia è notoriamente molto vasta.

Fra i tanti contributi, cfr. F. SALVIA, Il mercato e l’attività amministrativa, in Dir. amm., 1994, 523 ss.; A.

LA SPINA – G. MAJONE, Lo Stato regolatore, Bologna, 2000; F. MERUSI, Le leggi del mercato, cit.; M.

MAZZAMUTO, La riduzione della sfera pubblica, Torino, 2000; M. D’ALBERTI, Libera concorrenza e diritto

amministrativo, in Riv. trim. dir. pubbl., 2004, 347 ss.; G. NAPOLITANO, Regole e mercato nei servizi

pubblici, cit.; S. CASSESE, Dalle regole del gioco al gioco con le regole, in Mercato concorrenza regole,

2002, 265 ss.; D. SORACE, La desiderabile indipendenza della regolazione dei servizi di interesse

economico generale, in Mercato concorrenza regole, 2003, 337; G. D’ALESSIO (a cura di), Il rapporto tra

pubblico e privato – La convenzione nella gestione dei servizi, Milano, 1994, 14 ss.; M. CLARICH,

Privatizzazioni e trasformazioni in atto nella trasformazione italiana, in Dir. amm., 1995, 519 ss.; F. A. GRASSINI (a cura di), La concorrenza nei servizi di pubblica utilità, Bologna, 1998; G. TESAURO – M.

D’ALBERTI (a cura di), Regolazione e concorrenza, Bologna, 2000; G. MARZI – L. PROSPERETTI – E. PUTZU,

Ebbene, in relazione a queste ultime vicende, ci si domanderà se il principio di neutralità, in quanto fonte comunitaria di legittimazione dell’intervento pubblico, meriti di essere rivalutato, secondo un processo ermeneutico uguale e contrario a quello che è stato condotto nell’ambito dei settori in cui la medesima regola di “indifferenza” è stata, come si vedrà, sostanzialmente aggirata. Ci si domanderà pertanto se, per lo meno con riguardo a taluni settori di peculiare rilievo pubblicistico, alla neutralità comunitaria debba conferirsi un significato nuovo ed una valenza positiva, dopo essere stata per anni interpretata come regola priva di carica precettiva e, dunque, come un dato di diritto positivo facilmente eludibile nella prassi. Se così fosse, evidentemente, il principio in esame e la correlata autonomia produttiva delle Amministrazioni nazionali tornerebbero a rappresentare una risorsa, interpretativa ed operativa, specialmente negli ambiti in cui i presupposti per una privatizzazione completa e sostanziale delle formule gestionali non parrebbero ancora essersi del tutto integrati.

Si intende pertanto verificare se il processo di sostanziale aggiramento dell’art. 295, TCE, attuato attraverso l’espressione di un chiaro favor per i fenomeni di privatizzazione sostanziale, sia effettivamente riferibile ad ogni comparto produttivo, ovvero se in relazione a taluni settori, il principio di neutralità debba tornare ad acquisire il suo valore originario. Ebbene, ove si appurasse che, limitatamente a taluni ambiti di rilievo pubblicistico, sussistono dei fattori che ostacolano o comunque sconsigliano la totale fuoriuscita degli Stati dai momenti gestori, allora potrebbe sostenersi che, in tali circostanze, la Comunità Europea non abbia la forza per imporre, seppur indirettamente, il completo ridimensionamento dell’imprenditoria pubblica: in questi ultimi casi, dunque, dall’ordinamento comunitario potrebbe derivare esclusivamente il vincolo ad assoggettare al medesimo trattamento ogni soggetto produttivo operante negli Stati-membri, fermo restando un atteggiamento di reale neutralità rispetto alle scelte effettuate in sede nazionale in merito ai regimi proprietari.

Ciò posto, occorre comprendere se con riguardo a taluni settori di rilevanza pubblicistica, le ragioni tecnico-economiche su cui tradizionalmente si fondava l’intervento pubblico possano o debbano ancora considerarsi valide, non apparendo ancora sufficientemente articolati (rectius, appropriati) quei poteri di regolazione mediante i quali l’Amministrazione può di norma condizionare dall’esterno un certo mercato rendendo così ininfluente la sua presenza nella sede gestoria.

Sinora, come si vedrà, e come in parte si è già segnalato, la Comunità Europea ha espresso un rispetto meramente formale nei confronti dei regimi proprietari consolidatisi all’interno degli Stati-membri, indicando nella titolarità privata delle imprese nazionali un obiettivo da perseguire in via preferenziale. Con riguardo a taluni settori di rilievo pubblicistico, tale favor verso la dimensione produttiva privata non è però scontato che si giustifichi, pur a fronte dell’avvenuta soppressione dei monopoli legali, dovendosi semmai verificare se l’intervento pubblico in economia continui a rappresentare un’opzione operativa ancora utile. Se così fosse, le spinte “privatizzatrici” provenienti dall’ordinamento sovranazionale perderebbero la loro forza ed ogni scelta in ordine agli statuti proprietari delle imprese tornerebbe ad essere di pertinenza esclusiva degli Stati-membri i quali, ferma restando la parità di trattamento tra produttori pubblici e privati, sarebbero chiamati a valutare se ed in che misura, nell’ambito dei singoli comparti produttivi, il paradigma dello Stato-regolatore possa o debba trovare un’effettiva concretizzazione.

La problematica in esame appare in parte nuova, pur affondando le proprie radici in categorie giuridico-economiche di antica concezione. L’intreccio tra i principi comunitari di proporzionalità e di neutralità sta infatti conducendo verso scenari piuttosto inediti.

Da un lato, come si è ricordato pocanzi, la logica insita nell’art. 86, par. 2, concretizzatasi nelle singole direttive di liberalizzazione, ha portato ad una progressiva e significativa riduzione degli antichi privilegi pubblicistici (in particolare i monopoli legali), nella quasi totalità dei comparti produttivi di pubblica utilità. A fronte di questa dinamica, l’orientamento interpretativo prevalente, come si vedrà, ritiene non più utile né legittima la presenza pubblica nell’economia, posto che la gestione soggettivamente pubblica dell’impresa si giustificherebbe solo nella misura in cui la stessa impresa in pubblico comando si vedesse attribuire diritti di stampo monopolistico323. A sostegno di

tale tesi, peraltro, una parte della dottrina italiana introduce una rinnovata lettura del testo costituzionale, secondo la quale, attualmente, l’intervento pubblico dovrebbe necessariamente ridimensionarsi entro l’eccezionalità delineata dall’art. art. 43, Cost., preminente rimanendo la sola iniziativa economica privata consacrata dall’art. 41,

Cost.324 E’ in questo contesto interpretativo che, come si vedrà tra breve, si sono

sviluppate le ricostruzioni teoriche che hanno svalutato l’atteggiamento di neutralità dell’ordinamento comunitario rispetto ai regimi proprietari nazionali, apparendo più coerente un processo operativo-applicativo volto a far muovere in parallelo la soppressione dei diritti speciali ed esclusivi con le pratiche di privatizzazione e, dunque, con la fuoriuscita dello Stato dalle posizioni gestorie.

Eppure, l’art. 295, TCE è norma tuttora in vigore, la cui valenza, come si vedrà, pare esplicarsi in modo ancor più incisivo nell’ambito dei servizi d’interesse economico generale, anche sotto il profilo strettamente normativo e paranormativo. Inoltre, e soprattutto, si ritiene che, in assenza di una disposizione comunitaria che espressamente indichi una preferenza generalizzata per la dimensione produttiva privata, occorra reperire consistenti ragioni - anche tecniche ed economiche - al fine di considerare la presenza gestoria pubblica in economia come un retaggio del passato sulla via di un ineluttabile superamento.

Del resto, prescindendo da eventuali interpretazioni evolutive e/o adeguatrici del nostro testo costituzionale, l’intervento pubblico sganciato dall’attribuzione dei privilegi monopolistici costituisce un’esperienza ben nota nell’ambito del diritto pubblico dell’economia, coincidendo con la fattispecie delle cosiddette “assunzioni singolari”, rispetto alla cui legittimità, per lo meno sino agli anni più recenti, non erano mai stati espressi dubbi di sorta325; ed alla luce del principio comunitario di neutralità,

evidentemente, non può affermarsi che, attualmente, siffatta soluzione organizzativa contrasti con i dettami giuridici europei.

Ebbene, una volta che la presenza gestoria pubblica in economia venisse riconosciuta come un’alternativa operativamente valida, per lo meno nell’ambito di alcuni settori di rilievo pubblicistico, allora potrebbe effettivamente sostenersi che, in presenza delle condizioni che si andranno ad analizzare, il principio di neutralità di cui all’art. 295, TCE possa tornare ad assumere il suo valore originario e che la spinta “privatizzatrice” sovranazionale rappresenti un fenomeno significativo ma non generalizzato, né generalizzabile.

324 Sul punto, cfr., fra gli altri, L. R. PERFETTI, Contributo ad una teoria dei pubblici servizi, cit.; G. C.

SPATTINI, Poteri pubblici dopo la privatizzazione, Torino, 2006, 121 ss.

325 Sul tema delle cosiddette “assunzioni singolari”, si veda, fra gli altri, M. S. GIANNINI, Diritto pubblico

Nel processo di complessiva ridefinizione dei rapporti tra Stato e mercato, la problematica in esame si presenta alquanto delicata.

In effetti, una volta rivisitata la fattispecie del monopolio pubblico nell’ottica della proporzionalità e sotto la spinta dell’innovazione tecnologica oltre che di nuove dottrine politico-economiche, il ruolo dello Stato merita di essere posto in aperta discussione, dovendosi comprendere, anzitutto, se ed in che misura i pubblici poteri siano chiamati a situarsi nella posizione del “regolatore”, rinunciando definitivamente alle collocazioni gestorie.

La questione, peraltro, non appare affatto sconosciuta alla più recente dottrina giuridico-economica, né risulta sminuita dagli stessi legislatori dei principali Paesi europei.

In tal senso, un istituto quale quello della golden share, afferente ai poteri speciali che l’Amministrazione ex lege si riserva di esercitare all’interno delle società ormai privatizzate dal punto di vista sostanziale (ovvero in via di privatizzazione), è stato letto come l’ultima “arma” che gli Stati membri continuano ad attribuirsi, non ritenendosi sufficiente che nei settori di maggiore rilievo pubblicistico venga esclusivamente esercitato il potere regolatorio (quanto all’Italia l’originaria norma di riferimento è l’art. 2, l. 30 luglio 1994, n. 474)326: ciò significa, evidentemente, che

tramite quest’ultimo non ci si attende di poter curare tutti gli interessi coinvolti nei più delicati ambiti di produzione e si decide pertanto di riservare all’Autorità residui poteri di gestione “pura”, accanto alle pur necessarie prerogative di regolazione.

Non sembra casuale, in questo senso, che la norma italiana di riferimento in tema di “poteri speciali”, preveda la possibilità di una loro introduzione nelle sole società “controllate direttamente o indirettamente dallo Stato operanti nel settore della

326 Originariamente, con l’art. 2, l. 30 agosto 1994, n. 474, vennero attribuiti all’Autorità quattro tipologie

di “poteri speciali”: “a) gradimento da rilasciarsi espressamente all'assunzione, da parte dei soggetti nei confronti dei quali opera il limite al possesso azionario di cui all'art. 3, di partecipazioni rilevanti, per tali intendendosi quelle che rappresentano almeno la ventesima parte del capitale sociale rappresentato da azioni con diritto di voto nelle assemblee ordinarie o la percentuale minore fissata dal Ministro del tesoro con proprio decreto (…); b) gradimento da rilasciarsi espressamente, quale condizione di validità, alla conclusione di patti o accordi di cui all'art. 10, comma 4, della legge 18 febbraio 1992, n. 149, come sostituito dall'art. 7, comma 1, lettera b), del presente decreto, nel caso in cui vi sia rappresentata almeno la ventesima parte del capitale sociale costituito da azioni con diritto di voto nell'assemblea ordinaria o la percentuale minore fissata dal Ministro del tesoro con proprio decreto (…); c) veto all'adozione delle delibere di scioglimento della società, di trasferimento dell'azienda, di fusione, di scissione, di trasferimento della sede sociale all'estero, di cambiamento dell'oggetto sociale, di modifica dello statuto che sopprimono o modificano i poteri di cui al presente articolo; d) nomina di almeno un amministratore o di un numero di amministratori non superiore ad un quarto dei membri del consiglio e di un sindaco”.

difesa, dei trasporti, delle telecomunicazioni, delle fonti di energia, e degli altri pubblici servizi”; lo stesso legislatore dei primi anni ’90 parrebbe dunque ammettere, più o meno esplicitamente, che, laddove le produzioni siano volte a soddisfare interessi pubblici di pregnante rilevanza, l’Autorità non avrebbe potuto limitarsi a condizionare ab externo i mercati mediante i poteri di regolazione, dovendosi ancora necessariamente addentrare nella fase gestoria, seppur con strumenti dalla dubbia legittimità327. In questo senso,

l’attività regolatoria è dunque apparsa non solo insufficiente, ma anche inappropriata, essendo di norma affidata a soggetti indipendenti dal potere politico, quali le cosiddette

Authorities, che, com’è noto, in un’ottica di neutralità e terzietà rispetto agli interessi in

gioco, sono chiamate a vigilare esclusivamente sul buon funzionamento dei mercati di riferimento, tanto incentivando la concorrenza, laddove essa dimostri di languire, quanto salvaguardando gli standards qualitativi, quantitativi e tariffari che devono essere rispettati nell’erogazione dei pubblici servizi328. Risulterebbe pertanto improprio

attribuire alle Autorità indipendenti la cura di interessi diversi da quelli da ultimo citati, tanto più nei casi in cui detti interessi, ultronei rispetto alla dimensione regolatoria, si colorino da un punto di vista prettamente politico329.

327 Sulle problematiche connesse alla golden share v. infra Cap. IV, Sez. I, par. 3.1.4.

328 Nel tessuto normativo italiano appare in questo senso emblematico l’art. 1, comma 1, l. 14 novembre

1995, n. 481 che, nell’indicare le finalità in vista delle quali vengono istituite le Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità, stabilisce che: “Le disposizioni della presente legge hanno la finalità di garantire la promozione della concorrenza e dell’efficienza nel settore dei servizi di pubblica utilità (…) nonché adeguati livelli di qualità nei servizi medesimi in condizioni di economicità e di redditività, assicurandone la fruibilità e la diffusione in modo omogeneo sull’intero territorio nazionale, definendo un sistema tariffario certo, trasparente e basato su criteri predefiniti, promuovendo la tutela degli interessi di utenti e consumatori, tenuto conto della normativa comunitaria in materia e degli indirizzi di politica generale formulati dal Governo. Il sistema tariffario deve altresì armonizzare gli obiettivi economico- finanziari dei soggetti esercenti il servizio con gli obiettivi generali di carattere sociale, di tutela ambientale, di uso efficiente delle risorse”.

329 La distanza tra gli interessi tecnico-economici la cui cura è di norma assegnata alle Authorities e gli

interessi pubblici, politicamente connotati, la cui tutela abbisogna dell’intervento delle Amministrazioni tradizionali, è ben messa in luce, tra gli altri, da G. ROSSI, Diritto amministrativo, cit., 217, laddove

segnala come l’idea alla base dell’istituzione delle Autorità indipendenti è che esistano “settori della realtà economica e sociale il cui funzionamento ottimale necessita di istituzioni non influenzabili dalla politica o perché la particolare configurazione degli interessi garantisce una sorta di automatismo naturale (come il mercato o la borsa) o perché si tratta di settori governati essenzialmente da regole tecniche (come il settore elettrico o delle telecomunicazioni). Questa configurazione legittima la sottrazione dell’attività delle amministrazioni indipendenti al mutare di indirizzi politici e la caratterizzazione delle stesse come «neutrali», nel senso di «apoliticità». Sul punto, tra gli altri, si veda altresì S. CASSESE, Dalle regole del

gioco al gioco con le regole, cit., 266 ss., laddove segnala come ci sia “regolazione quando le classi politiche si spogliano di una parte dei loro poteri a favore di organi non eletti capaci di bloccare le scelte delle maggioranze elette. Perché questa condizione si realizzi, non basta la separazione tra regolatore ed operatore (…). Occorre anche la separazione tra regolatore e governo, che serve ad evitare la politicizzazione delle scelte (…). Le Autorità di regolazione sono, in secondo luogo, «single mission authorities». (…). La conseguenza di ciò è che l’autorità non deve ponderare l’interesse pubblico ad essa affidato con altri interessi pubblici secondari, come accade per gli altri uffici pubblici che fanno parte

Pur in un contesto apertamente favorevole al mercato, parrebbe dunque che le Autorità nazionali abbiano da subito riconosciuto che il paradigma dello Stato- regolatore non avrebbe potuto rivelarsi del tutto funzionale in presenza di quei pubblici interessi che, almeno in parte, avrebbero continuato a reclamare le cure di uno Stato- gestore330. Del resto, guardando all’Italia, la norma di riferimento in tema di “poteri

speciali” prevede espressamente che essi vengano esercitati dall’Amministrazione “tenuto conto degli obiettivi nazionali di politica economica e industriale”331, svelando

in tal modo il nesso sussistente tra le residue prerogative di gestione ed una forma di pubblico interesse che trascende la mera dimensione economico-sociale dei servizi.

dello Stato, a cominciare, innanzitutto, dal governo”. Ancora, si vedano le riflessioni di A. CATRICALÀ, La

tutela privatistica degli interessi pubblici nei confronti delle public companies, in AA. VV., Interessi pubblici nella disciplina delle public companies; enti privatizzati e controlli, Milano, 2000, 291 ss., laddove, nel suggerire l’utilizzazione degli strumenti negoziali al fine di dare tutela agli interessi pubblici ancora sussistenti nei settori assoggettati al processo di fuoriuscita dello Stato-gestore, sottolinea da un lato l’insufficienza del pregresso strumentario provvedimentale e, dall’altro, l’inapproprietezza di un eventuale intervento delle autorità indipendenti di settore che devono “comunque svolgere un ruolo neutro” e non possono, dunque, dettare indirizzi “politicamente” orientati. La letteratura in tema di Amministrazioni indipendenti è, notoriamente, vastissima. Tra gli altri, si vedano, G. AMATO, Autorità

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