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8. La duplicità delle forme di dolo e i controversi margini di sopravvivenza del dolo eventuale.

8.2. Il dolo intenzionale.

Le maggiori perplessità della dottrina sono sicuramente incentrate nell’uso dell’avverbio intenzionalmente in relazione alla causazione del danno, affermato come del tutto superfluo nel contesto di una fattispecie solidamente costruita sul modello dei reati di evento.

Secondo l’opinione prevalente il dato letterale non lascia dubbi circa l’irrilevanza penale di tutte quelle condotte che non siano sorrette dalla specifica intenzione di cagionare un danno al patrimonio sociale143.

patrimoniale per un ingiusto svantaggio a carico di detta compagine, che anzi risulta debitrice delle somme a titolo di compenso»

142 Cfr. Cass. pen, Sez. II, 22 maggio 2014, n. 36030 fattispecie nella quale è stato assolto

l’amministratore di una società accusato di aver proceduto all’accantonamento della somma di €18.000,00 per due esercizi consecutivi a titolo di compenso per la propria attività e ciò al fine di conseguire un vantaggio con pari danno per la società agendo in conflitto di interessi assumendo decisioni che si ponevano in contrasto con l’art. 2252 c.c. e senza l’autorizzazione dell’assemblea ai fini di una modifica dei patti sociali. La Suprema Corte ha mandato assolto l’imputato ritenendo che “(…) la pretesa di un amministratore di società al compenso per l’opera prestata ha natura di diritto soggettivo perfetto, sicchè, ove la misura di tale compenso non sia stata stabilita nell’atto costitutivo della società o nel suo statuto o dalla assemblea, ne può essere richiesta al giudice la determinazione. Ne consegue che l’atto con il quale l’amministratore si sia limitato a disporre in bilancio accantonamenti a titolo di compenso quale amministratore, non può integrare il delitto contestato (art. 2634 c.c. n.d.r.) posto che effettivamente per l’attività lavorativa prestata in veste di amministratore della società, questi ha diritto ad un compenso, con l’effetto che l’atto compiuto non è volto al conseguimento di un ingiusto profitto o vantaggio che si ponga comunque come danno patrimoniale cagionato alla società. Quest’ultima infatti è debitrice verso il proprio amministratore delle somme dovute a titolo di compenso. Pertanto è corretta la decisione della Corte d’Appello che, se pur con motivazione sintetica, ha correttamente individuato la mancanza della volontà del conseguimento di un ingiusto profitto e difettando, altresì, la prova che l’atto di amministrazione abbia cagionato alla società un danno patrimoniale che deve essere effettivo e non meramente ipotetico

143 Cfr. E.A

MATI, Art. 2634 c.c., cit., p. 416 «il richiesto dolo deve rappresentare il fine precipuo preso di mira dal soggetto agente, ma non necessariamente il fine unico per il quale il soggetto ha agito»; nello stesso senso E.MEZZETTI, L’infedeltà patrimoniale nella nuova dimensione del diritto penale societario,

L’avverbio intenzionalmente (altrimenti inutile) diverrebbe dunque un indice inequivocabile della volontà del legislatore di affiancare al dolo specifico anche l’ulteriore requisito del dolo intenzionale, ravvisato dalla dottrina allorchè il «soggetto agisce allo scopo di realizzare il fatto, anche se non è necessario che la realizzazione del fatto rappresenti lo scopo ultimo perseguito dall’agente»144. Nel reato di infedeltà patrimoniale, come già esposto, l’intenzionalità deve avere ad oggetto il danno ossia il soggetto attivo deve aver posto in essere la condotta criminosa allo scopo di realizzare il danno patrimoniale alla società. Ne consegue che resterebbero fuori dal campo di applicazione della norma tutte quelle condotte sorrette esclusivamente dal dolo eventuale o anche solo dal dolo diretto145.

Le conclusioni alle quali si è pervenuti, tuttavia, non sono unanimemente condivise. Alcuni Autori, seppur con argomentazioni differenti, hanno prospettato margini di punibilità del soggetto che abbia agito con semplice dolo diretto o addirittura con dolo eventuale.

Il primo filone, più moderato, prende le mosse dalla constatazione che, nel reato d’infedeltà patrimoniale, l’impiego dell’avverbio intenzionalmente, pur richiamando alla mente il concetto di dolo intenzionale, non debba essere inteso nella sua accezione tradizionale146.

Le ragioni dell’introduzione sarebbero infatti da ricercare nella volontà del legislatore di limitare gli abusi giurisprudenziali nel ricorso al concetto di dolo eventuale in sede di accertamento del momento soggettivo. Prassi che, in molti casi, aveva finito col trasfigurare il dolo diretto in dolo presunto. Si sostiene che il legislatore abbia impiegato

cit., p. 226 «il dolo intenzionale dell’infedeltà patrimoniale ‘taglia via’ dallo spettro di incriminazione anche atteggiamenti solo riportabili al dolo eventuale e persino diretto. Esulano quindi, tutte le attività di rischio, anche sproporzionato di impresa, o non prese a scopo dell’azione, ed in cui l’evento sia rappresentato come di sicura verificazione, ma non assurga tuttavia a vero e proprio obiettivo della condotta».

144 G.M

ARINUCCI-E.DOLCINI, Manuale di diritto penale, cit., p. 188.

145

E. MUSCO, I nuovi reati societari, cit., p. 215, «tale previsione rischia di rendere davvero troppo angusti i confini di rilevanza penale dell’infedeltà patrimoniale, consentendo che rimangano fuori dal campo di applicazione della fattispecie tutte le ipotesi in cui l’amministratore, portatore di un interesse personale confliggente con quello della società, e mosso dal perseguimento di un ingiusto profitto, si rappresenti come altamente probabile (o perfino come certa) la verificazione di un danno patrimoniale alla società e tuttavia decida di compiere ugualmente l’operazione»; nello stesso senso L.FOFFANI, Le infedeltà, cit., p. 354.

146 Secondo P.A

LDROVANDI, L’infedeltà patrimoniale. Art. 2634 c.c., cit., p. 197, in tal modo si «rischia seriamente di paralizzare l’applicazione della fattispecie, giacchè, volendo utilizzare una terminologia civilistica, si richiede una sorta di intento emulatorio che ben difficilmente potrà caratterizzare la condotta del titolare del potere gestorio, il quale, anche quando abusa dei propri poteri, non lo fa allo scopo di danneggiare la società».

il concetto di intenzione in modo “originale” – fatto che permetterebbe all’interprete di formulare una lettura ex novo (svincolata dalle precedenti costruzioni dottrinali) – perseguendo l’esclusiva finalità di evidenziare l’incompatibilità del momento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice col dolo eventuale.

Ne consegue che sarebbe sufficiente la presenza del c.d. dolo diretto147. A sostegno si è

argomentato che nel dolo diretto, seppur l’offesa non è voluta in senso stretto, nondimeno

«l’atteggiamento mentale dell’agente è assai prossimo, quanto ad adesione al fatto realizzato, a quello di chi agisca con vero e proprio dolo “intenzionale”, giacchè egli si rappresenta l’offesa come inscindibilmente connessa alla propria condotta»148.

Secondo altra, e più drastica, corrente dottrinale la condotta può essere sorretta tanto da un dolo diretto quanto da un semplice dolo eventuale149.

Nessun richiamo espresso all’intenzionalità, invece, compare nella fattispecie di cui al co. 2. Pertanto, le condotte di infedeltà patrimoniale sui “beni posseduti o amministrati per conto di terzi” possono essere realizzate anche semplicemente con dolo diretto od eventuale. Il Legislatore, nell’estendere la punibilità a tali condotte, richiama esclusivamente il sostantivo “fatto”, che evoca le modalità di condotta e il dolo specifico, ma non l’intenzionalità del danno.

A titolo di ipotesi di lavoro, potrebbe pervenirsi a conclusioni differenti ritenendo che il fatto richiamato dal Legislatore debba intendersi non come fatto storico, ma come fatto

147 Cfr., P.A

LDROVANDI, L’infedeltà patrimoniale. Art. 2634 c.c., cit., p. 141.

148 Ibidem, p. 141. Nel senso di attribuire rilevanza anche al dolo diretto con la conseguente esclusione del

solo dolo eventuale G.SCHIAVANO, Riflessioni sull’infedeltà patrimoniale societaria (art. 2634 c.c.), cit., p. 825 per il quale «non c’è dubbio che il legislatore (…) richiedendo l’intenzionalità del dolo abbia voluto un quid pluris in aggiunta al dolo diretto, escludendo la possibilità di ritenere punibile la condotta infedele in presenza del solo dolo eventuale. A nulla rileva osservare che il richiamo espresso all’intenzione non dica nulla di più o di meno di quanto già dispone l’art. 43 c.p., secondo il quale il delitto “è doloso o secondo l’intenzione (…)”, giacché la volontà legislativa, come emerge da tutte le modifiche realizzate con riferimento all’elemento soggettivo porta a ritenere, come in effetti si ritiene che, in questa ipotesi, il legislatore ha voluto un dolo diretto senza la possibilità del dolo eventuale».

149 V.M

ILITELLO, Infedeltà patrimoniale (Art. 2634 c.c.), cit., p. 485 secondo il quale «il legislatore, nel formulare la fattispecie, ha posto al centro della condotta del soggetto la disposizione del bene sociale e ha collocato tra le conseguenze accessorie di tale atto il verificarsi intenzionale del danno patrimoniale. L’inversione nella costruzione della frase ha finito per creare un’antinomia di significato: la conseguenza accessoria deve essere il fine ultimo di un atto di disposizione che, invece, può essere voluto dall’amministratore anche solo come probabile conseguenza della propria condotta base. Ne consegue che l’operazione di sbarrare la strada al dolo eventuale nella struttura della fattispecie non può dirsi tecnicamente riuscita: la condotta posta a baricentro dell’incriminazione rimane integrabile con quella forma di dolo tanto problematica specie nel diritto penale dell’economia».

di reato, e pertanto comprensivo dell’elemento materiale e soggettivo previamente qualificato150.

La diversità di trattamento, tuttavia, spezza il parallelismo tra le due condotte e getta un’ombra di illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 3 Cost151.

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