Il conflitto di interessi, presupposto della condotta criminosa dell’infedeltà patrimoniale, costituisce un elemento nevralgico della fattispecie in quanto il dovere di fedeltà assume concretezza soltanto nel momento in cui l’agente si trovi a dover operare una scelta tra interessi contrastanti: «è, il concetto di fedeltà, un concetto che acquista concretezza solo sotto un presupposto di conflitto (…)»64.
61 La precedente formulazione dell’art. 135 t.u.b. richiamava solamente le disposizioni contenute nei Capi
I, II, V del Titolo XI del Libro V c.c.; tuttavia, a seguito della riforma dei reati societari rimanevano escluse dal richiamo le disposizioni di cui ai Capi III (artt. 2630-2631) e IV (artt. 2632-2641).
62
In questo senso anche E.MEZZETTI, L’infedeltà patrimoniale nella nuova dimensione del diritto penale societario, cit., p. 216; C.BENUSSI, Infedeltà patrimoniale e gruppi di società, cit., p. 113.
63 Cfr. Cass. pen., sez. V, 30 novembre 2012, n. 6189.
64 Generalmente gli interessi che si contrappongono sono quelli di cui è portatore il soggetto agente (in
prima persona o per conto di terzi) con quelli che lo stesso soggetto avrebbe l’obbligo (in virtù di un rapporto di fatto o di diritto) di perseguire. In questo senso P.NUVOLONE, L’infedeltà patrimoniale nel diritto penale, cit., p. 12, ove definisce il carattere della fedeltà nella sua accezione personale sostenendo che «il concetto di fedeltà sta ad indicare un comportamento cosciente di subordinazione dei propri interessi agli interessi di un’altra persona. Questa subordinazione può avere un contenuto più o meno ampio e può sussistere rispetto ad una sfera più o meno ampia di interessi. C’è però un minimum necessario perché si possa parlare di fedeltà: e, cioè, la persona che vuol essere fedele ad un’altra deve assicurare, almeno negativamente, la prevalenza degli interessi di quest’ultima in caso di conflitto».
La necessaria correlazione tra rapporto conflittuale e violazione dell’obbligo di fedeltà, riconosciuto da così autorevole dottrina, sembra in linea con la nostra tradizione giuridica e normativa, che già sotto la vigenza dell’abrogato art. 2631 c.c. affidava a tale disposizione, rubricata “conflitto di interessi”, il compito di proteggere il patrimonio sociale dagli abusi degli organi gestori. Il legislatore della riforma sembra aver voluto chiarire il rapporto, ancorando la rilevanza penale dell’infedeltà nella gestione all’esistenza di una situazione di conflitto di interessi.
In tal modo, si è voluto circoscrivere entro accettabili confini di determinatezza il fatto punibile65.
Per una corretta disamina del presupposto conflittuale è necessario delineare innanzitutto i parametri di riferimento del conflitto stesso: da un lato l’interesse sociale, e dall’altro l’interesse extrasociale di cui è portatore il soggetto proprio66.
L’interesse sociale è stato definito
«la “bussola” che gli organi societari devono seguire nello svolgimento del loro mandato: devono agire nel solo interesse della società, anteponendo siffatto interesse agli interessi personali di cui sono eventualmente portatori»67.
Deve tuttavia rilevarsi come il concetto di interesse sociale non sia definito in modo univoco dalla dottrina e dalla giurisprudenza, ed è soggetto a diverse interpretazioni anche a seconda del ramo di diritto nel contesto del quale è impiegato.
Pur nella consapevolezza di peccare gravemente di indeterminatezza e imprecisione, la summa divisio tra le concezioni dominanti contrappone la tesi contrattualistica68 alla visione istituzionalistica69. L’individuazione dell’interesse sociale diviene ancor più ardua e complessa, per il moltiplicarsi dei fattori in gioco, allorché la singola società si inserisce e contestualizza in un gruppo.
65 In senso conforme E. M
USCO, I nuovi reati societari, cit., p. 209-210; L. FOFFANI, Infedeltà patrimoniale, cit., p. 460.
66 Nello stesso senso P. A
LDROVANDI, Art. 2634 c.c., cit., p. 188-189, il quale, citando C.PEDRAZZI, sostiene che «i poli della situazione conflittuale debbono essere rappresentati da un interesse extrasociale “di cui l’amministratore è portatore e dall’interesse sociale, da intendere come interesse comune ai soci come tali, strumentale al conseguimento di utili da dividere”».
67 C.B
ENUSSI, Infedeltà patrimoniale e gruppi di società, cit., p. 156.
68 La letteratura penalistica sembra orientata quasi unanimemente verso l’accoglimento della teoria
contrattualistica, secondo la quale «l’interesse sociale non consisterebbe in altro che nell’interesse comune dei soci e, più precisamente, nell’interesse di costoro alla realizzazione dello scopo della società, id est al conseguimento di utili per il tramite della realizzazione dell’oggetto sociale».
69 Quest’ultima farebbe coincidere l’interesse sociale con l’interesse esclusivo e “superiore” dell’impresa
In estrema sintesi si può affermare che «l’interesse della società è quello di produrre il massimo utile con il minimo sforzo»70, e potrà generare un conflitto quando l’agente dirigerà la sua condotta non al suo raggiungimento ma al fine di “procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio”.
Si individua così il secondo parametro di riferimento: l’interesse extrasociale confliggente.
Circa l’ampiezza di contenuto da attribuire al conflitto in questione, la dottrina maggioritaria afferma con certezza la necessità di limitarne i confini entro una dimensione di carattere economico, in conformità alle esigenze di obiettivizzazione. La patrimonialità dell’interesse sociale non creava particolari problemi già sotto la vigenza della vecchia disciplina (che espressamente lo definiva «di ordine patrimoniale»71), e «oggi (…) trova una conferma nella struttura della fattispecie, in cui il danno patrimoniale costituisce l’evento, sul quale si incentra il momento offensivo della fattispecie»72.
Analogo discorso non può svolgersi – in termini così piani – per definire l’interesse del soggetto attivo del reato.
Infatti, mentre in relazione all’art. 2631 c.c. era opinione condivisa che anche l’interesse personale dovesse essere di natura patrimoniale, oggi si riscontrano in dottrina una pluralità di posizioni. Da un lato v’è chi ribadisce l’economicità di tale interesse73, e dall’altro chi sostiene che la formula utilizzata dal legislatore della riforma nel definire il dolo specifico (la quale attribuisce rilevanza tanto all’ingiusto profitto quanto ad un altro vantaggio) consente «di abbracciare qualsiasi utilità, anche di carattere non economico»74.
70 In questi termini L.E
NRIQUES, Il conflitto d’interessi degli amministratori di società per azioni, Milano 2000, p. 189, il quale ritiene l’interesse comune dei soci coincidente con quello della società e lo definisce come «quello della produzione di utili in vista della loro divisione» precisando poi che si deve trattare del conseguimento del massimo utile possibile; in senso analogo E.AMATI, Infedeltà patrimoniale, cit., p. 405.
71 Come già sostenuto da C.P
EDRAZZI, Società commerciali (disciplina penale), in Dig. Pen., vol. XIII, Torino, 1993, p. 390.
72 In questo senso si esprime P.A
LDROVANDI, Art. 2634 c.c., cit., p. 189.
73 A. C
RISTIANI, Art. 2634 c.c., cit., p. 166, il quale ritiene che «il presupposto (…) cada sul terreno specificamente economico. Interessi ipotetici di tipo o natura diversi, come, ad esempio, quelli che potrebbero nascondersi in decisioni tendenti a favorire finalità personali o aspirazioni (…) non sarebbero da ritenersi pertinenti».
74 Secondo P.A
LDROVANDI, Art. 2634 c.c., cit., p. 189, «(…) il legislatore ha inteso inserire una formula di chiusura, dall’ampia portata, al fine di chiarire esplicitamente la possibilità che l’agente agisca per il perseguimento di un’utilità di carattere non economico, evitando in tal modo l’insorgere di qualsiasi
Con le parole di Aldrovandi, potrebbe dirsi che «nella nuova fattispecie, fermo il carattere patrimoniale dell’interesse sociale, sembra che l’interesse extrasociale con lo stesso confliggente possa essere anche di altra natura»75.
Precisati i termini della questione, occorre ora addentrarsi nella sostanza della posizione conflittuale. A tal fine, la strada maestra non può che essere l’ampia casistica giurisprudenziale e le numerose teorie dottrinali formatesi sotto la vigenza dell’abrogato art. 2391 c.c. in rapporto alla precedente figura incriminatrice del conflitto di interessi di cui all’art. 2631 c.c.
È soprattutto in relazione alla disciplina civilistica, infatti, che la dottrina si è sforzata di individuare le possibili manifestazioni del conflitto di interessi tra organo gestorio e società.
In particolare, si è evidenziato come una determinata operazione possa manifestare: a) un conflitto potenziale, «quando, ipotizzando che l’operazione venga deliberata dall’amministratore interessato e che questi scelga di perseguire il proprio interesse, sia ragionevolmente prevedibile che l’operazione risulti in contrasto con lo scopo sociale»76;
b) oppure un conflitto attuale, «quando l’operazione sia deliberata a condizione di ledere l’interesse sociale. Si noti che questo rapporto di interessi non richiede necessariamente che la lesione dell’interesse sociale effettivamente si produca, essendo sufficiente che essa sia prevedibilmente certa nel momento in cui l’operazione è deliberata»77.
La giurisprudenza penale – nell’interpretare l’art. 2631 c.c. – oscillava tra due orientamenti: uno formalistico, originato dalla più recente giurisprudenza di legittimità78, e un altro sostanzialistico, risalente all’iniziale orientamento della Cassazione79 e fatto proprio dalla prevalente dottrina80.
dubbio sul punto: timore che appariva in realtà giustificato dalla prevalente opinione a favore della natura economica del conflitto d’interessi»; si spinge oltre R.ALAGNA, Note sul concetto penalistico di conflitto di interessi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, p. 757, affermando che l’inserimento nella descrizione del dolo specifico della dizione “altro vantaggio” non soltanto «apre la strada alla punibilità di quelle condotte cui è sottesa una finalità diversa dall’arricchimento patrimoniale» ma fa ritenere che «l’intento di centrare l’oggettività giuridica sul patrimonio della società venga sviato (…)».
75 P.A
LDROVANDI, Art. 2634 c.c., cit., p. 190.
76 L.E
NRIQUES, Il conflitto di interessi degli amministratori di società per azioni, cit., p 189.
77
Ibidem, p. 190.
78 Cass. pen., Sez. V., 4 luglio 1989, Grieco, cit., 1991, p. 307; Cass. pen., Sez. I., 11 dicembre 2000,
Cass. pen., p. 354.
I fautori dell’interpretazione formale, accogliendo l’accezione potenziale del conflitto di interessi, configuravano il reato come mera ipotesi di pericolo presunto81 e ritenevano sussistente il conflitto in presenza di alcuni indici astratti enucleati dalla dottrina, quali: 1) l’assunzione diretta o indiretta, da parte dell’amministratore, della qualità di controparte contrattuale della società; 2) l’esercizio di una attività economica in posizione concorrenziale con la società; 3) lo sfruttamento, ai fini del personale profitto, di fatti e notizie appresi nell’esercizio o a causa delle proprie funzioni82.
Con l’introduzione della nuova figura di infedeltà patrimoniale, e data la strutturazione della fattispecie come reato di danno, l’accezione meramente formale del conflitto di interessi non può oggi trovare accoglimento. Essendo necessario che l’atto dispositivo abbia concretamente cagionato un danno patrimoniale alla società, infatti, gli indici meramente formali innanzi menzionati, lungi dall’essere sufficienti ad individuare una situazione di conflitto, «potranno costituire una premessa indiziante della possibilità di un conflitto di interessi, ma non ne costituiscono implicitamente o automaticamente la prova o la sussistenza, che va verificata in relazione ai singoli atti deliberativi»83.
Sembra perciò da preferire una ricostruzione normativa della fattispecie in termini di lesione effettiva del bene protetto. Il conflitto di interessi, dunque, assumerà rilievo solamente quando sia: 1) oggettivamente valutabile84; 2) attinente alla sfera economico- patrimoniale della società; 3) effettivo e reale; 4) attuale85 e preesistente alla condotta86.
80 Sul punto cfr. L.F
OFFANI, voce «Società», in Commentario breve alle leggi penali complementari, a cura di F.PALAZZO-C.E.PALIERO, cit., p. 1878; ID, Infedeltà, cit., p. 81; M.ROMANO, Profili penalistici del conflitto di interessi degli amministratori di società per azioni, Milano 1967, p. 54; P.ALDROVANDI, Infedeltà patrimoniale, cit., p. 129 e 132; A.L.MACCARI, Art. 2634 c.c., cit., p. 158; E.MUSCO, I nuovi reati societari, cit., p. 208.
81 Considera il reato di «conflitto di interessi» come reato di pericolo presunto P.A
LDROVANDI, Art. 2634 c.c., cit., p. 129, ove afferma che «l’art. 2631 c.c. doveva intendersi come diretto semplicemente a garantire la correttezza formale delle deliberazioni adottate dagli amministratori, sicchè la punibilità non avrebbe potuto escludersi neppure nel caso che dalla delibera la società avesse tratto vantaggio. Ciò che importava era semplicemente la posizione di formale contrapposizione tra gli interessi dell’amministratore e quelli della società, e non le modalità con cui in concreto questi avesse gestito il conflitto in parola».
82 E.M
USCO, I nuovi reati societari, cit., p. 211.
83 A.C
RISTIANI, Art. 2634 c.c., cit., p. 167.
84 Indizio in tal senso si ricava con criterio sistematico contestuale dallo stesso art. 2634 c.c. co. 3 laddove
precisa che non è ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo se “compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili”. A tal proposito rileva A.CRISTIANI, Art. 2634 c.c., cit., p. 213, essere «evidente che questa valutazione (…) non può che presupporre criteri effettivi, oggettivi e concreti (…)».
85
Come rileva A.CRISTIANI, Art. 2634 c.c., cit., p. 213 «(…) l’attualità del conflitto esigendo che esso sussista al momento in cui viene posta in essere la condotta tipica del reato (…) impedisce che possa darsi rilievo a situazioni verificatesi in un momento successivo (…) evita, altresì, che si possa ricorrere ad inaccettabili semplificazioni probatorie che partendo dal dato finalistico dell’esistenza di un danno
Breve: ricorre una situazione di conflitto di interessi quando, in un determinato atto, vengano a trovarsi in un rapporto di obiettivo antagonismo l’interesse sociale, ovviamente di natura economica e quello – anche non patrimoniale – dell’amministratore, del direttore generale o del liquidatore, sì che il soggetto apicale, di fronte alle due prospettive che gli si presentano, anziché operare nell’esclusivo interesse sociale, indirizzi la sua condotta nella direzione opposta87.
Confrontando le formulazioni del vecchio art. 2631 c.c. e della nuova norma incriminatrice, balza agli occhi l’assenza dell’inciso “per conto proprio o di terzi” in relazione alla titolarità dell’interesse in conflitto. Tuttavia, non sembra sussistano ragioni per limitare la portata del presupposto conflittuale al solo interesse personale del soggetto agente. L’apparente carenza, infatti, è colmata dalla considerazione che il dolo specifico ha ad oggetto “un ingiusto profitto per se o per altri”, talchè sembra doversi ritenere che il legislatore abbia ritenuto la specificazione addirittura superflua. Tuttavia
«in entrambi i casi, dovrà trattarsi di un interesse effettivamente in grado di influenzare l’assunzione o la deliberazione dell’atto dispositivo e il conflitto, per assumere rilevanza sul versante penale, dovrà provocare un danno alla società»88.
A corollario di quanto esposto, si è desunto come il conflitto di interessi «funga da criterio propedeutico di preselezione dei comportamenti tipici»89 e permetta di «escludere» dall’ambito applicativo della fattispecie tutte quelle situazioni che non diano luogo ad una situazione di pericolo concreto per il patrimonio sociale90: qualifica
patrimoniale per la società presumano, per ciò solo, l’esistenza di una qualche finalità extrasociale dell’amministratore».
86 Come previsto dalla Relazione illustrativa allo Schema di disegno di legge delega per la riforma del
diritto societario, in Riv. soc., 2000, p. 79 ove si osserva che il presupposto della situazione di conflitto di interessi «al fine di non privarlo della sua idoneità selettiva, dovrà intendersi come riferito a contrapposizioni di interessi obiettive e preesistenti alla condotta, e non già emergenti solo in occasione di quest’ultima».
87 L’espressione è di C.B
ENUSSI, Infedeltà patrimoniale, cit., p. 160.
88
In questo senso C.BENUSSI, Infedeltà patrimoniale e gruppi di società, cit., p. 161.
89 L.F
OFFANI, Le infedeltà, cit., p. 351.
90 Contra E. M
EZZETTI, L’infedeltà patrimoniale nella nuova dimensione del diritto penale societario, cit., p. 224 dove afferma che «il conflitto di interessi diviene per tale via non il presupposto, per porre una serie di divieti conseguenti, la cui semplice violazione fa scattare l’incriminazione, ma la “mera ambientazione in cui si svolge la condotta illecita”, il carattere di illiceità del comportamento di chi, investito di un potere di gestione, si comporta in modo difforme da quanto consentito nell’interesse sociale (…) da ‘proprietario’ e ‘padrone unico dei beni sociali. Ne segue che la situazione di conflitto non presenta (…) un vero carattere selettivo (e anticipato) della punibilità perché ciò che rileva è invece disporre del patrimonio sociale in modo svantaggioso e quindi contrario agli interessi sociali, ciò che implica che il conflitto è in re ipsa, è implicito nell’atto di disposizione patrimoniale che crea un danno alla società».
l’illiceità della condotta dei soggetti attivi, circoscrivendo la tipicità del fatto91. Si è affermato quindi che
«il presupposto conflittuale è proprio quello che conferisce l’essenziale momento di disvalore alla condotta tipica, descritta in termini estremamente ampi come il fatto di compiere o concorrere a deliberare “atti di disposizione di beni sociali”, dai quali sia derivato “un danno patrimoniale alla società”» 92.
Il rapporto di causalità tra gli atti di disposizione e il danno, dunque, si pone come momento qualificante (e costitutivo) della fattispecie (ut sic focalizzato anche dall’elemento soggettivo) poiché i primi, di per sé, talvolta non esprimono il contenuto lesivo della fattispecie (potendo rappresentare anche solo la fisiologia dell’impresa), mentre il secondo (essendo connaturato allo stesso rischio di impresa) è sempre in agguato all’atto di gestione93.
Evidenti necessità di coordinamento impongono di considerare le modifiche apportate dal legislatore alla disciplina civilistica e, in particolare, all’art. 2391 c.c., prima della riforma rubricato “conflitto di interessi”.
La norma obbligava l’amministratore in conflitto di interessi ad astenersi dalle deliberazioni riguardanti l’operazione.
Oggi sono previsti obblighi più pregnanti.
Mutata la rubrica in “interessi degli amministratori”, la norma impone di “dare notizia agli amministratori e al collegio sindacale di ogni interesse che, per conto proprio o di terzi, abbia in una determinata operazione della società, precisandone la natura, i termini, l’origine e la portata (…)”. Con la riforma «si è passati da un sistema di divieti formali (o formalistici) ad un sistema di disclosure obbligatoria e di decisione informata»94.
91 V.M
ILITELLO, I reati di infedeltà, in Dir. proc. pen., 2002, p. 484 afferma che «il richiamo al conflitto di interessi ha solo una portata selettiva della materia del divieto, ma non esaurisce certo gli elementi tipici dell’offesa, orientati invece nel complesso ad una tutela essenzialmente patrimoniale».
92 Secondo P.A
LDROVANDI, Art. 2634 c.c., cit., p. 187 «si tratta dell’unico elemento di natura meramente oggettiva che apporti un coefficiente di disvalore di condotta nell’ambito dell’illecito in esame; disvalore che, per il resto, trova i suoi dati caratterizzanti in elementi di natura soggettiva». L’A. utilizza l’avverbio meramente in quanto, in realtà, anche il dolo specifico richiesto dalla fattispecie si riverbera sul piano oggettivo, implicando l’idoneità della condotta al raggiungimento del fine perseguito. Si segue l’impostazione di G. MARINUCCI-E. DOLCINI, Manuale di diritto penale, cit., p. 265 che propugna «l’oggettiva idoneità degli atti compiuti dall’agente a cagionare l’evento dannoso o pericoloso preso di mira».
93 D’A
VIRRO, L’infedeltà patrimoniale, cit., p. 65.
94 P.M
La tutela è rivolta alla protezione di diversi beni giuridici tra i quali emerge, oltre all’integrità patrimoniale, la correttezza e trasparenza95 dell’attività consiliare, garantita anche dall’obbligo di “adeguatamente motivare le ragioni e la convenienza per la società dell’operazione” in presenza di interessi (coincidenti o confliggenti) di un amministratore.
A differenza del passato, la vigente norma incriminatrice dell’infedeltà patrimoniale non ha solo la funzione di dare immediata sanzione ad un comportamento previsto (anche) come illecito civile poiché le disciplina penalistica si pone in rapporto di progressione con la disciplina civilistica:
«la tutela penale offerta dal delitto di infedeltà, conformemente al suo carattere di extrema ratio, interviene in un momento successivo rispetto a quella civilistica, richiedendo da un lato, in capo all’amministratore un vero e proprio interesse in conflitto con quello della società e dall’altro, la verifica intenzionale di un danno patrimoniale»96.
La possibilità – per il consiglio d’amministrazione di deliberare – (ovviamente, previa adeguata motivazione) operazioni rispetto alle quali uno o più amministratori abbiano un interesse, e con la stessa partecipazione dei medesimi, comporta due corollari.
In primo luogo, è accentuata la concezione contrattualistica e privatistica dell’interesse sociale, attribuendo all’organo gestorio il potere di valutarne la portata con riferimento all’interesse specifico della società stessa: ne risulta ridefinita e ridimensionata anche la nozione di conflitto di interesse di cui all’art. 2634 c.c.
In secondo luogo, la delibera assunta col parere conforme e motivato del consiglio di amministrazione manifesta una differente incidenza del fatto sul piano del disvalore giuridico, tanto da consentire la possibilità di escludere la responsabilità penale dell’amministratore (seppur in conflitto). È opinione unanime che, pur persistendo la situazione conflittuale, difetterebbe l’intenzionalità del danno97.
95
La ratio del nuovo art. 2391 c.c. è illustrata esplicitamente nella Relazione allo schema del d.lgs. 17 gennaio 2003 n. 6 di attuazione della l. 3 ottobre 2001, n. 366, § 6, III, 3, in www.ipsoa.it/Isonline ove si afferma che «il maggior rigore (…) vuole sottolineare non solo che qualsiasi amministratore, essendo un gestore di patrimonio altrui, non può approfittare della sua posizione per conseguire diretti o indiretti vantaggi, ma soprattutto il valore della trasparenza nella gestione delle società».
96 E.M
USCO, I nuovi reati societari, cit., p. 211.
97 Tra gli altri, cfr. D’
AVIRRO, L’infedeltà patrimoniale, cit., p. 68, «la valutazione di convenienza dell’operazione in conflitto di interessi con quello della società, operata dal consiglio d’amministrazione» se effettuata in buona fede, è idonea, per il caso in cui l’operazione abbia prodotto un danno patrimoniale