8. La duplicità delle forme di dolo e i controversi margini di sopravvivenza del dolo eventuale.
8.1. Il dolo specifico.
È stato evidenziato come la previsione del dolo specifico costituisce un ulteriore filtro selettivo131 di rilevante importanza, soprattutto se si considera che la condotta in sé può essere «neutra», e che il danno può rientrare nel comune rischio di impresa.
La particolare configurazione dell’elemento soggettivo, pertanto, parrebbe rispondere proprio all’esigenza di «selezionare» ulteriormente il substrato illecito della condotta: in altre parole, non basterà verificare la situazione conflittuale, bensì occorrerà che la condotta posta in essere sia concretamente idonea a procurare “a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio132”.
Altri autori si soffermano a sottolineare come la presenza del dolo specifico sia in grado di salvaguardare il finalismo della fattispecie. In tal modo si evita che la responsabilità degli amministratori sia ancorata esclusivamente alla mera successione cronologica tra atto di disposizione – seppur deliberato in una situazione di conflitto di interessi – e danno patrimoniale; allo stesso tempo si ostacola la riproposizione di interpretazioni formalistiche133.
131 Cfr., E.A
MATI, Art. 2634 c.c., cit., p. 417; P.ALDROVANDI, Art. 2634 c.c., cit., 195; E.MUSCO, I nuovi reati societari, cit., p. 214; E. MEZZETTI, L’infedeltà patrimoniale nella nuova dimensione del diritto penale societario, cit., p. 204 nota 44 richiama C. PEDRAZZI, Problemi di tecnica legislativa, p. 31 riguardo alle ipotesi delittuose di infedeltà patrimoniale, rammentando come «l’inserimento di un requisito di dolo specifico (nel senso del perseguimento di finalità personali dirette o indirette) costituisce un saggio correttivo, considerato che l’attività di gestione imprenditoriale comporta inevitabilmente l’assunzione di rischi non sempre calcolabili e contenibili, e quindi l’esposizione a pericolo del patrimonio sociale. Poiché è sottile e malcerto il confine tra il rischio normale, come tale consentito, e il rischio che, in quanto anomalo, contrasta con l’interesse sociale, opportunamente la punibilità è stata ancorata alla presenza di un movente egoistico».
132 Si segue l’impostazione di G.M
ARINUCCI-E.DOLCINI,Manuale di diritto penale, cit., p. 265 secondo la quale il dolo specifico deve essere letto in chiave oggettiva: non basterà quindi analizzare l’intenzione dell’amministratore ma occorrerà anche accertare, con un giudizio di prognosi postuma, se quella condotta fosse in concreto idonea a raggiungere quel risultato. Non è richiesto, invece, l’effettivo conseguimento del fine preso di mira dall’agente. Tale impostazione permetterebbe di scongiurare il pericolo di facili semplificazioni probatorie ad opera della giurisprudenza.
133 R.A
CQUAROLI, Alcune osservazioni sul reato di infedeltà patrimoniale alla luce del nuovo diritto societario, cit., p. 170 ss. ove afferma che « il dolo specifico è in grado di salvaguardare il finalismo della fattispecie, così evitando che l’interrelazione conflitto di interessi-danno patrimoniale possa, con il fondare da sola la responsabilità dell’amministratore, reintrodurre interpretazioni formalistiche della fattispecie, legate all’esito negativo di normali operazioni economiche».
Altra parte della dottrina, invece, si è mostrata fortemente perplessa in merito alla reale capacità selettiva del requisito in questione, al punto da definirlo un «inutile doppione»: una volta stabilito, infatti, che il soggetto agente deve comunque rappresentarsi i termini concreti e attuali della situazione conflittuale ed essere pienamente consapevole della potenziale dannosità dell’operazione sociale a cui afferisce il conflitto, la proiezione finalistica della condotta nulla aggiunge134, in realtà, a quanto la fattispecie incriminatrice già richiederebbe sulla base di un semplice dolo generico135.
Oltretutto si è rilevato come, secondo un’ordinaria regola di esperienza, sembri
«difficile ipotizzare situazioni in cui l’agente sia consapevole di agire in conflitto di interessi con la società e al contempo abbia l’intenzione di danneggiare l’altrui situazione patrimoniale, ma non intenda trarre, per sé o per altri, un vantaggio qualificabile come ingiusto»136.
Tuttavia proprio l’ordinaria compresenza delle finalità in questione comporta il rischio concreto che la giurisprudenza finisca per presumere l’esistenza di tale requisito ogni volta che accerti la presenza degli altri elementi della fattispecie.
La dottrina citata ritiene che il legislatore si sia risolto nel senso della previsione del dolo specifico «per scontare in anticipo la vischiosità della tradizionale lettura formalistica del conflitto di interessi di cui al vecchio art. 2631 c.c.» 137.
Non è mancato neppure chi ha sostenuto la possibilità che una lettura formalistica, in realtà, residui nella dizione “altro vantaggio”:
134 Di diverso avviso P. A
LDROVANDI per il quale l’ulteriore requisito del dolo specifico è volto all’accertamento di un quid pluris rispetto al presupposto conflittuale. Infatti questo deve «essere inteso come espressione della scelta di perseguire, nell’ambito della situazione conflittuale che funge da presupposto della condotta, l’interesse extrasociale».
135 Cfr. L.F
OFFANI, Le infedeltà, cit., p. 354; ID, Art.2634 c.c., cit., p. 2519 «(…) quel dolo specifico autonomamente previsto dall’art. 2634 c.c. a null’altro mira se non a soddisfare quella medesima esigenza già posta a base della tipizzazione della situazione di conflitto di interessi come presupposto della condotta» e a sostegno di ciò riporta l’obiter dictum di Cass. pen., 26 ottobre 2005., in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, p. 1071 dove si osserva che «il profitto ingiusto null’altro è che la proiezione soggettiva del preesistente conflitto»; in senso analogo si esprime anche V.MILITELLO, L’infedeltà patrimoniale (Art. 2634 c.c.), cit., p. 486, il quale sostiene che «non possono nutrirsi grandi aspettative sulla reale capacità selettiva di un tale elemento rispetto agli altri elementi richiesti dalla norma»; pur se in relazione al progetto Mirone (ID,Infedeltà patrimoniale e corruzione, cit., p. 917) aveva sostenuto che «l’esistenza di una finalità di profitto ingiusto serve (…) a concretizzare il riferimento al conflitto di interesse, che altrimenti resterebbe eccessivamente vago»; l’osservazione, in questo caso, era sviluppata in funzione di un’analisi sul significato politico-criminale dell’elemento.
136 Cfr. V.M
ILITELLO, L’infedeltà patrimoniale. Art. 2364 c.c., cit., p. 486.
137 Tuttavia, come afferma L.F
OFFANI, Art. 2634 c.c., cit., p. 2195 «una tale ipotesi è attendibile per quanto riguarda la fattispecie di gestione infedele ex art. 167 t.u.i.f., che parla di “violazione delle disposizioni regolanti il conflitto d’interesse”, mentre non può valere per una fattispecie quale quella del nuovo art. 2634 c.c. incentrata da un lato in termini sostanziali sull’ “interesse in conflitto con quello della società” e dall’altro sulla verificazione di un danno patrimoniale».
«questo elemento, infatti, apre la strada alla punibilità di quelle condotte cui è sottesa una finalità diversa dall’arricchimento patrimoniale. Appare qui il dovere oggettivo di correttezza, emblema di una lettura formalista del concetto di conflitto di interessi»138.
Siffatta lettura non è da condividersi poiché si ritiene139 che la locuzione “altro vantaggio” accompagnata “all’ingiusto profitto” sia stata inserita dal legislatore esclusivamente per garantire alla formulazione una maggiore determinatezza. Esigenza suscitata dal costante orientamento, dottrinale e giurisprudenziale, caratterizzato dall’attribuzione al termine “profitto” di un significato oltremodo estensivo e comprensivo di qualsiasi soddisfazione – di natura e genere diverso – da parte del soggetto agente.
L’innovazione deve quindi essere letta nel senso di far riacquistare al termine “profitto” la sua originaria accezione economico-patrimoniale; la locuzione “altro vantaggio”, invece, assume rilievo quale clausola di chiusura introdotta per estendere la punibilità a quelle disposizioni di beni sociali sorrette da una finalità non già di arricchimento patrimoniale, ma di diversa utilità (quali, ad esempio, il prestigio personale, la capacità contrattuale con altri soggetti, l’influenza politica etc.).
Il profitto preso di mira dall’agente deve manifestare il carattere dell’ingiustizia.
L’operazione in conflitto di interessi non sempre è animata dal perseguimento di un profitto ingiusto: il profitto diventa ingiusto solo allorchè l’agente indirizza la sua condotta al raggiungimento di interessi extrasociali, incompatibili con quelli sottostanti il potere conferitogli140. Si tratta di una specificazione di notevole rilievo in quanto manifesta una illiceità c.d. speciale, introdotta dal legislatore con l’intento di non rendere evanescente il conflitto di interessi. Essa, quindi, postula la necessità, accanto all’accertamento della condotta infedele, di un altro autonomo accertamento volto a verificare l’effettiva ingiustizia del profitto preso di mira dall’agente, ossia diretto a conseguire un arricchimento non tutelato dall’ordinamento141.
138 R.A
LAGNA, Note sul concetto penalistico di conflitto di interessi, cit., p. 757.
139 Si condivide l’opinione di C.B
ENUSSI, Infedeltà patrimoniale e gruppi di società, cit., p. 209 ss.
140 In tal senso Cass. pen., Sez. II, 10 novembre 2005, in Riv. It. dir. e proc. pen., 2006, p. 1066 «il
profitto ingiusto null’altro è che la proiezione soggettiva del preesistente conflitto (…), che nella struttura della norma vale a qualificare la condotta come infedele connotandola di illiceità in quanto tesa a risolverlo nell’interesse del singolo».
141 In questo senso Cass. pen. sez. II, 22 maggio 2014, n. 36030 la quale ha statuito che «(…) non
commette il reato di infedeltà patrimoniale, e dunque deve essere assolto perché il fatto non sussiste, l'amministratore di società che dispone un accantonamento a bilancio per il pagamento di un compenso in suo favore non previsto dallo statuto o delibere assembleari, dovendosi ritenere egli titolare di un diritto soggettivo perfetto alla remunerazione e dunque esclusa la configurabilità di un danno
Infatti nel caso in cui il profitto perseguito dall’agente non sia contrario all’ordinamento giuridico il delitto di infedeltà patrimoniale non potrà ritenersi integrato ancorchè la condotta “pregiudichi” gli interessi della società142.
Il “fine di ingiusto profitto” assume particolare rilievo nell’ambito della disciplina dei gruppi poiché si afferma che il comportamento infedele non è punibile allorchè il profitto perseguito dall’agente sia giusto, ovvero “se il profitto della società collegata o del gruppo risulti compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo”.