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Sulla natura della clausola dei c.d vantaggi compensativi: scriminante, esclusione della tipicità del fatto o limite esegetico.

LA CLAUSOLA DEI VANTAGGI COMPENSATIVI.

3. La soluzione accolta dal legislatore: la clausola dei vantaggi compensativi.

3.4. Sulla natura della clausola dei c.d vantaggi compensativi: scriminante, esclusione della tipicità del fatto o limite esegetico.

Anche l’inquadramento dogmatico della clausola enunciata dal co. 3 dell’art. 2634 c.c. è stato teatro di conflitti interpretativi.

Ci si è chiesti se, in presenza di un vantaggio compensativo per la controllata a fronte di un danno derivato dalle direttive della holding, si dovesse configurare:

una scriminante;

una causa di esclusione della punibilità;

un limite intrinseco della fattispecie tale da escludere il dolo specifico; un limite esegetico.

Anche in questo caso, occorre dar conto dei diversi orientamenti poiché la soluzione influisce sull’ambito di applicazione della clausola e sull’interpretazione della corrispondente disposizione civilistica.

Parte della dottrina ravvisa nella clausola «le stigmate della scriminante»531 poiché volta ad escludere l’ingiustizia del profitto che possieda le caratteristiche descritte dalla disposizione stessa. A sostegno della tesi si adduce un bilanciamento di interessi operato dal legislatore che vedrebbe prevalere, rispetto alle esigenze di tutela della singola unità, il buon funzionamento del complesso: per tale ragione non sarebbe contra jus il profitto – di qualunque tipo si tratti – purchè trovi forme di compensazione, anche futuribili e non proporzionate.

A corollario si sostiene che i vantaggi compensativi precluderebbero il sorgere dell’antigiuridicità del fatto tipico, rendendo pienamente lecita la lesione del bene giuridico patrimonio, così come descritto nel co. 1.

Pertanto, in nome del principio di unità dell’ordinamento giuridico, si potrebbe dedurre la valenza universale della clausola, che facoltizzerebbe il fatto in qualsiasi settore dell’ordinamento rendendo inapplicabile qualsiasi sanzione (civile ed amministrativa compresa). Infine, qualificare la clausola come causa di giustificazione, comporterebbe

fraudolenta e bancarotta semplice nelle relazioni economiche all'interno dei gruppi di società, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2003, p. 1039.

531 F. M

UCCIARELLI, Il ruolo dei «vantaggi compensativi» nell'economia del delitto di infedeltà patrimoniale degli amministratori, cit., p. 631.

riconoscerne la valenza di principio generale per cui idoneo a scriminare ogni reato commesso in vista del perseguimento di un interesse di gruppo532.

Altri Autori – anche se a mero titolo di ipotesi – hanno ravvisato nel disposto normativo una specifica scelta basata su ragioni di politica-criminale, fondata sull’opportunità di impedire la reazione punitiva anche a fronte di un fatto tipico, antigiuridico e colpevole. In quest’ottica il co. 3 potrebbe essere configurato come una causa di esclusione della punibilità, od una causa personale di non punibilità533, o, ancora, una causa sopravvenuta di non punibilità534.

532 Confutano siffatta impostazione E. G

IOVANARDI, Sull’impossibilità di estendere i «vantaggi compensativi» ai reati fallimentari, nota a Cass. pen., Sez V, 5 giugno 2003, n. 36629, in Cass. pen., 2005, p. 1359 ss. e C.BENUSSI, Vantaggi compensativi e infedeltà patrimoniale nei gruppi di società: limite scriminante o «esegetico»?, in AA. VV., Studi in onore di Giorgio Marinucci, a cura di E.DOLCINI

–C.E.PALIERO,Milano, 2006, p. 2204 ss. i quali rilevano che «manca la norma che dovrebbe prevedere espressamente il fatto di reato come contenuto di un dovere o di una facoltà di realizzarlo: la riforma civilistica, infatti, ha riconosciuto l’esistenza – e la rilevanza – nell’ordinamento italiano di un interesse generale dell’intero gruppo societario al quale devono ispirarsi sia gli amministratori della capogruppo sia quelli delle società controllate» all’art. 10 lett. a) della legge delega viene sancita la necessarietà di un contemperamento di interessi senza individuare alcun tipo di gerarchia tra gli stessi. Pertanto l’interesse del gruppo non può sovrapporsi a quello delle singole società, prevalendo su di esse. Inoltre, anche a voler ritenere preminente la tutela dell’ «attività di direzione e coordinamento» rispetto agli interessi facenti capo alle singole controllate risulterebbe comunque impossibile qualificare come «causa di giustificazione del fatto» la disposizione contenuta nel co. 3 dell’art. 2634 c.c. poiché – oltre a non essere riferita all’intero fatto bensì esclusivamente ad uno degli elementi costitutivi dello stesso – difetterebbe di un requisito essenziale ossia dell’efficacia universale. Per poter essere considerata tale, il fatto penalmente rilevante commesso in sua presenza dovrebbe considerarsi «lecito in qualsiasi settore dell’ordinamento, e quindi non potrà essere assoggettato a nessun tipo di sanzione (penale, civile, amministrativa, ecc.)» secondo quanto sostenuto da G.MARINUCCI-E. DOLCINI,Manuale di diritto penale. Parte generale, cit., p. 149. In conclusione: assodato che l’esistenza di una scriminante rende il fatto commesso «lecito dappertutto», la previsione di un autonomo criterio civilistico – strutturato su requisiti più stringenti – rappresenterebbe un ostacolo insormontabile alla qualificazione come scriminante della clausola dei vantaggi compensativi disciplinata dall’art. 2634, co. 3, c.c. Ragionando diversamente il criterio civilistico sarebbe del tutto superfluo. Si esprime in termini analoghi anche G. BERSANI, Operazioni intragruppo e vantaggi compensativi nel diritto penale societario e fallimentare, cit., p. 6629.

533 E.G

IOVANARDI,Sull’impossibilità di estendere i «vantaggi compensativi» ai reati fallimentari, cit., p. 1359 ss. ipotizza di poter configurare, sulla falsariga dell’art. 649 c.p., una causa di non punibilità «in una visione olistica dei rapporti fra società, si potrebbe operare un raffronto tra la tutela dell’interesse giuridico iscritto alla «famiglia» (ed i rapporti familiari, alla stregua dei quali non è punito un figlio per il furto ai danni del padre) e la tutela dell’interesse superiore del gruppo, trascendente quello delle singole società isolatamente considerate: a fronte di una condotta infedele, perpetrata ai danni di una società «sorella», l’ordinamento reputa non meritevole di pena l’amministratore che abbia avuto di mira un superiore interesse di gruppo». L’assenza di una risposta sanzionatoria potrebbe spiegarsi alla stregua di interessi esterni alla meritevolezza della pena.

534 L’A. – citata alla nota precedente – ipotizza, quale plausibile alternativa, la qualificazione del co. 3

come causa sopravvenuta di non punibilità. L’assunto si basa sulla constatazione che l’intera riforma del diritto penale societario è caratterizzata da una spiccata predilezione per una tutela sostanziale dei beni giuridici protetti. Numerose sono, infatti, le disposizioni normative che prevedono specifici meccanismi di estinzione del reato in seguito alla reintegrazione dell’offesa o al risarcimento del danno da parte degli amministratori (artt. 2627, 2628, 2629, 2633 c.c.). Tali esenzioni sono state ascritte, sulla scorta di autorevole dottrina (G. Marinucci-E. Dolcini), alla categoria delle «cause sopravvenute di non punibilità», ossia situazioni in grado di eliminare le conseguenze dannose del fatto compiuto determinando il venir

Altra dottrina535 – minoritaria – configura la clausola come «limite esegetico» dell’offesa al bene tutelato dalla norma incriminatrice.

Già nei primi anni ’80 Cesare Pedrazzi, durante un convegno dedicato al tema dei gruppi di società, aveva rilevato – con riferimento alla figura criminosa dell’appropriazione indebita – che «l’esistenza di un rapporto di controllo, di un legame di gruppo, può funzionare, prima ancora che si ponga un problema di “giustificazione”, come limite interno della fattispecie»536.

La stessa considerazione – secondo la dottrina in esame – potrebbe svolgersi anche in relazione al caso de quo sulla base di un espresso riferimento normativo.

Avvalendosi di una consolidata interpretazione dottrinale, si rammenta potersi parlare di limite esegetico «quando la stessa norma incriminatrice appone un limite alla struttura del fatto che può incarnare l’offesa al bene»537: ossia un elemento, inserito nella stessa fattispecie, che serve per definire (o ridefinire in presenza di circostanze ulteriori e diverse) il fatto tipico.

Finchè il fatto rientra nel limite non vi sarebbe lesione del bene. Al contrario del limite scriminante, che è espressione di una norma diversa da quella incriminatrice il limite esegetico sarebbe, pertanto, un limite interno alla norma sia in senso sostanziale che in ragione della sua collocazione.

meno della pretesa punitiva. Tuttavia – nonostante un tale procedimento argomentativo venga svolto da molti in relazione alle soglie quantitative previste nelle fattispecie di false comunicazioni sociali – la stessa A. ritiene poco plausibile addurre tali argomentazioni a sostegno dell’ipotesi che la clausola sui vantaggi compensativi si limiti ad escludere la punibilità. Le ragioni di tali perplessità sono da individuare da un lato nel dato letterale il quale sul punto sembrerebbe incontrovertibile nel senso della irriconducibilità dell’esclusione della punibilità alla realizzazione del vantaggio, al contrario degli articoli summenzionati; dall’altro nella definizione stessa di vantaggio compensativo che difficilmente si presta a meccanismi prettamente aritmetici in base ai quali poter compiutamente quantificare l’ammontare della reintegrazione.

535 Si tratta di C.B

ENUSSI, Vantaggi compensativi e infedeltà patrimoniale nei gruppi di società: limite scriminante o «esegetico»?, cit., p. 2207 ss; ID,Infedeltà patrimoniale e gruppi di società, cit., p. 238.

536 La tesi è sviluppata in C.P

EDRAZZI,Gruppo di imprese e responsabilità penale, in AA.VV., Disciplina giuridica del gruppo di imprese, Atti del Convegno di studi svoltosi a Bellagio nei giorni 19-20 giugno 1982, Milano, 1982, p. 157 ss. Nel saggio l’A. evidenzia come l’operazione posta in essere dagli amministratori della controllata deve essere valutata alla luce della realtà di gruppo e dei vantaggi che alla stessa possono derivare dall’appartenenza al gruppo; di conseguenza «il sacrificio affrontato dalla controllata nell’interesse della controllante (…) va bilanciato con gli eventuali benefici che direttamente o indirettamente rifluiscono sulla controllata. Fino a quando il bilancio è positivo, fino a quando il sacrificio della controllata risulta adeguatamente compensato, viene meno la “materia prima” dell’appropriazione indebita; l’operazione resta nell’ambito delle legittime, ancorchè opinabili, decisioni gestionali, senza bisogno di ricorrere alla causa di giustificazione».

537 F. B

RICOLA,Limite esegetico, elementi normativi e il dolo nel delitto di pubblicazioni e spettacoli osceni, in Riv. it. dir. proc. pen., 1960, p. 753 ss; P.NUVOLONE, I limiti taciti della norma penale, Padova, 1972, p. 46 ss.

Ancora, il limite scriminante sarebbe frutto di considerazioni e di interessi estranei all’interesse tutelato, mentre il limite esegetico, interno all’interesse garantito, concorre positivamente o negativamente a delineare la stessa offesa.

Sussisterebbero, proseguendo nel ragionamento della dottrina citata, tutti i connotati del limite esegetico: un elemento intrinseco alla norma incriminatrice, collocato nella stessa disposizione, in sé incompatibile con un dato della fattispecie, al quale si attribuisce la funzione di vero e proprio limite di rilevanza dell’offesa contenuta nel fatto538.

La dottrina maggioritaria ritiene che la formula inerisca la struttura stessa del reato – a differenza di coloro che la inquadrano come scriminante e in senso analogo a chi ritiene trattarsi di un limite interno alla figura criminosa – in quanto finalizzata, in presenza di un vantaggio compensativo, a far venir meno un requisito essenziale della fattispecie: il dolo specifico539.

Il delitto di infedeltà patrimoniale (all’interno del quale è inserita la clausola) richiede, per la realizzazione del fatto tipico, che l’agente sia animato dalla volontà di perseguire un profitto ingiusto. Nel co. 3 il legislatore ha inserito l’ulteriore elemento secondo il quale la presenza di un vantaggio (conseguito o fondatamente prevedibile) vale a neutralizzare l’ingiustizia del profitto.

In altre parole, la consapevolezza di un legame di gruppo entro cui si compensano le attività e le passività ascritte alle singole controllate sarebbe elemento idoneo ad

538 Concludendo sull’argomento C.B

ENUSSI, Vantaggi compensativi e infedeltà patrimoniale nei gruppi di società: limite scriminante o «esegetico»?, cit., p. 2207 sostiene che il fatto dovrebbe essere considerato unitariamente e, quindi, tenendo conto anche del limite di cui al co. 3 dell’art. 2634 c.c. con la conseguenza che «se rientra nei limiti dei «vantaggi compensativi» non realizza l’offesa dell’interesse penalmente protetto (il patrimonio della società controllata), proprio per l’intrinseca incompatibilità tra due elementi, entrambi essenziali, della fattispecie criminosa: l’elemento descritto al co. 1 (l’ingiustizia del profitto) e l’ulteriore elemento previsto al co. 3, che completa la fattispecie (il conseguimento di vantaggi compensativi e la prognosi favorevole di conseguirli in un futuro)».

539 La tesi è esposta – seppur con formulazioni differenti – da diversi Autori: E.A

MATI, Art. 2634 c.c., in I reati societari, a cura di A. ROSSI, Torino, 2005, p. 427 la qualifica come «causa di esclusione del dolo specifico e, quindi, quale limite negativo della tipicità»; P.ALDROVANDI,Art. 2634 c.c., in I nuovi reati societari (Commentario al decreto legislativo 11 aprile 2002, n. 61) a cura di A. LANZI-A. CADOPPI, Padova, 2007, p. 200 sostiene che «tale situazione elide un elemento costitutivo della fattispecie, e cioè il dolo specifico». Condividono siffatta impostazione anche R.ACQUAROLI,Alcune osservazioni sul reato di infedeltà patrimoniale alla luce del nuovo diritto societario, in AA.VV., La riforma dei reati societari, a cura di C. PIERGALLINI, Atti del seminario, Macerata 21 marzo 2003, Milano, 2004,p. 194;A. CRISTIANI,Art. 2634 c.c.,Torino, 2003, p. 176;A. D’AVIRRO, L'infedeltà patrimoniale. Art 2634 c.c., cit., pp. 129 e 130; E.MUSCO,I nuovi reati societari, cit., p. 218; A.L.MACCARI, I nuovi illeciti penali e amministrativi, a cura di F.GIUNTA, Torino, 2002, p. 165; E. MEZZETTI,L'infedeltà patrimoniale nella nuova dimensione del diritto penale societario, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 234; V.MILITELLO, L’infedeltà patrimoniale, in I nuovi reati societari: diritto e processo, a cura di A.GIARDA,S.SEMINARA, Padova, 2002, p. 490.

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