Nel 1982, a Kassel, il compianto Joseph Beuys partecipò a Doku menta 7, la mega- rassegna d’ arte che contende la leadership alla Biennale di Venezia. L’ artista, però, non presentò un’ opera, ma una “scultura sociale” di ben 7.000 querce, mandan- do letteralmen te in visibilio gli ecologisti della Repubblica federale. L’ arte antro-
pologica di Josepy Beuys è fatta esattamente di questo, con prese di posizione su
brucianti questioni dei nostri giorni, gesti incon sueti spesso carichi di tutta l’ iro- nia e la forza delle pratiche cultu rali trasgressive. L’ operazione “7.000 querce” è un tipico esempio di arte antropologica: a un problema concreto, il rimboschimento di un’ area della città, Beuys risponde con un’ azione diretta, per lo più ricorrendo all’ antico linguaggio dei simboli (la parabola del l’ albero), adattato al modernis- simo problema del depauperamento della natura. Nella storia di Beuys l’ azione di Kassel non rappre sentava una novità: a questo genere di impegno sul piano cultura le e artistico Beuys si dedicava da almeno un decennio, da quando cioè cominciò a studiare l’ innovazione nei sistemi di coltivazione agricola come forma d’ arte e insieme organizzazione produttiva di carattere progressivo.
Le caratteristiche peculiari dell’ impegno espresso in campo cul turale dal grande artista d’ avanguardia sono probabilmente un se gnale, quanto mai elo- quente, dell’ insorgenza di quella “passione per l’ ecologia” che Mario Spinella con- nette alla acquisita consape volezza dell’ orizzonte della possibile “morte atomica”. Un processo in virtù del quale la prospettiva pantoclastica generale – di una mi- naccia, cioè, che investe l’ individuo e l’ ambiente – stimola una nuova solidarietà fra uomo e natura, parimente minacciati di di struzione. A questo stesso orizzonte appartiene forse l’ incertezza e l’ inquietudine contemporanee rispetto ai meccani- smi dell’ evolu zione tecnologica e una certa sfi ducia nella dinamica classica dello “sviluppo” che fa dire anche a uno scienziato rigoroso come Sylos Labini, non a
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caso in conclusione di un lavoro scritto proprio in quegli anni, che «non può es- serci motivo di compiacimento quando dal nostro sub conscio fa capolino la con- sapevolezza della tremenda precarietà di qualsiasi “progresso”, a causa del rischio
incombente di un olo causto nucleare»97. In altri termini, la relazione che Spinella
isti tuisce fra la situazione atomica e l’ insorgenza del sentimento eco logico è quan- to mai pertinente. Ciò che va sottolineato è però il fatto che l’ ecologia è già molto di più che una “passione”.
Quando, nel 1972, le Nazioni Unite annunciarono una grande conferenza mondiale sull’ ambiente, la tematica ecologica uscì fi nalmente dall’ ambito ristret- to degli specialisti e, grazie all’ interes se mostrato dai grandi mezzi di comunica- zione, il problema am bientale iniziò a coinvolgere larghi strati di opinione pub- blica su scala internazionale. Per molti mesi si parlò dell’ ecologia in tutti i suoi aspetti, da quelli pittoreschi a quelli rivoluzionari. Qualcuno coniò allora, per il nuovo pensiero ecologico, il concetto di scienza sovversiva.
In realtà, la parola “ecologia” è stata inventata più di un secolo fa dal biologo tedesco Ernst Haeckel. Nel divulgare le scoperte di Darwin, egli aveva suggerito la necessità di un’ autonoma disci plina che indagasse l’ infl uenza dell’ ambiente sugli esseri viventi. Questa scienza avrebbe dovuto descrivere sia gli scambi di materia ed energia fra gli esseri viventi e l’ ambiente inanimato, sia gli scambi dei viventi fra loro. Non a caso lo studioso tedesco defi nì l’ ecologia «economia della natura».
In epoca contemporanea, lo sviluppo vertiginoso della tecnologia, e l’ im patto ambientale conseguente, ma soprattutto l’ inedita minacciosa situazione deter- minata dalla proliferazione atomica hanno accre sciuto enormemente gli spazi di intervento dell’ iniziativa ambientalista. Anche in questo contesto la rifl essione ecologica ha tenuto a sottolineare l’ importanza di quello che è il suo leit motiv tradi zionale; la connessione fra gli organismi viventi, e quindi l’ uomo e l’ ambien- te. Già all’ inizio degli anni Settanta Barry Commoner, che può essere considerato il padre dell’ ecologia politica, metteva in guardia dai pericoli rappresentati per l’ ecosistema dallo sviluppo dell’ energia nucleare. Secondo lo studioso americano, coloro che percepirono nel bagliore di Hiroshima la vittoria dell’ uomo fi nal mente riuscito a «imbrigliare l’ energia delle stelle» non avevano per niente compreso la drammaticità catastrofi ca dell’ orizzonte che l’ umanità aveva appena dischiuso.
Per Commoner, la scienza nucleare è qualcosa di molto più complesso di un sapere che, fornendo all’ uomo una fonte illimita ta di energia, gli permette di rag- giungere sempre nuovi traguardi:
Capitolo 2 Il Medium nucleare
I primi venticinque anni dell’ era atomica ci dicono che questa credenza è profondamente, tragicamente sbagliata. Isolata su un atollo del Pacifi co o limitata al recinto di un impianto termonu cleare, essa riporta la vittoria: infatti fa saltare l’ isola e fa nascere elettricità dall’ impianto. Ma né l’ isola, né la centrale, né alcun’ al tra cosa sulla faccia della Terra esiste separata dal sottile tessuto dinamico che circonda il pianeta: il suo ambiente, l’ ecosfera. E una volta che l’ energia generata dalla fi ssione dell’ atomo si urta con l’ ambiente, come non può non succedere, scopriamo che la nostra conoscenza è incompleta, che la nuova tecnologia è perciò incompetente e che la nuova energia è di conseguenza qualcosa che deve essere tenuta sotto controllo, se vogliamo sopravvivere98.
Secondo Commoner, è questo il signifi cato più profondo di ciò che costituisce il principale scontro ambientale della nuova era tec nologica, poiché la realtà atomica ha ormai raggiunto una dimen sione e un’ intensità tali da misurarsi con quelle del sistema globale in cui viviamo. Ma gli uomini devono essere fi no in fondo consa- pevoli che non è possibile esercitare questo potere senza interferire con la delicata struttura ambientale che ci sostiene: «Ogni scorreria nell’ ambiente, qualunque siano i suoi benefi ci, ha un prezzo: il quale, a giudicare dalla testimonianza silenziosa delle armi nuclea ri, è la sopravvivenza»99. Ma questa stessa consapevolezza ci sugge risce
anche qual è la strada da percorrere, qual è la strategia da perseguire: «Visto nel suo vero contesto ambientale, il potere della tecnologia deve essere soggetto meno al controllo del tecnico e più a quello della volontà del cittadino»100.
Come si vede, gli elementi concreti per l’ aff ermazione com plessiva di un pen- siero ecologico sono molteplici e interessanti. E probabilmente, in senso generale, si può già parlare dell’ esistenza di una vera e propria “cultura” ecologica. Non- dimeno, a un’ introspezione più attenta, non è diffi cile individuare, all’ interno di una generale consapevolezza intorno ai problemi che pone il punto di vista ambientalista, l’ esistenza di diff erenti impostazioni scientifi che, di diverse visioni culturali, di contrapposte scuole. Le defi ni zioni, a questo proposito, sono molte- plici. Vi è l’ ecologia politica e l’ ecologia sociale, la Jeep ecology e l’ ecologia radica- le, l’ ecosiste mica e la tecnoecologia. Ed esiste, all’ interno delle stesse formazio ni politiche “verdi” dell’ Occidente, una spaccatura a volte profon da fra “fondamen- talisti” e “realisti”.
98 Cfr. Commoner, B. Il cerchio da chiudere, Milano, Garzanti, 1972, p. 147. 99 Ibidem.
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Ma sul piano dei presupposti culturali e delle ipotesi prospetti che la divari- cazione più sensibile è probabilmente quella che esiste fra un atteggiamento eco- logico di tipo puramente conservativo e una visione culturale ispirata a princìpi socialmente innovatori e a un ecologismo di carattere creativo. Fra gli studiosi più attivi sul primo versante va certamente annoverato Ivan Illich, che ha sostenuto in numerose opere la necessità di un ritorno a «tecnolo gie conviviali», a ridot-
to consumo energetico e alta intensità di lavoro umano101. A questo mutamento
tecnologico dovrebbe corri spondere, secondo Illich, la riscoperta di forme di esi- stenza associa ta elementari, mediante il ritorno ad aggregazioni societarie di ti po semplice. Purtroppo, le cose non stanno in modo così schemati co; infatti, come è stato correttamente rilevato,
se il fi lm della storia potesse essere invertito, esso ci ripresenterebbe non soltanto le tecnologie di villaggio, ma anche lo sfruttamento e le iniquità collegate con un’ economia a bassa produttività del lavoro. È certo che relazioni sociali conviviali e cooperative possono essere recupe rate. Esse presentano, anzi, la prospettiva più attraente dello svi luppo. Ma la nuova convivialità, per fi orire, ha bisogno di una base tecnologica ipercomplessa102.
In altri termini, l’ aff ermazione oggi di una nuova consapevo lezza della di- pendenza della specie umana dalla sua particolare nicchia biologica, la necessità quindi di una difesa dell’ equilibrio ecosistemico, l’ impegno per il disarmo nu- cleare, contro l’ inquina mento, per una nuova qualità della vita e del rapporto fra l’ uo mo e l’ ambiente non coincidono aff atto con la prospettiva di un ritorno in- dietro, a una realtà pretecnologica, a forme di esi stenza “primitive”. L’ orizzonte della nuova ecologia non è e non può essere un improbabile e romantico «ritorno alle origini». Il problema, invece, è l’ assunzione di un atteggiamento comples- sivamente e perennemente selettivo rispetto alle tecnologie, alle forme di produ- zione, ai modelli di organizzazione sociale che vengono costantemente proposti. In questo quadro è probabil mente necessario, questo sì, recuperare, come sug- gerisce Murray Bookchin, quella «sensibilità» nel rapporto con l’ ambiente tipica delle società cosiddette primitive e che può essere quella di una futura società ecologica103.
101 Cfr. Illich, I. La convivialità, Milano, Mondadori, 1978; Id. Lavoro ombra, Milano, Mondadori, 1985.
102 Cfr. Ruff olo, G. La qualità sociale, Bari, Laterza, 1985, p. 160. 103 Cfr. Bookchin, M. L’ ecologia della libertà, Edizioni Antistato, 1985.
Capitolo 2 Il Medium nucleare
A questa pluralità di riferimenti deve ancorarsi quell’ universo ancora in for- mazione che Edgar Morin ha indicato col concetto di ecosociologia; e anche noi siamo convinti «che la nozione di ecosistema off ra il quadro e l’ involucro adatto
al proseguimento di questa ricerca»104. Ma Morin compie anche ulteriori passi
in avanti lavorando sui possibili collegamenti fra una possibile rifl essione eco- sistemologica e le nuove scienze della complessità. Si tratta di un impegno scien- tifi co che ha come obiettivo dichiarato la costruzione di un modello conoscitivo nel quale sia possibile indagare conte stualmente la struttura dei sistemi biologici e quella dei sistemi sociali, l’ ambiente naturale e l’ ambiente tecnico105. Si tratta di
una ricerca importante e ambiziosa, quindi non priva di elementi di problema- ticità; ma essa è semplicemente essenziale alla costru zione di nuovi dispositivi euristici, adeguati ad analizzare e com prendere il ruolo e la funzione della “socie-
tà” umana nel contesto ecosistemico106. Un tessuto di rifl essione e proposizione
all’ interno del quale «la natura non è più disordine, passività, ambiente amorfo: è una totalità complessa. L’ uomo non è più un’ entità chiusa in rapporto a questa totalità complessa: egli è un sistema aperto in rapporto di autonomia-dipendenza organizzatrice in seno a un eco sistema»107. Evidentemente questa ricerca è tutt’ al-
tro che estranea alla rifl essione intorno alla «nuova alleanza» fra sapere umanisti- co e scientifi co, fra scienze dell’ uomo e scienze della natura, propu gnata da Ilya Prigogine:
Se oggi possiamo farlo, è perché, ormai, solo così possiamo partecipare al divenire culturale e naturale, per ché questa è la lezione che ci impartisce la natura, se vogliamo davvero ascoltarla. Il sapere scientifi co, sbarazzato dalle fantasti cherie di una rivelazione ispirata, soprannaturale, può oggi scopri- re di essere ascolto poetico della natura e contemporaneamente pro cesso naturale nella natura, processo aperto di produzione e di in venzione, in un mondo aperto, produttivo, inventivo. È ormai tem po per nuove alleanze; alleanze da sempre annodate, per tanto tempo misconosciute, tra la storia degli uomini, delle loro società, dei loro saperi e l’ avventura esploratrice della natura108.
104 Cfr. Morin, E. Sociologia della sociologia, Roma, Edizioni Lavoro, 1985, p. 178.
105 Il riferimento di Morin è agli studi di Georges Friedmann, «il pioniere dell’ eco logia sociale, […] il primo ad aver concepito la tecnica come fatto ecologico» (cfr. Morin, E. Sociologia della
sociologia, cit., p. 178).
106 Cfr. Caramiello, L. “La metropoli” in la città nuova, n. 2, aprile 1986. 107 Cfr. Morin, E. Il paradigma perduto, Milano, Bompiani, 1974, p. 29.
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Evidentemente, si tratta di un ragionamento che è ancora lon tano dall’ esser concluso e che deve ancora percorrere un lungo iti nerario di confronto, e forse anche di confl itto culturale, prima di defi nirsi compiutamente. Ma anche noi sia- mo convinti che, con le metamorfosi della scienza sia di nuovo possibile il dialogo cultu rale. Crediamo che, inseparabilmente da questo dialogo, si possa riannodare una nuova alleanza con la natura, al cui sviluppo parte cipino il gioco sperimenta- le e l’ avventura esploratrice della scienza.
Certo, si tratta solo di una possibilità. Anche se la stessa scienza spinge oggi lo scienziato all’ intelligenza aperta, anche se sono scomparsi gli alibi teorici per il dogmatismo e il disprezzo, ci resta ancora il compito concreto, politico e sociale, di creare i circuiti per una cultura109.
Si tratta, in defi nitiva, dello stesso compito che ha di fronte oggi la ricerca eco- sistemologica: una rifl essione che, evidentemente, non è ancora una scienza, o for- se è una scienza che sta solo lentamente nascendo. Eppure «essa costituisce già un apporto capitale alla teoria dell’ auto-organizzazione del vivente e, per quanto ri- guarda l’ antropologia, essa riabilita la nozione di natura, radicandovi l’ uomo»110.