Agnes Heller e Ferenc Feher sono i maggiori rappresentanti di quella che viene defi nita la scuola di Budapest. Amici e discepoli di György Lukács, furono al- lontanati per ragioni politiche dall’ uni versità nel 1968 e da diversi anni vivono in Australia, dove conti nuano a svolgere attività di insegnamento e di ricerca.
32 Ivi, pp. 89-90. 33 Ivi, p. 105. 34 Ivi, p. 90.
Capitolo 1 Il Medium nucleare
La pubblicazione di un loro volume dal titolo Apocalisse atomica35, dedicato al
«movimento antinucleare e al destino dell’ Occidente», ha riaperto una discussio- ne che sembrava sopita da qualche decen nio sulla portata e la sostanza sul piano etico dell’ atteggiamento pacifi sta, tema al quale vengono dedicate le pagine più signifi cati ve del loro lavoro.
L’ idea centrale da cui partono i due autori è che nel movimen to antinucleare europeo si manifesti oggi in forma rinnovata quel l’ atteggiamento rinunciatario, rassegnato e disfattista espresso già negli anni Sessanta da Bertrand Russell con la celebre ed eff ettiva mente lugubre formula «meglio rossi che morti». La conclusio- ne cui giungono la Heller e Feher sembra ricongiungersi, per alcuni aspetti, alla posizione che il fi losofo Karl Jaspers, uno dei pochi che ebbe il coraggio di aff er- marla pubblicamente, manifestò già nel 1958 nel suo libro Il futuro dell’ umanità. La presa di posizione intellettuale di Jaspers si può riassumere nel rovesciamento radicale dello slogan di Russell: “meglio morti che rossi”; ed è esprimibile anche, in forma più romantica, con l’ antico “meglio morire liberi che vivere schiavi”. Secondo i due studiosi di origine ungherese, il pacifi smo “zoologico” che contrad-
distingue tanta parte del movi mento antinucleare europeo36 costituisce in realtà
la premessa per una possibile “fi nlandizzazione” dell’ Europa, poiché in esso si ma nifesta la preminenza del valore universale della vita in contrappo sizione al valore universale della libertà37.
L’ analisi che la Heller e Feher svolgono in Apocalisse atomica è per molti versi attenta e circostanziata; ma le conclusioni cui giunge derivano, a nostro pare- re, dalla sottovalutazione di una se rie di fattori. In primo luogo, nella rifl essione dei due studiosi vi è una seria sottovalutazione della dimensione planetaria della possibile confl agrazione nucleare; non è casuale, in questo senso, il ruolo premi- nente, quasi esclusivo, che viene dedicato nella loro analisi allo scenario europeo. Inoltre, il loro studio parte dalla con vinzione preliminare che non vi è, in realtà, un rischio né imme diato né accresciuto dalla proliferazione atomica degli ultimi
an ni38. In terzo luogo, la possibilità che una confl agrazione nucleare possa in-
nescarsi per un errore tecnico o umano non viene assoluta mente contemplata.
35 Heller, A.; Feher, F. Apocalisse atomica, Milano, Sugarco, 1984.
36 Originariamente l’ espressione, in senso critico, è stata impiegata da Cornelius Castoriadis (cfr. Cornelius Castoriadis, “Facing the war” in Telos, n. 46, inverno 1981). In accezione positiva, il termine è stato impiegato invece da Alberto Mora via. In numerose interviste rilasciate nel corso del 1984 lo scrittore ha defi nito il suo impegno pacifi sta di tipo non politico ma, appunto, «zoologico». 37 Cfr. Heller, A.; Feher, F. op. cit., p. 58.
La catastrofe culturale. Teoria e saperi dopo Hiroshima Capitolo 1
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Infi ne, last but not least, dalla lettura del loro testo traspare un’ eccessiva fi ducia nell’ eventualità che un’ ipo tetica guerra termonucleare globale possa non com- portare automa ticamente il biocidio; «detto in altri termini, degli esseri umani resteranno in vita»;39 anche se bisogna riconoscere che tale even tualità è eff etti-
vamente contemplata pure da alcuni altri studiosi, i quali non escludono possibi- lità di sopravvivenza in alcune aeree dell’ emisfero meridionale come l’ Australia. Quel che risulta dal ragionamento della Heller e di Feher è fondamentalmente che, lungi dallo sperare in un’ utopistica ipotesi di disarmo, l’ unico mo do per con- servare contemporaneamente la vita e la libertà è confi dare nell’ equilibrio della deterrenza40.
Lo studioso americano Jonathan Schell non è assolutamente con vinto di
quest’ ultima equazione; a suo parere l’ equilibrio della deterrenza, proprio nelle sue fasi di maggiore funzionalità, i perio di caratterizzati dalla “distensione”, ha mo- strato di essere la cortina fumogena dietro la quale le superpotenze hanno attuato le politi che più illiberali e repressive nei rispettivi campi di infl uenza, ad ducendo il pretesto che ogni contestazione e ogni forma di dissen so costituivano una minaccia per l’ equilibrio pacifi co e la distensio ne41. Sul piano che inerisce più squisitamen-
te all’ etica della situa zione atomica, Schell svolge alcune considerazioni altrettanto inte ressanti. Proprio documentando la possibilità concreta che un con fl itto termo- nucleare globale conduca all’ estinzione della specie uma na sul pianeta, lo studioso americano coglie i limiti presenti nello “stoicismo” di Jaspers. Per Schell le conclu- sioni cui giunge il fi loso fo esistenzialista derivano «dall’ applicazione alla specie di un cano ne di moralità che propriamente si applica solo alle persone singole».
Il principio socratico secondo cui il bene supremo non è la vita ma l’ esisten- za morale non è applicabile, secondo Schell, alla situazione atomica. Nella scelta socratica infatti,
l’ essenza della sua condotta durante il processo e l’ esecuzione consistette proprio nel porsi totalmente al servizio della collettività, e nella convinzio- ne che proprio questo era il valore reale delle sue azioni, […] Se vogliamo dunque prendere Socrate come esempio, va detto che, se non esiste un’ etica diversa dal servizio della collettività umana, non esistono imperativi etici che giustifi chino l’ estinzione dell’ umanità42.
39 Ivi, p. 64. 40 Ivi, pp. 79-80.
41 Scheil, J. op. cit., pp. 185-186.
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Schell non manca di specifi care ulteriormente la sua posizione. La sua idea è che la possibilità dell’ estinzione confuta ogni giusti fi cazione del tipo “il fi ne giustifi ca i mezzi”, proprio perché di strugge ogni fi ne che potrebbe giustifi care i mezzi. «Non si può dire di aver ben servito la ragion di stato, se ci si trova poi
con tutta la nazione biologicamente sterminata»43. Ma se l’ obiettivo di prevenire
l’ estinzione della specie divenisse globalmente opera tivo in forma di fi ne, anche questa linea di pensiero potrebbe as sumere una portata immensamente più vasta: «Infatti, se il fi ne giustifi ca i mezzi, e se il fi ne è la sopravvivenza dell’ uomo, ne deriva che si possono prendere in considerazione tutti i mezzi, tran ne, appunto, l’ estinzione dell’ uomo. E questa è un’ altra compo nente del pericolo nucleare – sebbene di gran lunga meno perico losa dell’ estinzione; infatti ogni sistema poli- tico, non importa quanto saldamente costituito, è soggetto a cambiare e decade- re, mentre l’ estinzione è eterna. […] Ma il fatto che ciascuna generazione abbia l’ obbligo di sopravvivere non comporta necessariamente che anche l’ individuo singolo abbia un obbligo analogo; altrimenti si potrebbe sostenere che il dovere che ha l’ individuo di sacrifi care la propria vita implica l’ obbligo da parte della specie di sacrifi care la propria esistenza. Al contrario, il dovere che ha la specie di sopravvivere comporta, da parte di ciascun individuo, l’ obbligo di mettere da parte i propri interessi personali a favore dell’ interesse generale»44. Questo impe-
rativo, secondo Schell, deriva dal fatto che l’ estinzione in quanto «fi ne di tutte le esperienze» non colpi sce soltanto «persone o cose che esistono, ma anche l’ ere- dità biolo gica o culturale che gli esseri umani si trasmettono da una genera zione all’ altra». Essa è dunque un inaccettabile «crimine contro il futuro»45.