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6 - I benefici della praesentia del santo. Le traslationes

Nel documento Santuari paleocristiani in Italia (pagine 50-55)

L’instabile situazione politica altomedievale, che ostacolava la frequentazione dei santuari extraurbani, mettendoli a repentaglio, la convinzione che le chiese dovessero essere consacrate con reliquie, la formazione di vere e proprie collezioni di pignora, incentivarono le

traslationes, gli spostamenti di reliquie dalle proprie sedi sepolcrali. Solo in alcuni contesti,

come a Roma, esse determinarono spostamenti brevi, dai cimiteri suburbani alle chiese

intramoenia85.

iii.6a - Le traslazioni nell’Oriente paleocristiano

A differenza che in Occidente, in particolar modo a Roma, dove il legame tra reliquia e sepolcro era inscindibile, in Oriente l’oggetto della venerazione era principalmente la reliquia in quanto tale, per cui lo spazio funerario fu violato relativamente presto e le sacre spoglie, spesso smembrate, traslate in luoghi distanti. Costantinopoli, Antiochia, Edessa, Cesarea, Alessandria, già a partire dalla metà del IV sec., importarono una serie impressionante di reliquie. La prima traslazione nota è quella operata dal co-imperatore Cesare Gallo nel 351, per il corpo di S. Babila ad Antiochia. Durante il regno di Costanzo II (351-361) e poi di Teodosio, invece, spettacolari acquisizioni portarono nelle chiese costantinopolitane le reliquie dei santi Foca, Paolo il confessore, Giovanni Battista, Andrea, Luca, Timoteo, del profeta Samuele e di martiri minori.

In alcuni casi, le traslazioni non interessavano il corpo nella sua interezza ma solo singole parti. Lo smembramento era spesso approvato dai santi stessi, che chiedevano in cambio giorni di preghiera e digiuno, e giustificato dai fedeli: “Nel corpo diviso la grazia sopravvive indivisa e i frammenti, per quanto piccoli, hanno la stessa efficacia dell’intero corpo” (Teodoreto di Ciro, Graecarum affectionum curatio, VIII). Per questo motivo, l’ossario coi resti dei Quaranta martiri di Sebaste fu diviso da Basilio in tante particelle, per essere inviate a tutte le chiese greche. Nonostante ciò, “le reliquie dei quaranta martiri… non vengono divise tra coloro che le accolgono, in base alla suddivisione dei singoli corpi, ma stanno tutte insieme. Anche se vengono divise in cento parti esse restano sempre dello stesso numero quaranta. Una indivisibilità che ricorda la natura del fuoco” (In quadr. mart. 8). D’altronde, come ricordava Giovanni Crisostomo: “Tale infatti è la natura delle cose spirituali, aumenta con la distribuzione e si moltiplica con la divisione” (de ss. Bernice et Prosdoce). La convinzione che le reliquie fossero intangibili, anche se suddivise in infinitesimali frammenti, era ribadita da Vittricio di Rouen (De laude sanctorum 9). A dispetto di queste credenze, la diffusione di reliquie d’incerta provenienza indusse Agostino a raccomandar cautela (De cura pro mortuis gerenda, X),

85 Sulle traslazioni: CHAVARRIA ARNAU 2009, pp. 33; CANETTI 2002, pp. 28-32; 43, 105-138; PISCITELLI

51 scagliandosi contro quei monaci che girovagavano vendendo presunte reliquie (de opere

monachorum 28, 36).

Piuttosto precoci furono le traslazioni che determinarono flussi di reliquie dall’Oriente verso l’Occidente, come quelle di Stefano, scoperte nel 415, degli apostoli, e di semplici santi. Il percorso era stato spianato da Elena, che aveva importato a Roma i resti della Croce. Ben presto tale flusso riguardò anche reliquie nord-africane o, addirittura, mitteleuropee, come dimostra il caso di Severino del Norico, il cui corpo fu trasferito a Napoli alla fine del V sec. (Eugippio, Sev., 20, 1).

iii.6b - Le traslazioni in Occidente

In Occidente, e in particolare a Roma, le traslazioni si generalizzarono solamente a partire dalla fine del VII sec., anche perché la legge municipale romana, che rimandava alle Dodici

Tavole, proibiva nel modo più assoluto la manomissione delle sepolture. In verità, alcune

fonti, per lo più epigrafiche, dimostrano che un movimento di reliquie, seppure di lieve entità, interessò alcuni contesti occidentali già durante in epoca paleocristiana. A Milano, una legge promulgata nel 352 (CT IX, 17, 4; CI IX, 19, 4) imponeva multe a chi danneggiasse tombe o trafficasse reliquie, mentre un decreto del 386, vietando la manomissione dei cadaveri, consentiva solo la costruzione di martyria sopra i sepolcri (CT IX, 17, 7). Più tardi, Vittricio di Rouen ricordava come Dio operasse “in tutte le vie nelle quali i corpi santi impressero viventi vestigia nel loro sacro cammino” (De laude sanctorum). Per combattere un traffico che in Oriente stava diventando anarchico, e per evitare che potesse compromettere anche il mondo occidentale, la Costituzione Teodosiana (IX, 17, 7) arrivò a vietare il trasferimento delle salme già inumate e la traslazione e vendita delle reliquie.

Nell’Urbs, l’adesione alla legislazione era così forte che, nel 519, papa Ormisda (Epistulae LXXII) si oppose alla traslazione richiesta da Giustiniano dei corpi di Pietro, Paolo e Lorenzo, sostenendo che la consuetudine romana non lo permetteva; in cambio inviò a Costantinopoli frammenti delle catene dell’apostolo e della graticola del proto-martire. Analogamente, Gregorio Magno deluse le aspettative di Costantina che richiedeva resti santi sostenendo che “non era costume a Roma permettere a chicchessia di osar toccare le reliquie dei santi”(Gregorio I,Reg., IV, 30, v. 1). Anche lo smembramento dei corpi, che spesso costituiva

il presupposto delle traslazioni, fu a lungo avversato dalla Chiesa latina, come dimostra l’episodio che vide coinvolto Gregorio di Tours il quale, alla proposta di un mercante siriano di acquistare un dito venerato, riteneva che esso fosse stato staccato senza il consenso del santo(Historia Francorum, VII, 31).

Come le invenzioni, anche le traslazioni furono veicolate dai vescovi che, attraverso l’acquisizione di reliquie, dimostravano il proprio evergetismo e la propria solidarietà. La

traslatio in una nuova comunità era considerata un evento miracoloso e salutata da un

cerimoniale che è stato considerato una trasposizione, in chiave religiosa, dell’adventus imperiale. Sembrerebbe attestarlo una scena rappresentata su una tavoletta in avorio dal tesoro della cattedrale di Treviri (V sec.), probabilmente il rivestimento di un reliquiario (fig. 9). Una cassa contenente reliquie è trasportata su un carro tra le mani di due vescovi, preceduta da una processione guidata direttamente dall’imperatore e dalla consorte. La processione si dirige verso una chiesa ancora in costruzione, per essere degnamente consacrata. L’arrivo delle reliquie è festeggiato con tripudio dai cittadini assiepati lungo la strada ed affacciati alle finestre delle abitazioni86.

iii.6c - L’età carolingia

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52 Il numero di traslazioni raggiunse il suo apice in età carolingia, quando il possesso di reliquie prese a costituire uno strumento di rivendicazione di poteri87. In questo contesto, le stirpi aristocratiche, le dinastie regie, le sedi episcopali e i centri monastici promossero trasferimenti santi per avocare il possesso di determinati luoghi o per legittimare fondazioni o rifondazioni. A dispetto del tentativo di normalizzare le consacrazioni, la mancanza di regole sulla gestione delle traslazioni indusse alla critica lo stesso Carlo Magno: “…gente che agendo fuori dall’amore

di Dio e dei santi, sia martiri sia confessori, trasferisce le ossa e le spoglie di santi corpi da un posto all’altro e colà erige nuove basiliche ed esorta veemente chiunque a donare i propri beni” (MGH, I). Più tardi, il Sinodo di Magonza (813) ne rese obbligatoria l’approvazione: “I corpi dei santi non dovranno essere trasferiti da un posto all’altro. Non permettete quindi che alcuno per proprio conto trasferisca corpi di santi da un posto all’altro senza aver prima consultato il principe o il vescovo e aver ottenuto il permesso dal santo sinodo” (MGH, Concil. II, p. 272).

Nonostante le prescrizioni, traslazioni “indiscriminate” continuarono a verificarsi. A quelle che interessavano Roma, si aggiunsero quelle dalla Spagna (Cordoba in particolare), dove le battaglie combattute contro gli Arabi producevano nuovi martiri. Anche Ilduino ricevette la salma di S. Sebastiano direttamente dal papa, collocandola nel suo monastero di Soissons. Il vescovo di Lione Amolone (Ep., PL 116, co. 82), ancora alla metà del IX sec., criticava la devozione prestata a quelle reliquie non identificate e d’incerta provenienza che erano giunte a S. Benigno di Digione88.

iii.6d - I presupposti delle traslazioni

I motivi che ispirarono le traslazioni furono differenti, a seconda dei periodi e dei contesti. A Roma, alcuni dei papi che tra VII e VIII sec. infransero, seppur episodicamente, il principio d’intangibilità dei sepolcri, erano di origine siro-greca, quindi propensi ad adottare un mos

graecorum estraneo alla cultura occidentale. Fu Teodoro (642-649), per primo, a traslare i

corpi dei santi Primo e Feliciano dalla via Nomentana alla basilica urbana di S. Stefano. Successivamente, Leone II (682-683) trasferì le reliquie di Simplicio, Faustino e Beatrice nella chiesa presso S. Babiana, mentre Gregorio III (731-741) depose quelle di martiri, apostoli e confessori nell’oratorio da lui fondato a S. Pietro. I saccheggi dei cimiteri extraurbani, perpetrati dai Longobardi di Astolfo e documentati nelle biografie papali e nella

Cronaca dell’Anonimo Salernitano, indussero Paolo I (757-767) ad un massiccio intervento

di traslazioni intra moenia. L’evoluzione del fenomeno fu influenzato, probabilmente, anche dalle strategie papali d’accreditare maggiore importanza al cuore dell’Urbs, lasciando all’incuria quegli spazi suburbani per i quali il Liber Pontificalis parlava di “maxima demolitione, vicina ruine”. Le traslazioni romane in Urbe contribuirono alla definitiva rottura della distinzione tra città dei vivi e città dei morti. Nell’VIII sec., per effetto di questo fenomeno, a Roma poté compiersi l’identificazione della sancta Urbs con la città antica89. Oltre che dal clima d’insicurezza vigente in ambito suburbano, le traslazioni furono incentivate da almeno altri due fattori: la formazione di collezioni private di reliquie, soprattutto da parte degli imperatori di Bisanzio90; la convinzione che la consacrazione delle chiese assumesse maggiore importanza se subordinata alla deposizione di resti sacri91.

iii.6e - La consacrazione degli edifici ecclesiastici

Già in occasione dell’inventio di Gervasio e Protasio, alla richiesta del popolo milanese (“Consacrala [la chiesa] alla maniera romana), Ambrogio rispose: “Lo farò se troverò le reliquie

87 Sul culto delle reliquie sotto i Carolingi: GEARY 2000, pp. 33-48;CANETTI 2002,pp. 166-176.

88

Sull’atteggiamento di Amolone, BOESCH GAJANO 2012, p. 12.

89 Sulle traslazioni a Roma: TARQUINI 2005, pp. 78-86; CANETTI 2002, pp. 44-45; 77-104.

90 I regnanti bizantini diedero vita a un insieme davvero invidiabile, smembrato solamente nel 1204 con la presa crociata di Costantinopoli.

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53 (Epistulae, 21). Poco dopo, il Concilio di Cartagine (401), sebbene non avesse valenza universale, rendeva obbligatoria la presenza di reliquie negli altari mentre il concilio di Epaona del 517 (canone 25) regolamentava la pratica in riferimento agli oratori rurali.

La consecratio con reliquie era oramai pratica corrente sul finire del VI sec. se Gregorio Magno inviò ad Agostino di Canterbury “Tutte le cose necessarie per il culto della chiesa, e cioè vasellame sacro, corredo di lino per l’altare, ornamenti, paramenti sacerdotali, e reliquie dei santi apostoli e martiri(Beda, Historia Ecclesiastica, I, 29). La funzione sacralizzante delle reliquie, rimarcata dal pontefice anche in altre circostanze, era considerata necessaria alla cristianizzazione della Gallia da Gregorio di Tours e dalle fonti merovingie. La pratica traslatoria fu definitivamente incentivata dalle prescrizioni del secondo Concilio di Nicea (787) sulla necessità di procurasi reliquie per la consacrazione.

Le iscrizioni erano particolarmente prodighe nell’elencare i pignora deposti negli altari o reliquiari. Dall’Africa, in particolare, provengono diversi verbali del processo di deposizione delle reliquie, la cui formula prevedeva l’indicazione della data e del nome del vescovo che aveva presieduto alla cerimonia. Su una lastra pavimentale (568-569) della Basilica I di Ammaedara (Haidra) è scritto: “Qui si trovano le reliquie del beato martire e vescovo Cipriano, deposte dal beato vescovo Melleo il quarto anno del signore Giustino imperatore” (LSA 54). In altri casi, il verbale è più articolato, come nella lastra di loculo da Henchir Akrib (Numidia) che si riferisce alla deposizione delle reliquie dei SS. Giuliano e Lorenzo del 580 (LSA 126)92. Spesso i giorni delle deposizioni coincidevano con la ricorrenza della morte del santo ma non sono infrequenti i casi in cui esse andavano a sostituire, nel calendario liturgico della chiesa, proprio i dies natalis.

In merito alle modalità di deposizione, esistevano dei veri e propri riti di celebrazione e dedicazione, divenuti via via più complicati. Tra VI e IX sec. risalgono i rituali scritti, come l’Ordo quomodo in sancta romana ecclesia reliquiae conduntur (Ordo XLII; c. 700-750) e l’Ordo quomodo ecclesia debeat dedicari (Ordo LXI; c. 750-775). Nell’Ordo ad

benedicandam ecclesiam (IX), combinante riti gallici e romani e diffuso in Occidente fino al

XII, si distinguevano quattro momenti: deposizione delle reliquie in una tenda che ricordava il Tabernacolo (tentorium), esterna alla chiesa; benedizione dei muri e accensione delle candele; consacrazione ad opera del vescovo della chiesa, degli altari e degli strumenti liturgici; ingresso trionfale delle reliquie e deposizione nell’altare93.

La connessione tra altare e reliquie consacranti era già evidenziata dai due Gregorio, per cui è lecito supporre che l’assimilazione tra reliquia ed eucaristia andò generalizzandosi piuttosto presto94. A tal proposito, il Geronimiano faceva riferimento all’offerta eucaristica nella celebrazione dei martiri, Girolamo ricordava i sacrifici offerti dal pontefice sui sepolcri di Pietro e Paolo mentre il Liber Pontificalis rievocava le messe celebrate sulle memorie martiriali per iniziativa di papa Felice.

iii.6f - Il genere dei “Furta Sacra”

Sulle modalità di conduzione delle traslazioni e sui giudizi che ne conseguirono tra i contemporanei, gettano luce centinaia di racconti agiografici, diffusi in tutta Europa tra VIII e XII sec., che s’inseriscono nell’ambito d’una tradizione che ha topoi e formule narrative stereotipate, quella dei furta sacra95. Le narrazioni, bene esemplificate dalla Traslatio Sancti

Prudentii, seguono generalmente la seguente trama: un monaco o un chierico si reca in

pellegrinaggio e sosta in un villaggio o monastero, dove riposa la salma di un santo.

92 Sui verbali di deposizione, CARLETTI 2008, pp. 303-305.

93

Sui rituali, CHAVARRIA ARNAU 2009,pp. 119-120.

94 Sul rapporto tra reliquie e eucaristia, BOESCH,GAJANO 2012, pp. 9-11.

95 Sui Furta Sacra, GEARY 2000. Le fonti relative al genere, pubblicate in gran parte negli Acta Sanctorum e nei

Monumenta Germaniae Historica, sono essenzialmente le vitae e le traslationes. Quest’ultime sono talvolta

54 Meravigliato dai racconti relativi alla sua vita e ai suoi miracoli, decide di trafugarla per la propria comunità. Di nascosto, entra in chiesa e prega il santo di seguirlo. Poi scassina la tomba, s’impossessa delle reliquie e ritorna nella propria comunità, dove il nuovo patrono è onorato da una folla festante di fedeli. I racconti raramente aderivano alla realtà ma sono utili per comprendere la sensibilità dei contemporanei nei confronti della pratica traslatoria96. Dalla loro lettura si evince che solitamente abati, vescovi e re si affidavano a veri e propri ladri professionisti per assicurarsi reliquie importanti. Nel IX sec., tale mercato era particolarmente fiorente presso i Carolingi ed interessava essenzialmente resti romani. Il mercante più noto dell’epoca era il diacono romano Deusdona che aveva venduto, ad esempio, le reliquie di S. Ermete ad Ilduino, per il suo monastero di Mulinheim. Un tale Felice, invece, rifornì il monastero di Fulda di numerose reliquie romane. Tra X e XI sec. fiorì il mercato inglese, con reliquie provenienti dalla Normandia e dalla Bretagna, acquisite per buona parte dal re Aethelstan e smerciate da Eletto. Di questo traffico beneficiava anche il papa che, attraverso le traslazioni, vedeva estendere il prestigio di Roma.

Capitava, talvolta, che gli acquirenti fossero frodati. I corpi di due comuni preti furono venduti dal vescovo di Cambrai Fulberto ad Ottone I, che richiedeva reliquie vescovili (Fulberto, Vita Autberti ep. Cameracensis, IV, 30-32). Già da secoli, d’altronde, le truffe erano comuni, come ricorda Gregorio I: “Alcuni monaci greci, qui giunti più di due anni fa, scavarono nel silenzio della notte nelle vicinanze della chiesa di S. Paolo e disseppellirono alcuni cadaveri inumati in aperta campagna, tenendoli in loro possesso fino alla loro partenza. Ma furono arrestati e, interrogati diligentemente sui motivi del loro operato, confessarono di avere intenzione di trasportare in Grecia questi corpi, per poi farli passare come resti di santi”. L’autenticità delle reliquie, talvolta vendute a pezzi, era riscontrata in modo diretto (si verificava in prima persona o mediante fidati l’avvenuta trafugazione), mediante il metodo empirico del “giudizio divino” (la reliquia era originale se operava miracoli) o con la prova del fuoco (i resti santi, normalmente, non bruciavano). In alcuni casi, tuttavia, l’autenticità era garantita direttamente da documenti o sigilli papali d’accompagnamento, come avvenne in occasione del trasferimento di S. Sebastiano a Soissons sotto papa Eugenio.

I redattori delle traslationes, pur riconoscendo il carattere illegale di questi traffici, li giustificavano adducendo varie motivazioni: il santo disponeva liberamente del proprio corpo, quindi poteva rifiutare lo spostamento se lo desiderava; la traslazione conferiva maggiore sicurezza alle reliquie, considerato lo stato di abbandono in cui solitamente versavano; l’arrivo di reliquie determinava il benessere della comunità riceventi, operando miracoli ed allontanando le avversità; il trafugatore era descritto come persona di alto valore morale, pertanto non agiva in cattiva fede; spesso la traslazione era realizzata per ricondurre il santo nei luoghi connessi alla sua vita, quindi quelli consoni ad ospitarlo.

Aldilà delle giustificazioni, le trafugazioni erano gestite dalle alte cariche ecclesiastiche, le stesse che commissionavano le traslationes. Attraverso l’appropriazione di nuove reliquie, infatti, intendevano perseguire scopi diversi: esaltare nuove fondazioni religiose; placare disordini politici; superare rivalità religiose; allontanare difficoltà economiche (le reliquie incentivavano le donazioni), o, semplicemente, produrre facili guadagni.

96 Sul commercio delle reliquie: GEARY 2000, pp. 49-60; SUMPTION 1999,pp. 39-49 e LLEWELLYN 1975, pp. 145-149.

55 CAPITOLO IV

TRADIZIONE ANTICA E RIFLESSI NELLA SPIRITUALITÀ CRISTIANA

La venerazione per uomini eccezionali, dotati d’una forza d’animo e/o fisica superiore rispetto alla norma, contraddistingueva la maggior parte delle culture antiche. Il culto dei martiri, pertanto, non costituisce, un fenomeno originale e anche le sue manifestazioni esteriori affondano le proprie radici in usi, comportamenti, percezioni del reale e rituali che avevano una tradizione già consolidata. Filtrate dalla cultura cristiana, queste esperienze sono tuttora operanti.

IV.1 - Gli eroi greco-romani e i martiri cristiani. Il culto dell’uomo divinizzato

Sulla base di evidenze storiche e archeologiche, si tende ad accomunare il culto dei martiri a quello degli antichi eroi97. Quest’ultimo, caratteristico delle civiltà greche già a partire dall’età micenea, si manifestava nella venerazione accordata ai luoghi in cui tali personaggi, mitici o reali (soprattutto guerrieri e fondatori) erano deposti. Questa forma devozionale interesserò anche la civiltà romana quando, sulle tombe di imperatori e condottieri, si costruirono mausolei monumentali (heroa), spesso caratterizzati da pianta centrale e muniti di spazi destinati alle cerimonie funerarie. Se si considera che i martiri erano eroi della fede, le loro azioni degne di emulazione e le spoglie oggetto di culto, il paragone trova giusta applicazione! Analogie formali e continuità di lungo periodo sono certamente costituite, in ambito funerario, dalla millenaria persistenza delle lamentazioni funebri (κοπετόϛ/planctus), dagli isomorfismi rituali tra cerimonie di adventus imperiale e traslazioni di reliquie, dal comune senso di vittoria (sulla morte, sulle forze del male) che reliquie di santi e spoglie di eroi evocavano. Già gli antichi avevano colto il parallelismo se nel noto sermone agostiniano, il passaggio dall’Urbs Antiqua a quella cristiana si sostanzia nell’adventus del 404, quando Onorio, ignorato e oltrepassato il mausoleo di Adriano, si reca devoto alla tomba di Pietro. A dispetto delle numerose analogie, tuttavia, il culto dei martiri presupponeva un legame con la sfera del divino talmente intimo da renderlo del tutto peculiare. Sebbene i campioni greco-romani, attraverso le imprese terrene, avessero acquisito attributi divini, solo il martire, divenuto amico di Dio, poteva farsi intercessore degli uomini. L’attribuzione di “doti” divine agli eroi romani, al contrario, costituiva spesso motivo di tensione, ragion per cui Cicerone (Phil. I, VI, 13) criticava la trasformazione delle tombe in templi e le preghiere indirizzate a Cesare, considerato che esse determinavano il venir meno della giusta distinzione tra culto dei defunti e culto degli dei. Questa contrapposizione strideva ancora nelle parole di Arnobio: “La grande metropoli, adoratrice di tutti i numi, dovendo dare un nome al tempio, non si vergognò di chiamarlo Campidoglio, dal capo di Olo [ivi sepolto] piuttosto che dal nome di Giove” (Adv. Nat. VI, 7).

Nel documento Santuari paleocristiani in Italia (pagine 50-55)