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3 - Il pellegrinaggio altomedievale

Nel documento Santuari paleocristiani in Italia (pagine 43-48)

Fu il costante afflusso dei pellegrini a determinare, soprattutto a partire da papa Simmaco (498-514), l’edificazione di annesse strutture d’accoglienza, come xenodochia e hospitalia, ma anche battisteri, oratori, edifici termali, biblioteche, portici e monasteri67. Tale fenomeno portò alla formazione di veri e propri nuclei insediativi, determinando la rottura dell’antica distinzione tra luogo dei vivi e luogo dei morti, come giustamente notava Girolamo: “la città ha mutato sede” (Epistulae, 107, I)68

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III.3 - Il pellegrinaggio altomedievale

64 CHAVARRIA ARNAU 2009,pp. 36-38; 145-147 65 SUMPTION 1999,pp. 40, 195-196, 263-264 66 BROWN 1983, pp. 38-48 67 GIULIANI 2000, p. 29

68 Sul rappporto tra “città dei vivi” e “città dei morti”: TARQUINI 2005,pp. 1-2, 7-8; CANETTI 2002, pp. 77-104; BENENTE 2001,pp. 83-86; BROWN 1983, pp. 12, 16-17, 30, 57-58, 122.

44 Durante l’Altomedioevo, il pellegrinaggio fu praticato con maggiore intensità e su scala più ampia, stimolato tradizionalmente “devotionis causa”, ma anche “pro voto” (per una grazia ricevuta), o “ex poenitentia” (determinato da un’ammenda auto-inflitta o imposta dalla giustizia canonica o civile per riscattare un peccato o una colpa)69.

iii.3a - I frequentatori dei santuari romani

I santuari romani, come ricordano Alcuino (VIII sec.), papa Niccolò I (seconda metà IX), Beda e alcune agiografie nord-europee, furono raggiunti da fedeli provenienti da tutto l’orbe cristiano, Europa settentrionale in particolare70. Già Simmaco, in realtà, in una lettera a Cesario di Arles (Epist. 9), chiedeva di essere informato sugli ecclesiastici che, dalla Gallia e dalla Spagna, s’incamminavano verso Roma praticando l’iter peregrationis. Nei secoli VIII e IX, i più presenti erano i Franchi, gli Angli e i Sassoni, convertiti da Gregorio Magno, mentre nei due secoli seguenti si registrò un maggiore afflusso di popolazioni scandinave. Tra i tanti che giungevano a Roma, vi erano ma anche laici eminenti, che vi si stabilirono per qualche tempo o definitivamente, prediligendo il Vaticano: i re Sassoni Caedwalla, Ina e Offa, tra VII e VIII sec.; il re longobardo Rachis, dopo l’abdicazione del 749; il messo di Pipino, Fulrado di Saint-Denis; Ludovico III, nel 901; il re danese Canuto il Grande, tra il 1026 e il 1027. Ma a Roma non giungevano solo dall’Europa settentrionale. Nel 633, in un ostello della città, alcuni monaci irlandese avevano incontrato pellegrini dalla Palestina, Egitto e Russia meridionale (Cummian., Epist. de controversia paschali).

La presenza “straniera” a Roma è attestata anche dai graffiti devozionali sulle mura dei santuari. Nella basilica ipogea dei SS. Felice e Adautto, ad esempio, le firme dei fedeli (seconda metà VII) rimandano ad ambito anglosassone e, tra queste, si segnala quella di Eadbald, in alfabeto runico71. Non mancavano, tuttavia, anche presenze longobarde, franche e, in misura minore, greco-orientali e nord-africane. Molto spesso i pellegrini erano membri delle gerarchie ecclesiastiche72. Le fonti attestano l’assiduità con cui Metodio, futuro patriarca di Costantinopoli, frequentava la tomba di Pietro agli inizi del IX secolo. Le Vitae di alcuni santi vescovi, invece, facevano riferimento ai loro pellegrinaggi e, forse assecondando un

topos letterario, documentano le numerose difficoltà e le interminabili fatiche che

costellavano il loro percorso devozionale, frequentemente concluso in una commossa visita al Vaticano.

iii.3b - Il circuito romano e le guide dei pellegrini

La visita ai santuari romani, tra VII e VIII sec., continuava a costituire un impegno da assolvere con sistematicità, circuendo tutto il suburbio; lo attestano la vita di Wilfrid da York (Vita Wilfrid I episc. Ebor., 5), quella di Audoeno di Rouen (Audouen. episc. Vita, III, 12) e la biografia di Bonito di Clermont (Vita Boniti episc. Arver., 25). I pellegrini portavano con se lettere di presentazione che, attestate in una raccolta di Marculfo (metà VII), erano redatte da ecclesiastici che le indirizzavano ai colleghi romani che curavano l’accoglienza.

La visita dell’Urbs era resa più agevole dagli Itinerari, vere e proprie guide, prodotte forse in ambito pontificio e copiate Oltralpe73. I papi s’impegnarono a garantire l’agibilità dei circuiti indicati nelle guide, ristrutturando e tenendo in efficienza proprio i santuari che ne facevano parte. La Notitia Ecclesiarum Urbis Romae e il De locis Sanctorum Martyrum quae sunt foris

69 DALL’AGLIO 1994

70 Sul pellegrinaggio altomedievale a Roma, FIOCCHI NICOLAI 2000, pp. 223-230;TARQUINI 2005, pp. 59-62; ESPOSITO 2001,pp. 214-218.

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CARLETTI 2008,pp. 282-283

72 Delle 400 iscrizioni altomedievali dei pellegrini romani, il 92% erano scritte in latino mentre le restanti in greco; ben 130 sono attribuibili a vescovi, presbiteri e monaci.

73 Sugli Itinerari: TARQUINI 2005, pp. 42-43, 74-78;BISCONTI,MAZZOLENI 1992,pp. 70-71; LLEWELLYN 1975, pp. 140-141.

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Civitate Romae, le prime guide note (metà VII), forniscono indicazioni topografiche molto

precise sull’ubicazione dei sepolcri venerati, distinguendo quelli del sopraterra (in “cubiculum) da quelli ipogei (in “antrum” o “spelunca”), in un continuo sali-scendi che costituiva una delle caratteristiche del pellegrinaggio romano. Agli anni Ottanta del VII sec., invece, risale la guida di Roma che Guglielmo di Malmesbury inserì nei Gesta regum

Anglorum, meno precisa delle altre. La Notitia, invece, era certamente la più dettagliata, come

dimostra, a titolo di esempio, questo passo: “Indi procedi verso oriente (cioè rispetto alla via Flaminia) finché giungerai alla chiesa del martire Giovanni sulla via Salaria; qui riposa il martire Diogene e, in un altro cubicolo, il martire Bonifaciano e, sotterra il martire Festo, e il martire Blasto. Poi vengono i martiri Giovanni e Longino. Procedi ancora verso meridione lungo la via Salaria finché giungerai a S. Ermete; nella basilica incontrerai prima il luogo dove riposa Bassilla, vergine e martire, indi il martire Massimo e il martire S. Ermete, profondamente sotterra. In un’altra tomba ci sono i martiri Proto e Giacinto, e più oltre il martire Vittore. Proseguendo ulteriormente per la medesima via incontrerai il martire Panfilo, sotterra; scenderai qui ventiquattro gradini”.

Il percorso che le guide suggerivano prevedeva un giro orario o antiorario completo del perimetro urbano, da S. Pietro all’Aurelia; un circuito del genere fu seguito da Giovanni, il cappellano di Pavia in pellegrinaggio alla fine del VI secolo. All’interno delle mura, gli

Itinerari indirizzavano anche verso i luoghi privi di reliquie, come documenta l’elenco delle

chiese noto come l’Istae vero ecclesiae intus Romae habentur, appendice del De locis. Probabilmente, ci si riferiva ai percorsi indicati nelle guide quando, in riferimento ai soggiorni romani, si usava la formula “Sanctorum loca circuire… perlustrare…visitare”.

Più tardo è l’“Itinerario di Einsiedeln” (IX sec.), riportante quasi tutti i santuari noti nel VII ma anche numerosi monumenti urbani, santificati dalle traslazioni carolingie. Vi si ritrovano undici percorsi che attraversano la città da nord a sud e da est a ovest; i punti di partenza sono costituiti dalle porte urbiche mentre quelli di arrivo dai complessi cimiteriali del suburbio. La guida indica le chiese che il pellegrino incontra sui due lati del percorso e menziona tutti quei monumenti che possono aiutarlo ad orientarsi. Particolare attenzione è rivolta anche ai luoghi che ricordavano le vicende dei santi e i relativi martiri, come il carcere di Pietro.

A partire dal IX sec. inoltrato, i santuari del suburbio ancora frequentati erano i due apostolici nonché quelli di Lorenzo, Agnese, Pancrazio, Sebastiano e Valentino.

iii.3c - S. Michele sul Gargano. Il pellegrinaggio fuori Roma

La predilezione delle popolazioni barbariche per santi sino ad allora scarsamente venerati determinò lo sviluppo di nuovi poli devozionali. Particolarmente frequentato, al punto di divenire d’importanza europea già nel VII sec., era il santuario di S. Michele Arcangelo. La sua collocazione, lungo il percorso che conduceva a Taranto, punto d’imbarco per la Terra Santa, ne determinarono le fortune. Vi sostò anche il monaco franco Bernardo (Itinerarium in

loca sancta), nel suo viaggio per Gerusalemme (870)74. Molte dalle iscrizioni devozionali tracciate sulle pareti e i pilastri della grotta erano riconducibili a Longobardi, anche d’alto rango come Romualdo I e Romualdo II, mentre altre si riferivano al mondo anglosassone.

Tracce archeologiche del passaggio dei pellegrini in Italia, sul Gargano come altrove, sono costituite dagli oggetti che essi portavano con sé come protezione per il lungo e difficile viaggio: reliquiari, soprattutto del tipo “a borsa” (erano facili da trasportare perché sospesi al collo), pignora (corporei o brandea), ampolle contenenti gli oli consumati nei luoghi di culto. Lo stesso Carlo Magno, secondo la tradizione, portava con sé una pendente con reliquie della Vergine75.

iii.3d - Le offerte dei pellegrini

74 Sul santuario garganico,CORSI 1999,pp. 9-14.

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46 L’incremento nel numero dei pellegrini determinò l’accrescimento delle entrate patrimoniali dei santuari, beneficiari delle donazioni al santo. Tra le offerte, si annoveravano gli ex voto con parti del corpo sanate commemoranti presunte guarigioni, antico retaggio pagano. In alcuni casi, gli ex voto rappresentavano oggetti riconducibili a un intervento miracoloso, come le numerose catene (ricordavano una liberazione) che nel 590 un diacono di Tours vedeva pendere nella basilica di S. Vittore a Marsiglia.

Se gli ex-voto non accrescevano il patrimonio dei santuari, altre offerte finanziavano interventi edilizi e arricchivano il clero locale. A tal proposito, una regola della basilica di S. Martino a Tours, risalente all’832, prescriveva che un terzo delle donazioni andassero ai canonici. Nel X sec., addirittura, la locuzione “denaro del tributo”, che indicava le offerte al santuario, alludeva evidentemente agli obblighi feudali dovuti dal vassallo. Non c’è da sorprendersi se si considera che, proprio in questo periodo, il santo è spesso definito Signore,

Barone, Duca; evidentemente, il rapporto con il fedele, dapprima di patronato, mutava con

l’evolvere delle istituzioni! Nella seconda metà dell’XI sec., il numero di pellegrini che visitava il monastero di St.-Trond, presso Liegi, era impressionante e le donazioni “al di là di ogni immaginazione si ammucchiavano sull’altare. Mandrie di animali venivano offerte ogni giorno, palafreni, vacche, tori, maiali, agnelli e pecore. Arrivavano panni di lino, cera, pane, formaggio e soprattutto borse di denaro” (Gesta abbatum S. Trudonensium, I, 9-12, v. I)76

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Anche le fiere presso i santuari costituivano l’occasione giusta per alimentare i guadagni, come quella di Marcellianum presso Consilinum (Salerno) in onore di S. Cipriano, ricordata da Cassiodoro (Var. VIII, 33), o quella di Vieux in Gallia per S. Eugenio, a cui accenna Gregorio di Tours (Glor. Mart., 57). Analogamente, i monaci di St.-Denis traevano buoni guadagni dalle fiere primaverili, tenute in occasione dell’esposizione delle reliquie.

iii.3e - I santuari altomedievali

Lo splendore dei santuari non decrebbe perché i pellegrini pretendevano d’essere accolti in un ambiente ricco, come dimostra l’atteggiamento sprezzante di una fedele in visita al monastero tedesco di Prum, alla metà del IX sec.: “Una donna arrivò su un carro pieno di cibo e bevande e di oggetti preziosi che intendeva offrire a Dio e ai santi martiri. Ma, vedendo che la tomba del santo non brillava né d’oro né d’argento, scoppiò in una sdegnosa risata com’è costume degli spiriti sciocchi e profani. Quindi, precipitandosi a casa, esortò i suoi amici a tornare sui loro passi dicendo ‹‹non troverete nulla di sacro in quel posto››” (Traslatio SS. Chrysanti et Dariae, IX). Alla fine dell’XI sec., l’abate di Epternach Teofrido arrivava addirittura a teorizzare che la povertà dei santi in vita doveva essere controbilanciata da beni elargiti in paradiso e in terra. La posizione ufficiale della Chiesa non doveva essere discordante se, dopo l’VIII sec., fu accordato al clero il permesso di esporre permanentemente i reliquiari preziosi.

Come la ricchezza, anche la confusione restava una delle caratteristiche dei santuari. Le fiere divennero più imponenti e fuori la chiesa del monastero di Conques, nell’XI sec., si vendeva di tutto, in particolar modo guide, candele e distintivi in piombo. L’affollamento interessava anche le ore tarde, al punto che le veglie erano sovente disturbate dagli eccessi di alcuni. A Conques, dove la quiete era rotta da “cori scomposti”, alla fine del X sec. si convocò un Capitolo per risolvere l’annoso problema; le conclusioni furono che si dovesse lasciare ai fedeli la possibilità d’esprimere liberamente la propria devozione77

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Per sopperire alla carenza di spazi, le strutture d’accoglienza dei santuari furono incrementate. A S. Pietro, partire dalla fine del VII sec., sorsero le scholae peregrinorum, vere e proprie comunità nazionali, come quelle dei Sassoni, dei Greci, dei Longobardi e dei Frisoni. Le

Scholae erano normalmente dotate di ricoveri, chiese e cimiteri. Ad esse s’affiancarono xenodochia gestiti dall’amministrazione papale (fornivano cibo, ricovero e cure mediche ai

pellegrini), case per gli stranieri (alcune erano date in affitto da privati), e impianti igienici, i

76 Sulle entrate dei santuari: SUMPTION 1999, pp. 199-207;FIOCCHI NICOLAI,SANNAZARO 2012, p. 200.

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balnea. La tomba di Pietro, in questo frangente, era amministrata da un praepositus, assistito

dai custodes martyrum o dai mansionari. Tra VI e VII sec., il Vaticano acquisì l’aspetto di un borgo e, a metà del IX, con l’edificazione delle mura leonine, si trasformò in una vera e propria civitas78.

III.4 - Potere delle reliquie. L’estensione della sacralità per mezzo del contatto

L’aspirazione dei cristiani a possedere un seppur piccola reliquia, stante la legge romana che vietava la violazione del sepolcro e la vivisezione umana, li indusse a “produrre” nuove reliquie mediante l’accostamento di stoffe o liquidi alle spoglie venerate. Questi oggetti, santificati a loro volta, divenivano reliquie “ex contactu”.

iii.4a - I presupposti storiografici

La convinzione che gli oggetti venuti in contatto con un santo o con le sue spoglie acquisissero le caratteristiche e i poteri di una vera reliquia era piuttosto radicata nella mentalità dei primi cristiani e si fondava sulle sacre scritture. La donna affetta da emorragia cronica, ad esempio, era convinta che il solo accostamento al mantello di Cristo potesse guarirla e difatti, non appena toccatolo, “le si fermò il flusso di sangue, e sentì nel suo corpo che era stata guarita da quel male” (Mc 5, 28-29, Mt 9, 20-22 e Lc 8, 43-44). Si trattò di un privilegio non esclusivo perché furono molti gli infermi che guarirono toccando la frangia di quella cappa (Mc 6, 56, Mt 14, 35-36). In altre circostanze, è la saliva di Cristo ad avere potere terapeutico, sanando gli occhi malati affetti da cecità (Mc 8, 23-25), talvolta mista a terra (Gv 9, 6-7). Estremamente indicativa, però, è l’informazione riportata negli Atti degli Apostoli (19, 11-12), secondo cui: “Dio operava prodigi non comuni per opera di Paolo, al punto che si mettevano sopra i malati fazzoletti o grembiuli che erano stati a contatto con lui e le malattie cessavano e gli spiriti cattivi fuggivano”.

È evidente che l’estensione dei poteri “del contatto” a Paolo e agli altri apostoli, inizialmente prerogativa di Cristo, giustificava l’attribuzione di analoghe virtù anche alle reliquie di martiri e confessori. Negli atti di Pietro e Paolo (testo apocrifo databile tra IV e VII sec.) è confermato il potere taumaturgico dell’apostolo di Tarso, quando una tale Perpetua guarì dalla cecità accostando all’occhio malato un sudario bagnato dal suo sangue. L’idea che potessero esistere reliquie ex contactu animava già il redattore della Passio Perpetuae (21, 4-5) quando, descrivendo lo scambio d’impressioni tra Pudente e la devota guardia che lo aveva in custodia, ricordava: “E nello stesso tempo si fece dare un anello che portava al dito, lo intinse nella ferita e glielo restituì, in eredità, come pegno del suo amore e ricordo del suo martirio”. Il sangue era considerato particolarmente portentoso se Prudenzio (Peristhephanon 5, 341-344) sosteneva che la veste di lino bagnata in quello dei martiri poteva essere conservata in casa con funzione apotropaica. Non a caso, i fedeli che assistettero al martirio di Vincenzo immersero nel suo sangue le proprie vesti.

L’idea che nuove reliquie potessero generarsi per contatto era condivisa dai Padri della Chiesa. Cipriano di Cartagine(Epistulae XIII, 5, LXXVI), ad esempio, rivendicava il potere degli oggetti toccati dai martiri, come le catene che essi avevano portato, mentre Cirillo di Gerusalemme sosteneva che “alcuni oggetti esterni come fazzoletti e indumenti hanno guarito i malati dopo che erano stati messi a contatto col corpo del martire” (Catechesis, XVIII, 16, XIX, 7). A tal proposito, Ambrogio (Epist. 22, 9) ricorda che, in occasione dell’inventio di Gervasio e Protasio, i fedeli si accalcavano per accostare i propri indumenti alle loro reliquie, affinché acquisissero il potere di guarire79.

78 Sulle trasformazioni dei santuari altomedievali: TARQUINI 2005, pp. 2-3, 52-58, 82-92, 106-115, 118-122; ESPOSITO 2001,pp. 220-223; LLEWELLYN 1975, pp. 142-143, 153-154.

79 Sulle reliquie da contatto in epoca altomedievale:PISCITELLI CARPINO 2002, pp. 147-148; SUMPTION 1999,pp. 31-32; MAZZOLENI,BISCONTI 1992,pp. 70, 93; LLEWELLYN 1975, pp. 139-140.

48 iii.4b - La produzione di nuove reliquie nei santuari

La venerazione delle reliquie da contatto indusse le gerarchie ecclesiastiche ad organizzare gli spazi confessionali per garantirne la produzione. A Cimitile, ad esempio, la copertura della tomba di Felice era munita di due fori confessionali che servivano ai fedeli per calarvi i vasetti di olio da santificare: “questa superficie della tavola si apre mediante due fori offrendo i buchi sottostanti destinati a introdurre il profumo di nardo. Vasetti che il soffio salutare proveniente dal luogo nascosto della sacra reliquia santifica con un alito misterioso” (Paolino da Nola, Carm. 18, 38). Influenzati da simili parole, i pellegrini erano soliti accostare pezzi di stoffa alle tombe venerate per trasformarli in brandea. Anche il sudario dei papi era considerato venerabile, al punto che tra il clero v’era l’abitudine di dividerselo80.

L’apprezzamento per le reliquie da contatto si protrasse a lungo, come dimostra il resoconto sulla tomba di Pietro scritto da Gregorio di Tours: “Se si desidera portar via dalla tomba una reliquia, deve soppesare con cura un pezzo di stoffa e appenderlo quindi all’interno della tomba. Poi prega ardentemente e se la sua fede è abbastanza forte, la stoffa, una volta rimossa dalla tomba, si troverà ad essere così piena della grazia divina che sarà molto più pesante di prima. In tal modo saprà che le sue preghiere sono state esaudite. Molti usano anche fare chiavi d’oro delle porte della santa sepoltura, e poi prendono con sé quelle precedentemente usate e le conservano come sacro tesoro, e con queste chiavi si curano le infermità degli afflitti” (In gloria martyrum, XXVII). Ben presto, divennero particolarmente richiesti gli oli delle lampade presenti nelle confessioni, custoditi in ampolle o fiale accuratamente etichettate e portate con sé dai fedeli, come dimostra la cd. “Nota degli oli”. Quest’ultima è una lista redatta da un tale Giovanni che, alla fine del VI sec., fu incaricato di raccogliere gocce d’olio santificato per farne dono alla regina Teodolinda; il buon uomo, scrupolosamente, fece un elenco delle etichette indicanti la provenienza di ogni ampollina (fig. 8). In ambito confessionale anche la polvere poteva acquisire valore, come quella del Santo Sepolcro, che secondo Agostino (De civitate

Dei, XXII, 8) operava miracoli, o di S. Teodoro: “se uno riusciva a portarsi via un po’ di polvere che s’era posata sulla tomba del martire, costui poteva considerarsi veramente fortunato”(Gregorio di Nissa, De S. Theodoro).

Nel documento Santuari paleocristiani in Italia (pagine 43-48)