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1. L’etica della condivisione

1.4. I beni comuni e la comunità

Sempre rimanendo all’interno dell’etica della condivisione, occorre fare un cenno - seppur breve - agli studi sui beni comuni, in particolar modo per quello che concerne le loro relazioni con quelli sulla comunità.

Trovare definizioni univoche è, anche in questo caso, estremamente difficoltoso perché il termine viene utilizzato da sempre in differenti ambiti.

I commons, come vengono più correttamente definiti nella letteratura giuridica anglosassone, corrispondono ai beni utilizzati contemporaneamente da una pluralità di individui e che presentano la caratteristica della non escludibilità, ovvero non è possibile impedirne l’utilizzo da parte di un singolo individuo senza escludere anche quello gli altri utilizzatori.57

La storia dei commons prende origine nell'Inghilterra pre-normanna dove ogni unità familiare coltiva «uno o più appezzamenti di terreno lunghi e sottili (strips) in due o tre campi annessi al villaggio»58 serbando così diritti comuni sulle terre incolte e i pascoli.59

Questi diritti comuni vengono progressivamente meno di pari passo alla centralizzazione burocratica normanna. Nel 1215 infatti, insieme alla Magna Charta, viene promulgata la meno nota Charter of Forest che garantisce l’accesso e l’utilizzo comune delle foreste e delle risorse ivi contenute «contro le pretese di chiunque, sovrano incluso»60

ma rimane lettera morta. La progressiva erosione dei diritti comuni sulle terre prosegue con lo sviluppo dell’individualismo fino al loro tramonto definitivo tra il 1700 e il 1800, attraverso la pratica delle enclosures, ovvero le recinzioni dei campi aperti e quindi la soppressione dei

54 A. Caillé, Vivere insieme contrapponendosi senza massacrarsi, op. cit., pp. 78 - 79.

55 A. Favole, La bussola dell'antropologo. Orientarsi in un mare di culture, Roma- Bari, Laterza, 2015, p. 84. 56 Sul retroterra culturale su cui si fonda il Manifesto ed in particolar modo con il nesso tra questo e le teorie

sul dono, si veda F. Fistetti, Le origine storiche del convivialismo: il paradigma del dono di Marcel Mauss, in AA. VV., Manifesto convivialista, op.cit., pp. 51 ss.

57 Nella definizione tradizionale sono contraddistinti dalla non escludibilità e dalla rivalità nel consumo, poichè spesso sovrasfruttati.

58 F. Valguarnera, Accesso alla natura tra ideologia e diritto, Torini, Giappichelli Editore, 2013, p. 1 59 Il Domesday book del 1086 - una sorta di catasto - registra la presenza di commons estremamente vasti. 60 U. Mattei, Beni Comuni. Un manifesto, Roma- Bari, Laterza, 2011.

commons.61

Inizialmente, più che con le norme, le recinzioni sono effettuate applicando la «legge del più forte»: si legge in Mattei che «i contadini vennero cacciati senza pietà. Le foreste chiuse. La spigolatura vietata. La raccolta di legna e quella di frutti punite come furto. L’espulsione dei contadini dalle terre trasformate in allevamenti […] fu una vera e propria tragedia sociale».62

Entro la prima metà del 1800 la scelta dello Stato di favorire la proprietà privata diventa definitiva e le enclosures sono legittimate attraverso l’istituzione di procedure finalizzate alla privatizzazione dei commons. Insieme ai commons si estingue anche la comunità contadina fondata, fino a quel momento, «su rapporti interindividuali e con la natura […] di tipo qualitativo e ecologico».63

Dalle enclosures in poi64

il matrimonio fra proprietà privata e Stato diventa quasi inattaccabile: i beni comuni vengono eliminati come categoria socio-politica e non compaiono nella quasi totalità delle costituzioni moderne (ad eccezione della costituzione ecuadoregna e di quella boliviana).

Il tema dei beni comuni, dimenticato per anni, torna in auge con un famoso articolo di Garret Hardin, The tragedy of commons65

. Il testo, pur occupandosi in realtà più del problema della sovrappopolazione mondiale che della gestione dei commons, segna l’inizio di una nuova era.

Hardin, ispirandosi alle tesi di Malthus sul rapporto tra popolazione e risorse disponibili66, parte da alcune premesse: il mondo è sovraffollato e le risorse sono insufficienti; di conseguenza occorre che la popolazione mondiale resti sotto un determinato livello.

Questo è l’humus culturale in cui Hardin sviluppa la sua teoria sui beni comuni anzi sulla tragedia dei beni comuni: il bene comune, lasciato in mano alla gestione collettiva in un contesto caratterizzato dalla scarsità di risorse disponibili, soccombe davanti al conflitto inevitabile tra la tendenza dell’uomo ad utilizzare il bene per il suo massimo piacere individuale e l'agire per il benessere collettivo. «Intendere qualcosa come comune significa pensarlo come oggetto possibile di rapina arbitraria, di decisione individuale e solitaria, di

61 Interessante è vedere la difesa del sistema dei commons da parte degli utopisti del 1500 e del 1600, primo fra tutti Thomas More, il quale dedica ampie pagine all'argomento nel suo romanzo Utopia.

62 U. Mattei, op. cit. p. 36. 63 Ivi, p. 37.

64 Mattei aggiunge un altro fattore ovvero la scoperta dell'America. La madre patria applica nelle colonie (dove peraltro quello che manca non è certamente lo spazio) lo stesso tipo di ragionamento che era stato applicato sul suolo inglese. Cfr. U. Mattei, op. cit, pp. 38 ss.

65 G. Hardin, The tragedy of the commons, in Science, n. 3859 (2), dicembre 1968 (tr. it. La tragedia dei beni

comuni, in Bollettino telematico di filosofia politica, dicembre 2009).

66 Secondo le teorie di Malthus, la crescita della popolazione segue una costante progressione geometrica e quindi cresce in modo esponenziale.

appropriazione violenta»67

: la possibilità della gestione comune dei beni non è presa nemmeno in considerazione poiché destinata a fallire. Rimangono solo le due possibilità dei modelli di gestione privata o pubblica «ad ogni modo escludenti»68

e la ricetta studiata da Hardin propone l’affidamento della gestione dei commons ad un’autorità esterna dotata di forza coercitiva e capace di impedire esiti nefasti.

L’articolo di Hardin colleziona consensi fino alla pubblicazione degli studi di Elinor Ostrom e del suo gruppo di ricerca.69

Partendo da una forte critica al lavoro di Hardin, la Ostrom trova una terza soluzione ovvero propone la gestione comune dei commons. L’autrice crede innanzitutto che il modello ipotizzato nella Tragedy of commons non sia applicabile universalmente ma solo in determinati contesti culturali e storici. In secondo luogo, viene proposto un modello di governo di tipo democratico che preveda la partecipazione da parte dei soggetti interessati alle regole operative per la gestione del bene: i partecipanti possono cambiare le regole stesse, ne controllano il rispetto, hanno accesso, sia materiale che spaziale, ai beni, risolvono eventuali conflitti e (soprattutto) non possono subire ingerenze da parte di autorità esterne. In terzo luogo, la soluzione della Ostrom finisce per creare un insieme variegato di strumenti (prevedendo anche il diretto coinvolgimento delle agenzie pubbliche) che non si sostituiscono ai diretti interessati nel governo del bene comune ma creano le condizioni affinché questo autogoverno possa essere il più efficiente possibile.70

Continuando il nostro velocissimo excursus, dobbiamo citare anche Hardt e Negri71, i quali, al contrario di Hardin, presuppongono un sistema di gestione comune. Gli autori intendono, con la parola bene comune, sia l’insieme dei beni pubblici e dei servizi legati al Welfare, sottoposti alla privatizzazione e all’accumulazione del capitale, sia il prodotto ottenuto con le trasformazioni sociali del lavoro inteso come forma di produzione e di cooperazione tra individui. In quest’ultimo caso la privatizzazione (intesa come l’espropriazione da parte del capitale) riguarda non tanto il lavoratore in quanto tale ma piuttosto il tessuto sociale creatore di valori.

Spostandoci all’interno dei confini nazionali, non possiamo non citare Stefano Rodotà,

67 L Coccoli - G. Ficarelli, The Tragedy of commons. Guida ad una lettura critica, in AA.VV, Oltre il

pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, (a cura di M. R. Marella), Verona, Ombre Corte, 2012,

p. 64. 68 Ibidem.

69 E. Ostrom, Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge University Press, 1990 (tr. it. Governare i beni collettivi, Marsilio, Venezia, 2006).

70 L. Nivarra, Alcune riflessioni sul rapporto fra pubblico e comune, in AA.VV, Oltre il pubblico e il privato.

Per un diritto dei beni comuni, op. cit., pp. 78 ss.

presidente di una commissione incaricata della riforma della disciplina dei beni pubblici nel codice civile. Nel disegno di legge delega si rinviene anche la definizione normativa di bene comune. Beni comuni sono quei beni a fruizione collettiva, entro i limiti e nei modi previsti dalla legge, capaci di esprimere utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali e dello sviluppo della persone e questo li rende meritevoli di tutela soprattutto in vista di un loro utilizzo da parte delle generazioni future.72

Secondo il disegno di legge, i beni comuni, anche quando di proprietà dei privati, debbono essere gestiti secondo i limiti imposti dalla legge e ognuno può agire in loro tutela (salvo la riserva dello Stato per quanto riguarda la possibilità di richiesta di risarcimento danni ai privati).73

Mattei propone anch’egli una gestione comune sotto la forma di democrazia partecipata, che tolga i commons sia dalle mani del pubblico che da quelle dei privati: «la strada da intraprendere è quella della istituzionalizzazione […] di un governo partecipato dei beni comuni»74

così da restituirli alle comunità di lavoratori e utenti previsti dall’art. 43. della nostra Costituzione.

Fatta questa breve premessa e ricostruita a grandi linee la storia dei commons e delle dottrine che se ne occupano75, si intuisce intanto come i commons siano parte di quell’etica della condivisione di cui si parlava poco sopra quantomeno negli autori che propongono ipotesi di gestioni comuni. Qui non solo il bene è condiviso ma può esserlo anche la sua gestione. Il che ci riconduce direttamente alla problematica della comunità e della sua organizzazione come bene comune.

Cerchiamo quindi di capire in che rapporto stiano bene comune e comunità.

Innanzitutto, quando si parla di ben comune occorre chiedersi quale sia la necessaria comunità di riferimento. La comunità in questo caso si definisce attraverso i legami sociali interni che regolano la fruizione del bene comune. Quello fra bene comune e comunità è un legame di tipo circolare poiché l’uno è inevitabilmente costitutivo dell’altra e viceversa.

Peraltro quando la comunità gestisce il bene comune non si deve pensare che ci si riferisca solo alla comunità attuale e presente ma anche a quella futura, in una dimensione necessariamente diacronica che miri a garantire le prossime generazioni. Così l’attenzione si

72 Legislatura XVI, Disegno di legge n. 1838. Per un approfondimento sugli studi di Rodotà sui beni comuni, si veda S. Rodotà, Il terribile diritto, Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, Bologna, Il Mulino, 2013.

73 L. Nivarra, op. cit., pp. 83 ss. 74 U. Mattei, op. cit., p. 106.

75 Per un approfondimento in senso critico, cfr. E. Vitale, Contro i beni comuni. Una critica illuministica, Roma - Bari, Laterza, 2013.

sposta dal soggetto al bene stesso.

Definire la comunità di riferimento in alcuni casi è semplice (si pensi alle proprietà collettive agrarie), in altri complicato: per esempio, riferendosi ad un bene artistico, come si individua la comunità titolare del bene comune? É una comunità determinata oppure è l'intera umanità?

Tutto questo crea una serie di difficoltà.

Intanto se non si delimita precisamente la comunità di riferimento non si può definire chi debba occuparsi della gestione comune del bene (anche perché le soluzioni gestionali e organizzative proposte su piccola scala si rivelano inidonee quando applicate ad una gestione su larga scala).

Inoltre definire il commons attraverso la comunità di riferimento non è privo di rischi poiché può diventare motivo di mantenimento di uno status quo (si vedano più avanti, per esempio, le gated communities). In questo caso non vi sono esternalità positive che fuoriescono dalla comunità che invece tende a mantenere per sé i vantaggi derivanti dai commons. Da ciò si deduce, come rileva giustamente Marella76, che qualificare un bene come comune non necessariamente ha come conseguenza un effetto redistributivo della ricchezza ma, anzi, può avere anche un controproducente effetto conservativo.

Marella nella sua analisi individua anche un altro nesso tra comunità e commons, il quale trova la sua origine nel fatto che, in seguito alle trasformazioni sociali e politiche delle metropoli, lo spazio urbano può esser considerato un bene comune.

In questo caso sarà allora necessario rivedere la definizione di comunità: se infatti la comunità di riferimento è formata, per esempio, da chi vive nel quartiere o da tutti coloro che utilizzano i mezzi pubblici, non può essere intesa in senso statico ma piuttosto come flusso. Il che porta a riconsiderare anche la definizione del soggetto di diritto che in questo tipo di comunità non può essere «un’entità fissa nella sua identità»77

ma piuttosto un «punto di incrocio di un fascio di rapporti».78

In questa situazione esiste un altro pericolo: la metropoli, accusata di distruggere i rapporti sociali interindividuali, per gestire beni comuni costruisce nuove identità fisse e rigide creando separazioni difficilmente superabili (si pensi di nuovo alle gated communities).

Rimanendo in questa ottica di comunità, vi è poi sempre il rischio che la cooperazione gestionale di un commons invece che emancipare il soggetto interessato non faccia altro che

76 M. R. Marella, Per un diritto dei beni comuni, in AA. VV, Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei

beni comuni, op. cit.

77 Ivi, p. 23.

lederlo nello sviluppo della sua libertà personale. Lo spazio urbano inteso come bene comune può essere considerato anche da un altro punto di vista ovvero non nella sua interezza ma in modo frazionato come insieme di numerose forme di proprietà collettiva (si pensi agli orti urbani). In casi come questi (e saranno proprio quelli che ci interesseranno nel seguito) l’attenzione sarà concentrata sulla gestione interna della comunità di riferimento e non sulla legittimazione o sulle esternalità positive al di fuori della comunità.79

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