2. Il concetto di comunità nelle scienze social
2.19. La ricerca di comunità in Nisbet e in Kirk
Negli studi di questi anni non si può non citare Robert Nisbet che nel 1953 pubblica The Quest of Community, opera che lo fa conoscere come uno dei più famosi ed originali sociologi statunitensi.133
Nisbet utilizza lo stratagemma della dicotomia di Tönnies ma - invece che contrapporre comunità e società - contrappone comunità e Stato (da qui il titolo dell'opera tradotto in italiano, Lo Stato e la comunità).
Secondo l'autore, vi è nel mondo contemporaneo una rinnovata domanda di comunità causata dall'alienazione sociale dell'individuo ovvero dal senso di estraniazione, isolamento e insicurezza che l'individuo prova davanti ai grandi cambiamenti politici, sociali ed economici. Se dal punto di vista economico e sociale, bisogna attribuire le responsabilità di questa alienazione alla eccessiva mobilità, al caos, alla disorganizzazione delle grandi città industrializzate e alla conseguente crisi dei valori, dal punto di vista prettamente politico entra in gioco lo Stato così come concepito fino a quel momento. Secondo Nisbet, lo Stato, creato come un'illusoria sovrastruttura, ha distrutto e corroso il terreno delle piccole comunità che fino ad allora erano state fondamentali nell'intermediazione fra lo Stato stesso e e l'individuo. Nisbet infatti - conviene precisarlo - non vede uno scontro fra Stato e individuo ma li concepisce piuttosto come i due elementi di un triangolo dove il terzo angolo è costituito dalla società.134
Nisbet infatti non mette il termine società in contrapposizione con la comunità ma piuttosto lo individua come il suo contenitore. La società racchiude dentro di sé «quel miscuglio di associazioni e di piccole comunità che funge da mediatore tra esperienze individuali, votate alla stabilità, e lo stato».135
Nisbet riconosce una superiorità dello società così intesa rispetto allo Stato, superiorità dovuta al fatto che la prima proviene «direttamente da Dio»136
e l'altro invece emerge da una «cosciente deliberazione umana».137
Il benessere di una società, secondo il sociologo statunitense, si misura infatti dallo stato di
133 R. Nisbet, The Quest for Community: A Study in the Ethics of Order and Freedom, Oxford, Oxford University Press, 1953 (tr. it. La comunità e lo stato, Milano, Edizione di Comunità, 1957).
134 Nisbet giustifica questa teoria anche dal punto di vista etimologico. Secondo l'autore infatti il termine «sociale» nato nel corso del 1800 indica «famiglia, villaggio, parrocchia, città, associazione di
volontariato e classe, non stato politico». R. Nisbet, Prejudices, A philosophical Dictionary, Cambridge,
Harvard University Press, 1982, pp. 287. 135 S. Pupo, op. cit.
136 Ibidem. 137 Ibidem.
salute delle comunità che la compongono. Ove queste sono state distrutte (l'esempio proposto è infatti la società sovietica) la società soffre.
L'accetta di Nisbet cade su Hobbes e Rousseau, precursori del monismo sociale che ha messo in crisi le comunità. Il nichilismo sociale di Hobbes non lascia spazio a nessun tipo di comunità intermedia, le quali sono descritte addirittura come «vermi nelle viscere dell'uomo»138
: vengono meno la chiesa, la famiglia e qualsiasi altro tipo di relazione comunitaria, viste come entità che fomentano il dissenso, contrapponendosi così alle esigenze dello Stato.
. A nessun soggetto, sia collettivo che individuale, è permesso di interferire nella attività delle Stato monistico.
Secondo le analisi di Nisbet, Rousseau non è più il filosofo del comunitarismo ma piuttosto un suo acerrimo «nemico» perché proprio con il suo divieto di «società parziali» trasferisce tutto il potere sulle autorità centrali, gettando così i semi per lo sviluppo futuro dei regimi totalitari. La comunità alla quale si riferisce Rousseau non è infatti la comunità così come la intende Nisbet ma piuttosto la comunità politica intesa, alla maniera di Tommaso d'Aquino e di Althusius, come «comunità di comunità, un insieme di gruppi moralmente integrati».139
Per Nisbet, l'individuo di Rousseau ha un solo modo per liberarsi dalla tirannide della società ovvero cedere allo Stato centrale i diritti di associazione, base della religione, della famiglia e della comunità.140
Nisbet, concludendo, ripropone la comunità nella sua valenza pluralistica e, al fine stesso della sua sopravvivenza, le fornisce uno spiccato accento di autonomia: in mancanza di questa caratteristica, la comunità è destinata ad essere assorbita dallo Stato.
L'autore tentando di tipicizzare la comunità, individua alcune caratteristiche indispensabili affinché questa possa essere considerata tale. In primo luogo, la comunità deve avere una funzione, intesa come uno scopo, di qualsiasi genere e mutevole nel tempo, da raggiungere. In secondo luogo, detta funzione deve essere costruita come un dogma, pensata come qualcosa in cui avere fede a prescindere dal calcolo razionale dell'individuo. In terzo luogo, è necessario che la comunità regga non sul potere imposto dall'esterno ma sull'autorità basata sull'uso e sul consenso interno. In quarto luogo, è necessaria una gerarchia poiché è impensabile che la comunità resista senza una divisione di ruoli precisa e una struttura di
138 R. Nisbet, The Social Philosophers: Community and Conflict in Western Thought, New York, Washington Square Press, 1982, p.189.
139 R. Nisbet, Rousseau and The Political Community, in Tradition and revolt, New Brunswick, Transaction Publishers, 1999, pp. 17 - 18.
comando prestabilita. In quinto luogo, è indispensabile il concetto del «noi», della solidarietà. In sesto luogo, vi è il senso dell'onore che non può mai essere sacrificato per interessi personalistici o utilitaristici e infine Nisbet indica il necessario senso di superiorità, che deve essere percepito dai membri della comunità rispetto all'esterno poiché le «comunità sono nel mondo ma si considerano come se non vi fossero».141
Negli anni della produzione di Nisbet, un altro sociologo americano affronta il tema della comunità. Si tratta di Russel Amos Kirk, il quale si posiziona sulla medesima linea di pensiero di Nisbet, mettendo in luce la rinnovata ricerca della comunità, andata perduta a causa dello svincolo da questa da parte dell'individuo. Rifacendosi all'idea aristotelica della comunità di amicizia, Kirk costruisce la comunità alla stregua di un'associazione di persone volontariamente unite da affetti ed interessi.
Queste comunità sono oggi distrutte dall'interno da conflitti, da rotture sociologiche e ideologiche e da egoismi personali. Kirk addirittura individua la perdita della comunità come il principale problema etico e morale del nostro tempo e attribuisce la responsabilità di ciò a tre cause interconnesse: industrializzazione, urbanizzazione e noia sociale.
L'industrializzazione ha conferito alla società maggior ricchezza e benessere ma al tempo stesso ha prodotto, attraverso l'innovazione tecnologica, un allontanamento dalla comunità originaria, fondata su valori umanistici più che scientifici e tecnologici. Kirk è scettico anche nei confronti dell'urbanizzazione, la quale ha spopolato le campagne, dove il senso di comunità riusciva a proliferare e a mantenersi in modo migliore rispetto alle città dove le masse diventano proletariato. In ultimo luogo, vi è la noia sociale, intesa come la perdita di punti di riferimento, di scopi e di obblighi nei confronti della famiglia e della comunità stessa. L'individuo, mai soggiogato dalla macchina, cerca nuovi stimoli al di fuori di quelli comunitari. Tutto questo non è privo di rilievo: per Kirk, la minaccia maggiore alla libertà individuale è proprio la perdita della dimensione comunitaria, la quale impedisce un'eccessiva ingerenza dello Stato e limita il pericolo dei totalitarismi. Scrive Kirk che «ciò di cui si ha bisogno è una libertà più alta, solidamente agganciata a una comunità stabile, che rende libere le persone di raggiungere i loro ultimi traguardi spirituali e culturali».142
141 Cfr. S. Pupo, op. cit.