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3. Le misure di sicurezza personali detentive, la colonia agricola e

3.2 Il riformatorio giudiziario

3.3.1 I manicomi criminali

La storia dei manicomi giudiziari, così come da noi oggi intesi, può farsi risalire al disegno di legge presentato da Giolitti il 6.12.1902, col titolo “disposizioni sui manicomi pubblici e privati”, il quale si proponeva di porre rimedio alle nefandezze riscontrate nei manicomi giudiziari, imponendo un adeguato trattamento contenitivo nei confronti dei malati mentali considerati pericolosi, attraverso il ricovero coatto. Infatti, con il Regio Decreto del 1.02.1891, n. 260 erano stati per la prima volta regolati i manicomi giudiziari, ove i prosciolti per infermità mentale venivano accolti. In particolare, potevano accedere alle istituzioni manicomiali: i condannati a pena superiore a un anno impazziti in fase di esecuzione della pena carceraria, i condannati a pena inferiore a un anno colpiti da infermità transitoria che non mostrassero segno alcun di poter arrecare danno alla società, le persone prosciolte per

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infermità in stato di osservazione clinica e le persone già sottoposte a osservazione con esito negativo della stessa.

Tuttavia, i manicomi giudiziari rappresentavano una mera duplicazione del carcere, tant‟è che nessun tipo d‟intervento terapeutico veniva apprestato ai bisognosi di cure.

A seguito dell‟inchiesta sui manicomi disposta dalla Direzione generale di sanità presso il ministero dell‟interno, si era accentuata l‟esigenza di porre rimedio alla situazione di degrado cui i c.d. “folli” versavano sul finire dell‟ottocento.

Il disegno di legge Giolitti si mosse lungo questa corrente propositiva, che già a partire dalla prima metà dell‟800, con la proposta di legge del deputato Bertini, aveva spinto verso la creazione di istituti appositi per i c.d. pazzi, in modo da riservare a quest‟ultimi un trattamento differente rispetto a quello normalmente previsto per i detenuti nelle carceri, soprattutto al fine di evitare che gli alienati mentali potessero costituire un pericolo per la società. Nella Proposta Bertini si osserva che «nessun mentecatto potrà essere ritenuto, nemmeno provvisoriamente, in alcuna prigione»241.

Il progetto Giolitti rappresenta, dunque, il risultato di un lungo viatico che per quasi un secolo aveva angustiato la politica italiana.

Il progetto si suddivideva in otto articoli, nei quali erano disciplinati gli aspetti più vari: dall‟obbligo del ricovero per i dementi pericolosi, all‟istituzione di servizi speciali di vigilanza per gli infermi. L‟intervento sanitario veniva assegnato a strutture pubbliche e la direzione concessa a medici psichiatri. All‟art. 3 del progetto si disciplinava la fase successiva al ricovero, ossia la procedura per le dimissioni dal manicomio. Questa doveva essere presentata dal direttore dell‟istituto o comunque dai parenti dell‟internato, e doveva essere autorizzato con decreto del tribunale.

Il progetto venne discusso in Senato nel marzo del 1903. Nelle sedute che si succedettero dal 26 al 28 marzo, vennero mosse critiche al programma giolittiano, soprattutto in merito al problema della gestione finanziaria degli istituti, di competenza delle già oberate di debiti provincie242.

241 Progetto Bertini consultabile in Bonacossa, Osservazioni sulla proposta di legge del medico collegiato Bernandino Bertini membro della Camera de‟ Deputati riguardante la custodia e la cura dei mentecatti e considerazioni sullo stato attuale de‟ pazzi in Piemonte, Stamperia G. Favale e C., Torino 1849, p. 9 e ss. 242 Vedi, Atti parlamentari Camera dei deputati, legislatura XXI, II sessione 1902-1903, Documenti, disegni di legge e relazioni n. 230 A, pag. 22 e ss :«La deputazione provinciale di Foggia, associandosi ai voti formulati dalle consorelle di Torino, Brescia, Novara, Ascoli Piceno e Padova chiede che il disegno di legge sui manicomi e sugli alienati sia modificata dalla Camera disponendosi che: lo stato ed i comuni concorrano nella spesa per il

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Il 31.03.1903 il progetto venne presentato alla camera dei Deputati, poi approvato nel febbraio del 1904 e promulgata il 14.02.1904 col il n. 36. La legge, intitolata “Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati” si componeva, nella sua versione definitiva, di dieci articoli, con cui si «regolamentava il luogo di segregazione per eccellenza: il manicomio»243.

L‟istituto manicomiale era stato predisposto al fine di isolare i soggetti pericolosi, in modo da evitare che questi potessero porre in essere attività dannose e di pubblico scandalo.

Nonostante le motivazioni che indussero alla formazione della proposta di legge, ossia addivenire alla creazione di istituti capaci di contenere la pericolosità dei singolo e di curarne le patologie, ciò che ne venne fuori fu un‟istituzione totale, segregativa e fisicamente lontana dai contesti urbani, «forse per evitare il contagio della follia»244.

Già da alcune inchieste formatesi nel 1905 possono evidenziarsi i nodi critici dell‟istituto manicomiale. L‟inchiesta sul manicomio di Como, ad esempio, aveva portato alla luce il sovraffollamento insito nella struttura. La stessa, infatti, era stata congegnata al fine di contenere 500 ammalati, ma, in realtà, ve ne alloggiavano più di 700.

La commissione d‟inchiesta riferì a riguardo che «nelle attuali condizioni il nostro manicomio ben può meritare la definizione che gli fu data dagli stessi sanitari che vi sono preposti, di non essere altro che una baraonda ed una fabbrica di cronici dove i malati, per mancanza di aria, di ambiente adatto, di sorveglianza, di assistenza razionale, anziché migliorare, peggiorano»245 .

La situazione non mutava nel resto d‟Italia; eguali inchieste vennero a porre in evidenza le condizioni di degrado presenti nei manicomi di Fleurent e Vernicchi, nonché nel manicomio di Aversa. I ricoverati erano spesso tenuti a digiuno per più di venti ore, a causa dei ritardi nelle forniture dei generi alimentari presso le strutture, e il sovraffollamento degli istituti aveva portato a conseguenze inevitabili: «dinanzi al caleidoscopico succedersi delle ammissioni il medico non ha il tempo di studiare bene i suoi malati e di seguire tutte le fasi della loro malattia. Di qui diagnosi tardive o errate; dimissioni intempestive di infermi per

mantenimento degli alienati d‟ogni specie che secondo il proposto disegno di legge graverebbero soltanto sulle provincie […]».

243 Paola Di Nicola, La chiusura degli opg: un‟occasione mancata, in diritto penale contemporaneo, 2015, pag. 2. 244 Ibidem.

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Enormità rivelate dall‟inchiesta nel manicomio di Como, in Corriere della sera del 03.03.1906, pag. 4., consultabile a questo link, pag. 23: http://www.istituto-meme.it/pdf/tesi/tagliafierro-2006.pdf.

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miglioramenti o guarigioni non bene accertate, che non tardano poi a risospingere i soggetti al manicomio; infine ritardata uscita di molti, la cui guarigione è sfuggita al medico e che, non

di rado, permanendo nel manicomio, ricadono nella loro infermità[…]»246

.

In sostanza, la legge del 1904 non aveva contribuito a dirimere le problematiche insite nei manicomi, risultando questi, e le nuove sezioni giudiziarie formatisi all‟inizio del 900, delle mere duplicazioni degl‟istituti regolati con il Regio Decreto n. 260. Tant‟è che l‟ammissione nei manicomi era vista come un «fatto grave, che va circondato di tutte le possibili circospezioni (in quanto) tratta di una parte così pietosa e così ripugnante del genere umano, che si trova in condizioni specialissime, per cui la prigionia […] sarebbe per loro un‟ingiustizia e la libertà un pericolo per tutti»247

.

La situazione non mutò con l‟avvento del regime fascista, il quale si era preoccupato di introdurre nel codice penale del 1930 l‟art. 222, il quale stabiliva che il manicomio giudiziario era il luogo ove dovevano essere eseguite le misure di sicurezza detentiva per gli imputati prosciolti per infermità psichica, ovvero per intossicazione cronica da alcool o da sostante stupefacenti o per sordomutismo.

Nella relazione del guardasigilli al primo libro del codice penale, si afferma che: «quanto alle persone che abbiano commesso il fatto in stato di alienazione mentale, il Progetto modifica radicalmente le norme contenute negli articoli 594 e 595 del codice di procedura penale, adottando criteri ben più risoluti e organici. […] Si impone» nei confronti degli incoscienti in stato di follia «di prescindere, nei più gravi casi, da accertamenti specifici riguardanti lo stato di pericolosità. […]. E‟ ammessa, inoltre, una presunzione di persistenza

nella pericolosità, per un tempo corrispondente alla durata minima del ricovero […]»248

. Il progetto di riforma presentava, dunque, tre caratteristiche: si prevedeva l‟obbligatorietà del ricovero dell‟infermo in base a una presunzione assoluta di pericolosità; che il ricovero dovesse disporsi in manicomio giudiziario o in speciali sezioni dei manicomi comuni e l‟obbligo di trascorrere nei suddetti istituti un periodo minimo, che nei casi più gravi corrispondeva ai dieci anni.

246 Relazione presente in Canosa, Storia del manicomio in Italia dall‟unità a oggi, Milano, 1979, pag. 126. 247

Scartabellati,L'umanità inutile. La «Questione follia» in Italia tra fine Ottocento e inizio Novecento e il caso del Manicomio provinciale di Cremona, 2001, pag. 117 ss.

248 Ministro della giustizia e degli affari di culto, Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. V: Progetto definitivo di un nuovo codice penale con la relazione del guardiasigilli A. Rocco, Parte I, Relazione sul libro I del progetto, Roma, 1929, pag. 271.

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La regolamentazione dell‟istituto della misura di sicurezza del manicomio giudiziario aveva subito un processo di modificazione rispetto a quanto previsto nel precedente codice Zanardelli, nonché rispetto a quanto predisposto dalla legge Giolitti del 1904; «la previsione di un periodo di ricovero obbligatorio […], anche se l‟imputato per una qualche ragione fosse stato riconosciuto in concreto non pericoloso, si muoveva in radicale contrasto con quanto stabilito dal codice Zanardelli e di fatto si risolveva in una vera e propria pena detentiva inflitta ad una persona riconosciuta inferma di mente»249.

Nonostante il millantato carattere curativo della misura, l‟afflittività del manicomio giudiziario si presentava con maggior forza rispetto a quella derivante dall‟istituto penitenziario, essendo i ricoverati «sempre[…]privi di ogni diritto nei confronti

dell‟amministrazione assai più dei detenuti nelle carceri comuni»250

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