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Il Franchismo, Guipúzcoa “provincia traditrice”, Euskadi Ta Askatasuna

Dopo la caduta nelle mani dei franchisti della città di Bilbao, capoluogo di provincia della Vizcaya, Franco e il governo da lui rappresentato aboliscono con un decreto legge, il 23 luglio del 1937, il regime fiscale della concertazione economica per Guipúzcoa e Vizcaya. Si tratta di un provvedimento repressivo finalizzato a punire l’adesione delle due province alla Repubblica. Nel preambolo del decreto i due territori, storicamente eredi dei più importanti fueros dei Paesi Baschi, sono definiti “le province del tradimento”. Il tradimento è riferito alla volontà di autonomia espressa per secoli dal popolo basco, fino all’alleanza con il Fronte Popolare per ottenere l’indipendenza, tradendo quel progetto di nazione unica, guidata da Madrid, perorato dalle élite politiche castigliane fin dal 1876.

A conferma di quanto affermato nel preambolo del decreto legge, si possono citare le norme che prevedevano un regime fiscale particolare per la provincia di Álava, che aveva aderito fin dal primo momento alla sollevazione militare contro i “baschi alleati con i rossi83”.

Al termine del conflitto, l’esercito franchista si comportò nelle province basche come un esercito di occupazione. Il governo centrale di Madrid diede avvio a una politica culturale espressamente finalizzata a trasformare l’identità culturale basca: le misure repressive riguardarono essenzialmente la distruzione della tradizione identitaria basca. In particolare nel 1940, un anno dopo la fine ufficiale della guerra civile, furono emanate leggi specifiche84 relative ai territori delle tre province e della zona bascofona della Navarra. Esse consistevano nel divieto assoluto di parlare l’euskara, nell’abolizione dell’onomastica e della toponomastica in lingua locale, nell’obbligo di comunicare a livello orale e scritto unicamente in castigliano. Imposizioni considerate umilianti e degradanti dalla popolazione, al di là dell’appartenenza politica o del giudizio espresso sulla Repubblica. Più volte, nella storiografia contemporanea spagnola e basca, si sottolinea che due sono i genitori del nazionalismo e del mito di Euskal Herria: la madre è la lingua euskara, il padre è il Franchismo, che attraverso le politiche repressive ha contribuito a creare l’immagine dell’“etnia oppressa”. Il frutto più amaro lasciato alla democrazia dal franchismo fu proprio la questione dei nazionalismi periferici, che nonostante la capillare

83 J. Preston, La Guerra Civile spagnola, 1936-1939, Milano, Mondadori, 2000, p. 245. 84 Ivi, pp. 360-365.

repressione culturale si mostrarono ancora più forti e combattivi85.

Il governo franchista non si limiterà a emanare atti giuridici finalizzati a porre in essere una vasta opera coercitiva di denazionalizzazione dell’identità basca e di rinazionalizzazione in senso “spagnolista”, opera alla quale collaborano fattivamente, tra l’altro, quei settori della grande e media borghesia basca che non si sono mai mostrati ideologicamente autonomisti o indipendentisti. Il regime incoraggerà attivamente, negli anni successivi, i flussi migratori degli spagnoli verso i Paesi Baschi.

Grazie ai flussi migratori e al concomitante boom economico, dovuto a un forte miglioramento delle condizioni socioeconomiche, tra il 1950 e il 1970 la popolazione delle tre province cresce del 62%, pari a novecentomila unità.

Sul piano politico, la fine della guerra civile segna un cambiamento profondo nella strategia del PNV, la cui dirigenza riparerà in esilio, dove rimarrà per tutto il tempo del regime franchista coordinando molteplici azioni di opposizione, che si intensificheranno dopo la prima fase della dittatura negli anni Quaranta. Le vicende dell’esilio politico basco esulano dalla contestualizzazione storica di questa ricerca. Nei Paesi Baschi nasceranno sezioni giovanili clandestine del PNV. Alla fine degli anni Cinquanta, alcuni militanti appartenenti a esse saranno tra i fondatori di Euskadi ta Askatasuna (ETA).

Per quanto riguarda l’area culturale afferente o simpatizzante con il nazionalismo, composta da maestri di scuola, sacerdoti, cultori dell’euskara, simpatizzanti del PNV e più in generale da quella parte della popolazione che non accetterà di essere spagnolizzata, essa troverà nella pratica delle tradizioni locali il proprio rifugio e la propria forma di

agency.

Per tutti gli anni Quaranta, e per quasi tutto il decennio successivo, per mantenere viva la propria identità culturale tutti quelli che lottavano per affermare l’ideale nazionalista legato al progetto di uno Stato basco non poterono fare altro che ripiegare sulla pratica delle tradizioni folkloriche, sulle corali, sui gruppi di danze tradizionali, spesso con il sostegno delle parrocchie e del clero di base.

Da queste esperienze e da questi ambienti, formati dalle generazioni che avevano vissuto la guerra civile nell’infanzia o nella loro primissima giovinezza, emergerà una nuova leva di

85 Nei documenti interni all’organizzazione armata etnonazionalista ETA i militanti scrivevano, non soltanto in modo casuale o semplicemente sloganistico, che il regime franchista era meglio della democrazia parlamentare emersa dopo la fase della transizione democratica.

nazionalisti. La maggior parte di loro si riconoscerà nel PNV, mentre una piccola parte, una minoranza molto attiva soprattutto sul piano culturale, cercherà altre strade per valorizzare l’identità culturale basca e per darle nuove forme di rappresentanza politica.

Da questa esigenza nascerà appunto ETA. Giudicando troppo passivo l’atteggiamento del PNV, nel 1958 un gruppo proveniente da Ekin86 rompe con il partito, seguito da alcuni

militanti dell’organizzazione giovanile del partito stesso. Circa un anno dopo, nel 1959, il gruppo scissionista dà vita a Euskadi ta Askatasuna che in italiano suona come “Patria Basca e Libertà”. Inizialmente il manifesto dell’organizzazione appare assai moderato, rispetto al progetto politico e alle forme di azione sul territorio che saranno messe in atto, di cui analizzeremo l’aspetto simbolico e il peso assunto nelle rappresentazioni della violenza nella cultura basca. Nel testo l’organizzazione si definisce apolitica, aconfessionale, democratica, schierata in difesa del diritto all’autodeterminazione, fautrice dei diritti dell’uomo, inteso come cittadino e come lavoratore. Afferma di riconoscere il governo basco in esilio e la sua autorità nelle decisioni e scelte politiche inerenti alla causa dell’autonomia e dell’autodeterminazione.

La data che viene scelta per la fondazione di ETA è il 31 luglio 1959, festa di S. Ignazio. Nello stesso giorno, 64 anni prima, Sabino Arana aveva fondato il PNV.

Nei primi anni di attività ETA si limita a formare i quadri politici, che approfondiscono lo studio dell’euskara e analizzano i testi del nazionalismo sabiniano. Parallelamente, il gruppo compie alcune azioni simboliche, come far sventolare improvvisamente in luoghi pubblici la bandiera basca, chiamata ikurrina, la cui esposizione era stata vietata fin dal 1939 dal governo franchista. Non si trova traccia, inizialmente, di una cultura militarista e rivoluzionaria nei documenti di ETA. Tra la popolazione essa è scarsamente conosciuta, anche se nelle università della Guipúzcoa iniziano a circolare documenti e lettere firmate da ETA. Nei primi anni della sua esistenza appare come un fenomeno del tutto marginale sul piano politico e culturale. Fino al termine degli anni Sessanta nessuno immaginava quale ruolo avrebbe avuto ETA nei processi di etnicizzazione della popolazione basca. Uno dei miei primi informatori sul campo, a Bilbao, nell’aprile del 2010, mi disse:

[…] è la nazione basca, nazionalismo e ETA vanno insieme, sono sinonimi, perché nazionalismo significa volere una nazione, una patria e qui solo ETA

lotta per ottenere una patria per noi baschi. Il Partito Nazionalista basco al massimo lotta per l’autonomia, ma ha dimenticato completamente che cosa significa Euskal Herria, e poi preferisco non pensare al fatto che molti dirigenti del PNV non sanno una parola di euskara, a parte agur e kaixo, quindi non sono

nemmeno dei baschi87.

Non si trovano riferimenti alla lotta armata nei primi testi, ma sono presenti molte riflessioni sulle lotte anticolonialiste. Sono approfondite sul piano teorico le lotte dell’Indocina e dell’Algeria, vengono commentati i testi di Mao, Ho chi Min e Fanon.

Sarà al termine degli anni Sessanta, con l’avvicinarsi della fine del regime franchista, che ETA diventerà una struttura dall’organizzazione, dalla cultura e con un progetto politico completamente differenti rispetto al passato, in termini di contenuti e di capacità di agire all’interno e al di fuori del territorio basco.

Il passaggio verso questa nuova fase è caratterizzato dalla volontà di proporre un progetto politico che in termini nazionalistici riprende l’esperienza dei fueros, abbandona alcuni aspetti razziali presenti nella prospettiva sabiniana, in cui spesso il “tipo” basco è assimilato all’“uomo ariano” e si relaziona ai contesti europei ed extraeuropei per quanto riguarda le forme di lotta.

I quadri politici di ETA mostrano grande attenzione alle trasformazioni che attraversano l’episcopato cattolico da una parte e il mondo dei sacerdoti che operano nelle aree rurali dall’altra. Ha inizio, in particolare, un dialogo tra militanti nazionalisti e esponenti della Compagnia di Gesù, che negli anni Cinquanta e Sessanta gestivano la maggior parte dei collegi e seminari religiosi. In numerose memorie autobiografiche88, prodotte da militanti di ETA negli anni successivi alla caduta di Franco, si legge di come i primi contatti con le idee del nazionalismo avvenissero proprio all’interno dei collegi gestiti dai Padri della Compagnia di Gesù.

87 Intervista n. 3.