5. ETNONAZIONALISMO, INVENZIONE DELLA TRADIZIONE E VIOLENZA POLITICA
5.6 La storia di Begoña A.: “Sono nata a Gernika e sono figlia di due etnie ‘straordinarie’”
Nell’intraprendere la mia ricerca mi sono chiesto se in qualche fase del lavoro sul campo, come è accaduto ad altri ricercatori, mi sarei potuto trovare prima o poi in prossimità, oppure spettatore indiretto, di qualche atto di violenza politica. L'immagine dei Paesi Baschi, dopo la fine del franchismo, è stata fortemente condizionata dalla questione delle azioni violente progettate dagli etarras in nome della lotta per l'indipendenza politica dalla Spagna.
Ricordo la frase di Rosa, che descrivendomi le vicissitudini iniziali legate all'inaugurazione dell'area agro-turistica del baserri, a proposito di una visita della polizia basca raccontò:
Pregai i poliziotti di prendere i fucili del vicino con cui ho litigato, per quei motivi di cui ti ho parlato legati a questioni di pascoli e proprietà, senza farsi vedere dai primi turisti inglesi, perché sai Marco qui siamo nei Paesi Baschi e appena vedono i fucili o i posti di blocco con gli agenti locali incappucciati, pensano subito a ETA, alla strage dell’Hypercor, oppure che noi baschi siamo gente strana e che parla una lingua strana.242
A me non è accaduto: non sono stato testimone di atti di violenza politica, ho soltanto raccolto racconti che rimandavano a questo complesso insieme di comportamenti che alcuni criminologi sociali, come V. Ruggiero243, definiscono “violenza non autorizzata”244, deducendo l’espressione da affermazioni come quella di Max Weber245, secondo cui
241 Intervista n. 1. 242 Intervista n. 1.
243 Cfr. V. Ruggiero, La violenza politica. Un’analisi criminologica, Roma, Laterza, 2000 244 Ivi, p. 6.
soltanto lo Stato ha “il monopolio legittimo della violenza in un determinato territorio246”.
Il lavoro sul campo nell'area territoriale della Guipúzcoa mi ha esposto costantemente al contatto con rappresentazioni verbali o iconiche relative a ETA.
Le immagini da me osservate sono classificabili in due insiemi: il primo riguarda manifesti e cartelli in cui appare, solitamente poche ore dopo un attentato, la scritta “Eta za”247; il secondo comprende una molteplicità di espressioni, dal murales fino al manifesto, in cui accanto a frasi inneggianti all'indipendenza o all'amnistia per i presos appare il simbolo dell'organizzazione, un serpente che avvolge un pugnale a forma di gladio.
Per comprendere alcuni aspetti del rapporto tra rappresentazioni dell'identità etnica basca e violenza politica, al termine del mio lavoro sul campo, una volta raggiunto un livello di conoscenza tale da potermi orientare tra le principali dinamiche culturali osservate, ho scelto di incontrare, per sette volte nel corso di tre mesi, Begoña248, imprenditrice agricola di Gernika, abilitata all'insegnamento dell'euskara, con una madre di origine basca e un padre galiziano.
Se Rosa, la mia prima informatrice sul campo, mi ha permesso di orientarmi sul terreno, in una fase in cui la mia conoscenza era limitata, con Begoña si chiude la prima parte della ricerca.
M.T. Dove sei nata?
B. A Gernika nel 1960, ma i miei genitori si sono trasferiti a
Mondragón quando avevo un anno. Mia madre è basca, mio padre di origine galiziana. I suoi genitori arrivarono in Vizcaya per lavorare nelle miniere di ferro a cielo aperto di Bilbao249. Poi si trasferirono a Mondragón (Arasaste).
246 Ivi, p. 140.
247 “Eta No!” (in euskara).
248 Secondo l'antropologo Riches , gli atti di violenza possono essere studiati e descritti a partire da tre prospettive interpretative: Cfr. D. Riches (a cura di), The Anthropology of violence, Oxford, Basil Blackwell, 1986, pp. 45-59. La prospettiva di chi è responsabile dell'atto violento, quella di chi lo subisce e di chi appartiene al pubblico che osserva tale dinamica. Nell'ambito della mia ricerca, nel lavoro sul campo ho incontrato chi ha partecipato ed è responsabile di alcuni di questi atti, come il mio informatore sul campo Ricardo, chi ha assistito fornendo interpretazioni diverse, come Rosa e Begoña. Manca l'interpretazione dei parenti di chi ha subito tale violenza, perché, come mi ha detto la moglie di un consigliere comunale del PSOE, non erano interessati alla mia ricerca.
249 Il padre di Begoña si trasferì dalla Galizia e fa parte di coloro i quali emigrarono in Vizcaya rispondendo al bisogno di forza lavoro necessaria ai processi di industrializzazione.
Sono figlia di due etnie250 straordinarie!
M.T. Sei cresciuta sotto il franchismo…
B. Sì, ma se non fossi stata basca le cose non sarebbero state così
complicate.
M.T. Complicate?
B. Sì, perché quando ho iniziato ad andare a scuola, nel primo
ciclo251, economicamente non si stava male, ma c'era sempre paura della
violenza.
M.T. Quale violenza?
B. Quella tra i baschi contro la Spagna e quella dei nazionalisti
spagnoli contro di noi. Sai, non era come adesso che di bandiere spagnole non ne vedi più per le strade. La Spagna era ovunque.
M.T. Con Spagna intendi Franco, la Falange?
B. No, Franco si vedeva poco. Era La Spagna, la Guardia Civil,
l’esercito. In ogni paese un ufficio del governo di Madrid e poi sempre turisti spagnoli.
M.T. La lingua?
B. Io mi ero abituata al castigliano, ma mia nonna a casa parlava
solo in basco con noi e con sua figlia.
M.T. Conosci il basco?
B. Sì, mi sono abilitata all'insegnamento della lingua, per passione
delle lingue e anche perché se le cose qui al baserri vanno male domani posso tentare i concorsi pubblici in tutta la Comunità. Da giovane però, diciamo fino
250 Begoña, come quasi tutti gli altri intervistati ad eccezione di Rosa, usa spesso il termine etnia, legato a visioni antropologiche di tipo sostanzialista.
251 Nel sistema scolastico franchista si studiava in castigliano e i programmi scolastici escludevano ogni riferimento alla cultura basca.
ai trent'anni, dell'euskera252 non m'importava nulla.
M.T. mi sembra che si dica correttamente “euskara” e non, come dici
tu, “euskera”...
B. Sì, secondo le regole del basco unificato, del batua... ma io
continuo ad usare le vecchie regole grammaticali e a Mondragón come a Bilbao si è sempre detto “euskera”...
M.T. È un problema, quello della lingua... Ma davvero tutti volevano il
bilinguismo ?
B. Sul piano ideale sì, a tutti piaceva l'idea del parlare basco, ma poi
in pochi lo hanno scelto come prima lingua.
M.T. Ma allora non salta il discorso sull'etnia basca, nel senso che
proprio l'euskara renderebbe i baschi diversi dagli altri?
B. Non credo, la maggior parte dei nazionalisti, almeno quelli che
conosco io - e sono tanti - non parlano in modo fluido l'euskera. Ma sono nazionalisti lo stesso e lo saranno sempre dato che si ricordano quello che hanno subito o quello che hanno saputo dai nonni e da tutti coloro che hanno conosciuto il razzismo spagnolo.
M.T. La legge sul bilinguismo non ha portato quindi a una
diminuizione del sentimento nazionalista?
B. A me non sembra proprio.
M.T. Però adesso ci sono dei negoziati.
B. ETA non ci crede...
M.T. In che senso?
B. Non deporranno mai le armi, se lo facessero prima o poi li
massacrerebbero tutti e poi noi, visto che tutti abbiamo militato in Batasuna o
252 L'intervistata in tutti i nostri incontri continuerà a utilizzare il termine euskera, scelta condivisa, tra gli altri, anche dal quotidiano “El País”.
abbiamo parenti in ETA.
M.T. Una frase del genere me l'ha detta anche Atxaga a Mantova nel
2008. Ad un certo punto mi ha detto: “alla fine del franchismo eravamo tutti di ETA”. Ma credo non intendesse “militanti attivi”, ma volesse dire che si percepiva ETA come unica possibilità per realizzare lo Stato di Euskal Herria.
B. Sì, sono d'accordo. Ma degli spagnoli, qui, a causa del passato e
della guerra civile nessuno si fida. E non c'entra il tempo trascorso. Anche tra la prima guerra carlista e lo statuto del 1935 erano passati quasi cento anni, ma la differenza tra noi e loro c'è e ci sarà sempre. E anche quando hanno avuto la democrazia, gli spagnoli, hanno creato i GAL... I GAL sono parte della violenza in cui sono cresciuta. Alcuni miei compagni di liceo sono stati feriti e torturati dai GAL, solo perché distribuivano volantini per il KAS. Prima ancora altri “spagnolisti” hanno dato fuoco alla mia ikastola.
M.T. Hai frequentato un’ikastola?
B. Sì, dai 10 ai 13 anni, un’ikastola che a quel tempo non era
riconosciuta dallo Stato. Ci andavo due giorni alla settimana.
M.T. Come si finanziava la scuola?
B. Contributi delle famiglie, e ogni volta che dicevi una parola in
castigliano dovevi pagare una peseta...
M.T. Hai mandato tua figlia in una ikastola con modello linguistico
D253?
B. No, lei va nella scuola bilingue.
M.T. Durante la tua adolescenza hai assistito ad azione violente?
B. Sì, una spaventosa carica di polizia ai funerali di Txomin. Mi
portò mia madre ai funerali di Txomin. Suo figlio era mio compagno di scuola al liceo.
253 Modello scolastico basato sull'insegnamento in lingua basca e sullo studio della lingua e letteratura basca. Questo modello riprende completamente, nei suoi programmi, la struttura curriculare delle ikastolas.
M.T. Ci fu qualcosa che ti colpì oltre a questo fatto, in quel periodo?
B. Sì, la morte di una etarra che voleva uscire da ETA e fu
assassinata dai suoi stessi ex compagni.
M.T. Fai riferimento a Yoies?
B. Sì.
M.T. Perché il fatto ti colpì tanto?
B. Perché questo è stato l'ultimo atto di ETA che la gente non
voleva. Loro sono sempre stati così, se non la pensavi come loro ti venivano contro. E io questo non lo sopporto. Lo sai, anche mio cugino è in carcere a Madrid per aver partecipato al sequestro di un consigliere del PPE.
M.T. Oggi chi voti?
B. Bildu.
M.T. Pensi che abbia senso continuare a portare avanti rivendicazioni
etniche?
B. Sì, perché noi non abbiamo nulla a che fare con la Spagna, siamo
europei, ci spetta di diventare uno Stato europeo dentro l'Unione. Siamo i veri primitivi di Europa, l'archeologia lo dimostra, gli altri arrivano dall'Africa e dall'Asia. Noi eravamo qui prima di loro. Non abbiamo nulla a che fare con cristiani, ebrei, indoeuropei e mussulmani. Te lo ripeto: siamo noi i veri primitivi di Europa254.