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Il lavoro nella costruzione dell'immagine di sé

L'analisi della ricerca: aspetti trasversali

2.5. Il mercato immaginario e il lavoro che non c’è

2.5.1. Il lavoro nella costruzione dell'immagine di sé

Dalle interviste si rileva che, per le persone, lavorare contribuisce a costruire un'immagine di sé sicura e socialmente accettabile; ciò significa che ancora oggi, nonostante le forti trasformazioni culturali in atto a seguito del processo di globalizzazione, il lavoro svolge una funzione di riconoscimento del proprio ruolo sociale e della posizione che la persona ricopre all'interno del contesto sociale. L'etica del lavoro (Bauman 1998/2004), che assegnava valore al lavoro126, pare così essere, seppure in modo residuale, ancora presente. Lavorare è un'attività importante attraverso la quale la persona viene riconosciuta come soggetto attivo e, soprattutto, produttivo.

126 A proposito del principio del lavoro come valore risultano interessanti le seguenti osservazioni: “Quando gli americani affermavano a una voce che il lavoro era la fonte di tutti i valori, non ripetevano semplicemente un'ovvietà teoretica. La teoria del lavoro come valore non era soltanto un principio economico astratto in un paese in cui il contributo dei lavoratori al benessere generale aveva un aspetto, oltre che manuale, intellettuale” tratto da: Lasch 1995/1995, 54.

Secondo l'analisi elaborata da Weber il capitalismo deve essere basato sul libero scambio e quindi su un lavoro formalmente libero. L'impostazione di fondo, di matrice protestante, non vede nel lavoro una dimensione di piacere bensì una dimostrazione di capacità e di razionalità. La dimensione etica (e spesso moralista) risulta connessa all'idea che il lavoro va a gloria di Dio perché “da Dio stesso voluto” (Weber 1922/1965, 187). Il lavoro per lungo tempo è stato considerato (e, sotto certi aspetti lo è ancora) come elemento fondamentale per la propria affermazione sociale, come un mezzo per temprare il carattere per avere ed ottenere rispetto di sé. Chi non lavorava veniva considerato ozioso nonché povero127. Ne conseguiva che lavorare veniva – e viene ancora oggi - considerato un mezzo di rieducazione, di reinserimento. A tale proposito si pensi, ad esempio, ai diversi programmi di inserimento lavorativo sostenuti e realizzati dai servizi sociali e socio-sanitari a favore di persone portatrici di problematiche di diversa natura come ad es.: tossicodipendenza, alcoolismo, disagio sociale, salute mentale. Tali interventi perseguono l'obiettivo di re-inserire la persona tramite il lavoro. Il lavoro quindi non è solo mezzo per ottenere un reddito ma anche una dimostrazione della funzione sociale svolta. Il lavoro assume così un significato morale: chi lavora fa parte del contesto sociale, è inserito, mentre chi non lavora è un escluso che va guardato con sospetto perché non lavorare “non è normale” (Bauman 1998/2004, 20). Il lavoro è uno strumento che consente di rimanere nella comunità ma anche di essere riabilitato attraverso la sua pratica. Il possedere o il non possedere un lavoro sembra essere lo spartiacque del riconoscimento e della stima sociale; significa anche possedere o meno un ruolo sociale, essere qualcuno, essere visibile. Ecco che la situazione di vulnerabilità, che investe moltissime persone, significa anche rischio di invisibilità sotto il profilo sociale.

Tuttavia, oggi si assiste ad una profonda trasformazione del concetto di lavoro e dell'immagine del lavoratore. Pare, infatti, che non conti più in modo determinante il ruolo sociale dato dal tipo di lavoro svolto bensì il ruolo sociale attribuito in connessione alla capacità di guadagno. La società moderna partiva dal presupposto che il lavoro rendesse l'uomo libero e pienamente parte del consesso civile e per tale motivo veniva anche utilizzato a fini espiativi e riabilitativi. Secondo tale impostazione, la persona veniva socializzata al lavoro ed attraverso il lavoro; poteva così affermare la

127 Adam Smith, nel suo testo Ricerca sopra la natura e le cause della Ricchezza delle Nazioni, valuta gli oziosi e i poveri come una categoria inferiore di popolo. Si veda in particolare II.4.4 e II.4.5. dove l'argomento viene approfondito.

propria individualità e dimostrare di essere in grado di accudire sé e la propria famiglia. I ruoli che l'individuo svolgeva erano chiari e definiti così come i compiti che il contesto sociale richiedeva di svolgere; ruoli e compiti erano rigorosamente suddivisi in relazione alla differenza di genere.

Nell'ambito di tale cultura, come sopra detto in parte ancora presente, è conseguenza naturale che coloro che sono espulsi dal mercato del lavoro esprimano sentimenti di inutilità, emarginazione, inadeguatezza, fallimento:

“(omissis) ho fatto sempre la rappresentante” (omissis)“Non sono dispiaciuta perché l’ho fatto volentieri (si anima) anche perché non avendo studiato non potevo fare granché, questo grazie al mio non studiare mi ha fatto fare qualcosa che era di più piuttosto che andare in fabbrica, andare in ospedale a lavorare o qualcosa di simile, mi ha dato qualcosa in più, però adesso ho il meno. (omissis)” “ero sempre con la gente, con pubblico diverso (omissis) Allora ti gratificava perché insegnavi qualcosa… era così!” (omissis)“ho scelto … la strada sbagliata … ma quella volta mi serviva e mi piaceva e adesso, ormai … dopo la rappresentante cosa fai? Con tanta volontà che puoi avere ma non hai la capacità!” (Jolanda)

L'immagine del lavoro e dell'impegno in esso che sembrava l'asse portante della società moderna appare però essersi incrinata. L'opera di Thomas, Mann, “I Buddenbrok”, è premonitrice di un processo di decadenza di una società fondata anche sul valore del lavoro.

Con i mutamenti sociali che si sono verificati e, in modo particolarmente accelerato dagli anni '80, si assiste ad una radicale trasformazione del mercato e della cultura del lavoro. Il concetto di 'vivere per il lavoro' si trasforma ed assume nuovi significati. Il modello di società precedente viene considerato eccessivamente rigido, in particolare per quanto riguarda la divisione sociale del lavoro. La struttura economica-produttiva subisce forti trasformazioni e la centralità della fabbrica, quale luogo del lavoro per antonomasia, viene criticata. Cambia il mercato, cambia la struttura dell'impresa, l'economia informale cresce, aumenta la richiesta di flessibilità nel lavoro e nel tempo lavoro128 (Cesareo 1992). Si assiste ad una trasformazione dei processi di produzione con una deverticalizzazione e decentralizzazione delle imprese (Cesareo 1992). La stabilità del lavoro, la sua continuità e la fidelizzazione del lavoratore rispetto

128 Queste trasformazioni non coinvolgono esclusivamente la dimensione del lavoro ma tutti gli aspetti della vita sociale in quanto si è assistito ad una radicale trasformazione della società, per un approfondimento di tali aspetti si rinvia alla vasta letteratura in materia, non essendo il tema oggetto precipuo del presente lavoro.

all'impresa diventano caratteristiche vetuste. Ci si trova di fronte ad una situazione di forte disuguaglianza: il lavoro ‘garantito’ ormai è divenuto un bene scarso (Dahrendorf 1987/1988), un privilegio che coinvolge una sempre più ristretta fascia di persone; la precarizzazione connessa anche alle molteplici possibilità di contratti (si veda in Italia la cosiddetta ‘pacchetto Treu’ che nel 1997 introduce il lavoro flessibile e la legge Biagi129 che prevede nuove tipologie contrattuali); la forte concorrenza sul piano salariale di masse di disoccupati; il decrescere dell’offerta di lavoro, la delocalizazzione delle imprese; il crescente uso della tecnologia nei settori più disparati con una conseguente riduzione della manodopera ed una contestuale richiesta di manodopera specializzata, ecc. sono tutti elementi che influiscono sul mercato del lavoro e sulle forme del lavoro medesimo. Il mercato appare profondamente mutato rispetto al passato, periodo caratterizzato dal conflitto tra due classi (capitale e lavoro) contrapposte (Marx 1890/1973). Tale conflitto è stato, gradualmente, regolamentato con l'introduzione delle concertazioni collettive. Anche il termine classe operaia sembra ormai superato per le nuove forme di produzione, “evoca l’idea di una categoria di persone con un ruolo da svolgere in un consorzio civile cui fornisce un utile contributo e si aspetta una ricompensa adeguata” (Bauman 1998/2004, 101). Secondo alcuni Autori la società fondata sul lavoro e sulla contrapposizione è tramontata, a questa si è sostituita una società fondata sulle attività (Dahrendorf 1987/1988), sui consumi (Bauman 1998/2004, 1999/2000), flessibile (Cesareo 1992; Sennett 1998/1999).