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L’intervista come processo comunicativo

2. la seconda dimensione riguarda gli assistenti sociali del SSC, ente che

1.10. L’intervista come processo comunicativo

Come si è visto nel paragrafo precedente, l’intervista in profondità è una tecnica, nell’ambito delle interviste ermeneutiche (Diana, Montesperelli 2005) tipiche della ricerca non standard e può essere utilizzata quando si desidera approfondire un determinato argomento. Uno dei punti cruciali verte sulla modalità con cui tale tecnica viene utilizzata da parte dell’intervistatore. L’intervista, infatti ,‘accade’ in un contesto e in un tempo precisi e coinvolge in un’iterazione continua intervistato e intervistatore, è un processo sociale (Gianturco 2004, 71) che investe dimensioni personali, soggettive, ma anche sociali. L’intervista in profondità è caratterizzata dalla non direttività tipica invece della ricerca standard e ciò per il ruolo fondamentale dell’intervistato, ruolo particolarmente attivo in questi contesti di intervista.

Rispetto ai fini del presente studio interessa esplorare la realtà dell’intervistato, così come egli la vive e come da lui viene espressa. Pertanto, tutto ciò che viene trasmesso nell’intervista (verbale e non verbale) è importante per l’intervistatore; i contenuti e la modalità con cui questi vengono rivelati (modalità di comunicazione, forme linguistiche, tono di voce, pause, gestualità, ecc.) sono informativi. Per questo l’intervista non è unicamente un processo comunicativo che coinvolge due o più soggetti ma è una comunicazione complessa nella quale l’intervistato intreccia segmenti di vita, collega riflessioni e fatti in un movimento continuo, non lineare, narra di sé e di conseguenza assume un doppio ruolo: quello di soggetto che narra e quello di protagonista della storia narrata (Eco 1994/2003). Pertanto la modalità di conduzione dell’intervista è importante nel favorire o meno lo sviluppo della conversazione e influisce sul suo andamento.

In un contesto comunicativo di questo tipo un approccio di tipo lineare, che fa parte della logica razionale, non può essere esaustivo e soddisfacente in quanto non riesce ad entrare nel sistema comunicativo che si va realizzando ed a cogliere le diverse sfaccettature che si presentano. Sclavi (2003, 36) sostiene che quando si è parte di un sistema complesso “bisogna passare a un’altra abitudine di pensiero guidata dall’ascolto attivo, interessata alle cornici e premesse implicite, che considera l’osservatore parte integrante del fenomeno osservato, circolarmente e autoriflessivamente”. Pertanto, è necessario prestare forte attenzione quando ci si immerge nella vita quotidiana di una persona che è sempre portatrice di una cultura differente.

Effettuare delle interviste in profondità con persone con esperienze di vita multiformi su un argomento quale quello della povertà comporta, necessariamente, l’immergersi nel contesto della conversazione al fine di poter cogliere la costruzione di senso della persona. È necessario, allora, adottare una modalità di ascolto attivo, che non dà per scontato e per ovvio nulla di ciò che accade nella e durante la narrazione, modalità che appare essere più adeguata a contesti in cui le premesse implicite sono diverse e contrastanti (Sclavi 2003). Tale approccio richiede che l’intervistatore si interroghi su come l’interlocutore vede il mondo, sul suo processo di costruzione sociale della realtà e sui significati che la persona attribuisce alla sua esperienza. Presuppone un’osservazione partecipante e un’interazione attiva. L’intervista quindi è una situazione di interazione sociale dove l’intervistato parla di sé all’intervistatore, che è uno sconosciuto. Attraverso la narrazione la persona trasmette ricordi, vissuti, esperienze e fantasie ma anche esprime la propria cultura, la rappresentazione che ha di sé44. Secondo il pensiero di Berger e Luckmann il prototipo dell’interazione sociale è la situazione face to face. Gli Autori ritengono che “solo un rapporto personale diretto può metterci a contatto con la soggettività di ciascuno. [omissis] Nell’incontro diretto l’altro è pienamente reale” (Berger, Luckmann 1963/1966, 51). Se da un lato le relazioni faccia a faccia sono flessibili, dall’altro lato sono anche influenzate dagli schemi di tipizzazioni (ibidem, 53) che usiamo nelle nostra vita quotidiana e nell’incontro con l’altro. La persona può desiderare di offrire una determinata immagine di sé o quella che immagina che il suo interlocutore (in questo caso l’intervistatore) si

44 Bichi (2007, 48-49) afferma che “parlare di sé a un altro – è questo il compito dell’intervistato – è uscire da se stessi, progettare ed esprimere coerenza, razionalizzare e prendere le distanze in un lavoro che tiene conto del passato, che fa i conti con la memoria, che mescola il vero, il vissuto, l’appreso, l’immaginario. Le tradizioni e le rappresentazioni sociali esistenti, inoltre, agiscono come selettori rispetto all’esperienza e ne fanno emergere, nella memoria, alcuni aspetti a preferenza di altri”.

aspetti. Nell’interazione sociale diretta va, pertanto, tenuto conto che il modo in cui io percepisco l’altro influenza il modo in cui interagisco con lui e ciò vale altrettanto per l’interlocutore. Per Goffman (1959/1969; 1961/2003) l’interazione sociale è un sistema autonomo di comunicazione che dà vita alla scena sociale di cui fanno parte i soggetti con i loro atteggiamenti, sentimenti, ecc. Nell’analogia che questo Autore opera tra vita reale e scena teatrale, offre un’immagine drammaturgica della scena sociale. Ogni soggetto, infatti, nell’interazione rappresenta un ruolo che svolge in modo fisso e per far ciò possiede un “equipaggiamento espressivo di tipo standardizzato che [omissis] impiega intenzionalmente o involontariamente durante la propria rappresentazione” (Goffman 1959/1969, 33). Altri autori (si vedano ad esempio Demazière, Dubar 1997/2000) ritengono che il linguaggio esprima rapporti di forza, di dominio ed evidenziano il fatto che il linguaggio proprio perché soggettivo maschera le cause reali dei comportamenti.

In tutto ciò il linguaggio ha una funzione fondamentale e, per poter comprendere la realtà della vita quotidiana delle persone, è necessario comprendere il loro linguaggio (Berger, Luckmann 1963/1966) che nell’interazione diretta ha un carattere di reciprocità e rende più reale la soggettività di entrambi i comunicanti. Attraverso il linguaggio si è in grado di presentificare esperienze lontane in senso spazio-temporale ma anche in senso sociale. Il linguaggio ha, quindi, un potere di trascendenza e di integrazione (Berger, Luckmann 1963/1966) e va interpretato anche come il prodotto di relazioni tra azioni, in quanto, secondo, la teoria dell’Agire Comunicativo di Habermas (1981/1986), l’agire comunicativo, a differenza di quello tecnico-strumentale, è orientato al reciproco comprendersi.

Gli studi di Bateson (1972/1987) e degli studiosi della Scuola di Palo Alto (Watzlawick, Beavin, Jackson. 1967/1971) offrono un’ulteriore prospettiva all’analisi della comunicazione. Non solo tutto è comunicazione, ogni comportamento dell’individuo, ma in ogni comunicazione c’è un doppio aspetto di contenuto e di relazione ed è quest’ultimo che connota, dà ‘colore e sapore’ al primo. La meta-comunicazione aiuta nell’interpretazione del linguaggio e quindi la dimensione della comunicazione non verbale nei suoi molteplici aspetti (tono di voce, gestualità, cinesica, mimica, postura, prossemica, ecc.) ci offre indicazioni importanti su come l’interazione può essere letta; ma anche la comunicazione verbale negli aspetti linguistici, come scelta delle parole, uso delle pause, reiterazioni, ritmo accelerato o, viceversa, ritmo lento, uso di metafore o di ironia, ecc. ‘spiega’ la natura di quella interazione. Diventa

quindi importante non solo ciò che viene detto ma, in particolare, come viene detto (Watzlawick, Beavin, Jackson. 1967/1971; Volli 2007) in quanto attraverso la parola si attribuisce senso alla nostra esperienza.

La comunicazione45 che si realizza durante un’intervista in profondità assume quindi una valenza particolare; infatti è un momento in cui viene messo ‘un bene in comune’46 che non è unicamente costituito dall’oggetto dell’intervista ma dall’incontro di due mondi: quello dell’intervistato e quello del ricercatore. Si costituisce così un rapporto denso anche di significati emozionali. Galimberti afferma che le parole che si pronunciano nella lingua madre sono un “qualcosa che si dice, che si ascolta e che si intende, perché si vive in quel mondo di cui quella lingua è lingua. La carica emozionale che rivestono le parole della lingua madre non è mai traducibile in un’altra, per cui, al limite, possiamo parlare più lingue, senza giungere al fondo della comunicazione, perché non viviamo il mondo che nelle altre lingue si esprime” (Galimberti 1983, 183) ciò è ancora più vero nel caso in cui l’intervista si svolga con persone straniere che debbono operare un’ulteriore mediazione - oltre quella ‘dall’interno all’esterno’ attraverso la rielaborazione verbale di ciò che vivono e si rappresentano - quella tra la lingua madre (lingua degli affetti) e la lingua del Paese dove sono stati accolti (lingua dell’estraneità).

Durante l’intervista in profondità va utilizzata - mutuando Sclavi - l’arte dell’ascolto (che richiama l’idea della creatività più che delle tecniche) accompagnata da un atteggiamento di genuina curiosità47, un atteggiamento cioè interessato a conoscere, a scoprire, ad apprendere: ciò favorisce un clima confidenziale e rende più fluida la conversazione48. L’ascolto è un’attività che richiede impegno, sforzo; è una tensione che chiama in causa tutti i percettori del nostro corpo. Per questo è importante che durante l’intervista siano il più possibile ridotti i rumori (Eco 1992/2002; Diana, Montesperelli 2005) cioè tutti quegli elementi che possono essere di disturbo

45 A tale proposito Demaziere, Dubar (1997/2000, 5) affermano che “le interviste, infatti, non ci danno mai ‘fatti’ ma ‘parole’. Queste parole esprimono ciò che il soggetto vive o ha vissuto, il suo punto di vista sul ‘mondo’, che è il suo ‘mondo’ e che egli definisce a modo suo mentre lo valuta e tenta di convincere l’interlocutore della sua validità. E alla scoperta di questi ‘mondi’ sono appunto destinate le interviste di ricerca incentrate sui soggetti che hanno accettato il dialogo.”.

46 Comunicare deriva etimologicamente dal latino communicare che deriva da communis ‘comune’ (Devoto 1999).

47 Su questo aspetto Marradi (2005, 44), sostiene che: “…l’intervistatore deve innanzitutto nutrire una genuina curiosità per i suoi simili che lo induca a prestare attenzione a ogni dichiarazione dell’intervistato e a tentare di inquadrarla nell’immagine che via via si va costruendo di lui.”.

48 “Un genuino interesse per l’intervistato ispirerà la giusta disposizione all’ascolto e aiuterà ad impostare il colloquio con una conversazione piuttosto che come un’intervista.” (Marradi 2005, 45).

all’intervista medesima. Se la comunicazione verbale porta in sé dei codici per cui è più chiara alla nostra comprensione, è vero anche che ci possono essere codici differenti (ad esempio nel caso di persona straniera o di persona che si esprime in dialetto). Inoltre, presenza di elissi, polisemie, uso di sospensioni di frasi, ecc. possono essere fonte di ambiguità che non sempre è possibile chiarire. Inoltre, i codici non verbali sono portatori di una propria ambiguità in quanto sono fortemente soggetti all’interpretazione dell’ascoltatore, che li decodifica in relazione alla propria mappa concettuale e in relazione a come vive l’esperienza dell’intervista (in generale e nella specifica situazione). Tono di voce veloce/lento, alto/basso, fluidità nel narrare/frequenti pause, silenzi, gestualità accentuata o ridotta accompagnano l’intervista e possono essere esemplificativi e chiarificatori o, viceversa, gettare coni d’ombra ed essere fonte di ambiguità e contraddizione. Anche la sequenza narrativa (ordine di importanza degli argomenti ma anche ordine differente rispetto all’ordine cronologico), la sottolineatura di certi argomenti rispetto ad altri, la carica emotiva di alcune sequenze, il contesto in cui si svolge l’intervista sono elementi che non vanno trascurati. L’intervistatore quindi “dovrebbe considerare ciò che viene detto in una intervista come un elemento entro un più vasto contesto, col corollario che egli non dovrebbe fare attenzione esclusivamente al contenuto manifesto, ma dovrebbe cercare i significati che si nascono dietro di esso” (Madge 1962/1966, 264) proprio perché durante un’intervista c’è un flusso continuo di messaggi veicolati da canali e codici diversi e la stessa struttura narrativa si plasma in corso d’opera. La comprensione perfetta rimane, pertanto, un’ideale a cui tendere e il fraintendimento è parte dell’intervista medesima. E’ importante essere consapevoli delle “proprie supposizioni [perché solo così] si può scorgere la diversità nelle pre-supposizioni dell’altro; e solo riconoscendo questa diversità permettiamo che l’altro dica qualcosa di nuovo” (Diana, Montesperelli 2005, 32).

L’intervista non ha, però, solo una dimensione metodologica e tecnica ma anche etica49 nel rispetto e nell’accoglienza dell’altro, come soggetto con una propria

49 “C’è poi un motivo etico per ascoltare quello che ci vuole dire l’intervistato: il tempo che gli chiediamo è il suo, la vita di cui gli chiediamo è la sua; quindi è giusto e doveroso ascoltarlo quando dice quello che gli sta a cuore.” (Marradi 2005, 188).

Sul tema delle dimensione etica dell’intervista si rinvia all’ampia letteratura in materia nonché al codice deontologico, con particolare riferimento all’art. 2 co. 2 e art. 3 co.2.1 elaborato dall’Associazione Italiana di Sociologa (AIS) (disponibile sul sito internet http://www.ais-sociologia.it) ed a quello elaborato dall’American Association for Pubblic Opinion Research (AAPOR) nel 1986 e rivisto nel 2005 “Code of professional ethics and practices” disponibile sul sito internet http://aapor.org oltre che alla normativa in tema di privacy più volte citata nel presente capitolo e ad altri codici professionali quali: quello degli assistenti sociali istituito con la Legge 23 marzo 1983 n. 84 con particolare riferimento all’art. 11 e al capo III Riservatezza e segreto professionale; quello degli psicologi approvato nel

individualità e portatore di una propria storia, che offre la disponibilità ad un incontro dove ‘si espone’ in quanto espone, mette in mostra la propria realtà di vita (o uno spaccato di questa). Con l’intervista in profondità si entra nel mondo della persona e questo mondo va ascoltato con rispetto e ‘maneggiato’ con cura riconoscendo la disponibilità e l’opportunità che la persona offre.