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Di lì a poco, tuttavia, tanto le politiche di pareggio di bilancio, quanto quelle di riduzione della pressione fiscale ebbero a doversi misurare con un profondo stravolgimento del quadro internazionale e delle susseguenti scelte di politica interna ed estera, su tutte la partecipazione al primo conflitto mondiale.

Già alla vigilia di tale conflitto la finanza pubblica evidenziava un trend negativo con un progressivo aumento dell‟indebitamento, non adeguatamente supportato da un corrispondente incremento delle entrate fiscali, tra le quali, degna di nota figurava l‟assenza di un‟imposta personale e progressiva sul reddito, la cui istituzione, come autorevolmente rilevato da Luigi Einaudi, già a quel tempo, “avrebbe potuto, in quell‟ora, rendere magnifici servizi”516

. Fu così che dopo circa tre lustri di esercizi sostanzialmente in pareggio, il 1914 si chiuse con una perdita che, benché di modesta entità, costituiva certamente il primo segnale di

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Dal suffragio erano comunque ancora escluse le donne.

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Così, L. EINAUDI, La guerra e il sistema tributario italiano, Laterza, Bari, 1927, pagg. 78- 79.

una tendenza ormai in atto517, preludio dunque di un corso ineluttabilmente destinato a rinfrancarsi con il coinvolgimento del Paese nella Grande Guerra. In seguito, invero, le cose non migliorarono: con conseguenze nondimeno destinate poi a riflettersi sugli anni venturi, il sostegno allo sforzo bellico richiese infatti, anche dal punto di vista finanziario, l‟assunzione di decisioni delicate, quali un massiccio ricorso al debito pubblico, cui si cercò di far fronte attraverso una maggiore emissione monetaria, responsabile di una generalizzata lievitazione dei prezzi, ed un incremento della pressione fiscale518.

Sotto quest‟ultimo aspetto, mentre a livello centrale si provvide all‟istituzione di diversi tributi – quali i monopoli commerciali, la tassa di bollo sugli scambi, l‟imposta complementare sui redditi superiori a lire 10.000, le imposte sui beni di

lusso, il centesimo di guerra, l‟imposta sull‟esenzione dal servizio militare, il contributo personale straordinario di guerra – a livello periferico, il relativo

sistema finanziario era, per un verso, essenzialmente costituito da tributi autonomi, da addizionali e da compartecipazioni al gettito di tributi erariali o di altri Enti, per l‟altro connotato da una scarsa manovrabilità, e come tale inidoneo a plasmarsi alle accresciute esigenze di spesa e ad assicurarne, in tal modo, la doverosa corrispondente copertura.

Tuttavia, tanto in ambito nazionale, tanto in quello locale, le suddette misure si rilevarono carenti nel far fronte a simili fattispecie di fabbisogno finanziario, sicché ad esse ne seguirono altre, variamente tendenti a porvi rimedio, mediante l‟ulteriore introduzione di nuovi tributi, l‟inasprimento delle aliquote di quelli già esistenti ed una parziale decentralizzazione dei medesimi. Ma, sol che si consideri come, nel quadriennio compreso tra il 1915 ed il 1919, ben il 73% delle spese annoverate in bilancio fosse precipuamente riconducibile ad oneri di guerra, ben si comprende come, parimenti, dal carattere parziale, si dimostrò

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In effetti, principale artefice di questa rinnovata tendenza era indubbiamente riconducibile alla guerra in Libia.

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La delicatezza del contesto operativo ben si evince da contributo di P. FRASCANI, Politica

economica e finanza pubblica in Italia nel primo dopoguerra (1918-1922), Giannini, Napoli,

1975, pag. 20: “l‟economia italiana viveva un momento difficile non solo perché si trovava esposta in misura maggiore di quella di altri Paesi agli effetti della sfavorevole congiuntura internazionale, ma anche perché l‟espansione delle spese militari aveva cominciato ad incrinare dall‟interno l‟equilibrio finanziario prebellico”.

l‟attitudine di tali interventi nel risolvere la situazione. In particolare, l‟insufficienza delle entrate fiscali, nel provvedere in tal senso, rese di fatto obbligata la strada del progressivo ricorso all‟indebitamento. Questa circostanza, unita alle inevitabili conseguenze di un conflitto vissuto sul proprio suolo, restituirono un Paese da ricostruire, profondamente segnato sotto il profilo produttivo, con una disoccupazione diffusa, un‟inflazione galoppante ed un debito pubblico caratterizzato non solo dalle sue ingenti proporzioni, ma anche dalla graduale perdita di valore dal medesimo subita, con conseguenti gravi esposizioni in danno dei vari risparmiatori.

Fu così che, sin da prima che la guerra avesse termine, il prodursi di simili frangenti spinse i diversi Esecutivi nello sforzo, a volte infruttuoso, di elaborare vere e proprie riforme dell‟ordinamento tributario, tanto erariale, quanto locale. In quest‟ottica, tra i primi e più organici tentativi vanno senz‟altro annoverati quelli avanzati da Filippo Meda, allora Ministro delle finanze durante i due successivi Governi Boselli519 e Orlando520. Costui, in effetti, propose due disegni di legge521 volti, come già accennato, ad innovare profondamente sia il sistema impositivo statale, sia quello periferico.

Per quel che attiene al primo dei due ambiti, la riforma, fondamentalmente, puntava ad introdurre un‟imposta normale sui redditi522, un‟imposta sul

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Insediatosi dal 18 giugno 1916 al 30 ottobre 1917.

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In carica dal 30 ottobre 1917 al 23 giugno 1919.

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Il riferimento corre al disegno di legge organico completo di riforma dei tributi diretti, cui seguì il disegno di legge “Riforma generale delle imposte dirette sui redditi e nuovo ordinamento dei tributi locali”. In proposito, cfr. Atti parlamentari, Camera dei Deputati, n. 1105, seduta del 6 marzo 1919.

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L‟imposta normale sui redditi era data dalla fusione delle tre imposte dirette allora vigenti: quella sui terreni, quella sui fabbricati e quella sui redditi da ricchezza mobile. Tali tributi confluivano dunque, costituendone parte integrante, all‟interno di una più ampia ed unica imposta generale sui redditi, laddove continuavano tuttavia ad essere distinguibili alcune tipologie di reddito, quali quelle da capitale (categoria A), da capitale misto a lavoro (categoria B), ovvero da solo lavoro (categoria C). E‟ rilevabile che, mentre queste ultime due categorie venivano sostanzialmente a coincidere con le corrispondenti categorie dell‟allora imposta di ricchezza mobile, la prima categoria riuniva invece complessivamente la categoria A dell‟imposta di ricchezza mobile, nonché l‟imposta sui fabbricati e quella sui terreni. Ad ogni modo, l‟imposta normale aveva carattere proporzionale, senza alcuna detrazione per i carichi di famiglia e con un cospicuo aumento dei minimi esenti da tributo.

patrimonio523, un potenziamento della disciplina sulla dichiarazione e, più in generale, un sistema tributario semplificato e maggiormente equo. A ciò si accompagnava dunque anche la proposta di istituire un nuovo tributo, definito imposta complementare progressiva sul reddito complessivo del contribuente, la quale andava a colpirne la sola parte disponibile, onde evitare carichi fiscali eccessivi per i ceti meno abbienti 524.

Per quel che invece riguarda il secondo dei due ambiti, il disegno di legge puntava ad accrescere l‟autonomia impositiva degli Enti locali: in favore dei Comuni era istituita un‟imposta sulle industrie, sui commerci e sulle professioni525, nonché riconosciuto il potere di sovraimporre fino a venti centesimi per lira sull‟imposta complementare; alle Province era invece accordata la possibilità di applicare un‟addizionale all‟imposta sulle industrie, sui commerci e sulle professioni, sino a un limite corrispondente alla metà della massima aliquota comunale. L‟introduzione del suddetto tributo comunale, unitamente a quello statale sul reddito complessivo faceva dunque venir meno la ragione della permanenza tanto dell‟imposta di famiglia, quanto di quella sul valore locativo, così ulteriormente contribuendo ad offrire una prima risposta all‟auspicata semplificazione del complessivo sistema tributario.

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Con lo scopo di offrire uno strumento tecnico per la discriminazione qualitativa dei redditi, questa imposta vedeva come soggetti passivi le persone fisiche, nella misura dell‟uno per mille sui patrimonio superiori a 10.000 lire, costituiti dai capitali investiti in terreni, fabbricati o in qualunque altra forma.

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Essendo, come detto, dal carattere progressivo, ma anche personale, tale imposta teneva conto delle particolari condizioni economico-sociali del contribuente, consentendo a quest‟ultimo di operare la deduzione delle spese sostenute e delle perdite subite nel corso dell‟anno per la produzione dei redditi, nonché dei tributi d‟ogni specie dovuti allo Stato, alle Province e ai Comuni (esclusa l‟imposta complementare e la patrimoniale) e, per tassare solo il reddito disponibile per il contribuente, del premio per le assicurazioni sulla vita, dei contributi disposti o per contratto a casse di assicurazione o di soccorso per malattie, sinistri, vecchiaia, invalidità o a casse di pensioni per vedove ed orfani, nonché, infine, la detrazione di una quota fissa di 500 lire per ciascun componente del nucleo familiare, incluso il capofamiglia. La detrazione non era tuttavia concessa dal 23° al 50° anno per chi non avesse prestato servizio militare, ovvero per i maschi che, giunti al 30° anno di età, non fossero coniugati o vedovi con prole. Per i non coniugati, di contro, non solo non era accordata alcuna detrazione, ma costoro venivano altresì gravati di 500 lire sul proprio reddito imponibile.

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Resta il fatto, però, che nonostante i buoni propositi evincibili dalle proposte normative in parola526, nessuna di queste riuscì ad essere licenziata dall‟organo legislativo, così di fatto lasciando ancora insolute le predette delicate questioni di cui il Paese e la collettività, loro malgrado, si facevano portatori.