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Fu così che solo all‟inizio degli anni settanta dello scorso secolo si aprì una nuova fase nell‟ambito del quadro fiscale in generale, ma anche nell‟ottica dei rapporti finanziari tra i vari livelli di governo. Tale fase venne inaugurata, da un lato, dalla definitiva creazione ed entrata in funzione delle Regioni a statuto ordinario, dall‟altro, dalla concomitante e conseguente rivisitazione del complessivo sistema tributario.

A tal fine, dapprima si provvide con legge n. 70/1970, recante provvedimenti finanziari per l‟attuazione delle Regioni a statuto ordinario, ad individuare una serie di risorse cui i neonati Enti territoriali avrebbero potuto attingere per lo svolgimento delle funzioni di propria competenza. Tra esse figuravano: tributi propri, trasferimenti statali confluenti in un fondo comune e alimentati con quote di gettito di tributi erariali, infine, ulteriori contributi specifici. Benché alla prima categoria di risorse fossero ascrivibili l‟imposta sulle concessioni statali di beni del demanio e del patrimonio indisponibile dello Stato situati nel territorio della Regione, la tassa sulle concessioni regionali, la tassa di circolazione e la tassa regionale per l‟occupazione di spazi ed aree pubbliche appartenenti alla Regione, lo scarso gettito dagli stessi assicurato rendeva manifesta la dipendenza degli Enti territoriali in parola dai trasferimenti statali e dai contributi speciali, tra cui spiccavano il fondo per i programmi regionali, nonché, soprattutto, il fondo sanitario nazionale.

In secondo luogo, il nervo del successivo intervento innovativo passò per l‟approvazione della legge delega del 1971577

che consentì l‟avvio di una vera e propria riforma tributaria imperniata su una completa rivisitazione degli strumenti impositivi erariali e periferici. Quanto ai primi, avrebbero in tal modo visto la luce tributi quali l‟IRPEF e l‟IVA; quanto ai secondi, medesima sorte sarebbe invece toccata all‟ILOR e all‟INVIM.

Procedendo con ordine, può dirsi come l‟imposta sulle persone fisiche, entrata in vigore a partire dal primo gennaio 1974, si sia fin da subito configurata, e si

577

Trattasi della legge 9 ottobre 1971, n. 825, recante delega legislativa al Governo della Repubblica per la riforma tributaria.

configuri tuttora, quale tributo certamente più rispettoso delle prescrizioni costituzionali, essendo dal carattere personale, diretto e progressivo. Vertente sul complessivo reddito del contribuente, la stessa pose fine a tutta una messe di altre esazioni aventi oggetto impositivo alquanto eterogeneo. Tra esse è bene ricordare: l‟imposta comunale sulle industrie, i commerci, le arti e le professioni, con la relativa addizionale provinciale; le sovraimposte erariali e locali alle imposte sul reddito domenicale dei terreni, ovvero sul reddito agrario, su quello dei fabbricati e sull‟imposta speciale sul reddito dei fabbricati di lusso, nonché sui redditi da ricchezza mobile.

L‟imposta sul valore aggiunto entrò invece in vigore giusto un anno prima, abolendo le imposte comunali di consumo e subentrando all‟IGE, con conseguente inibizione dei distorsivi effetti da quest‟ultima cagionati. Dalla natura indiretta, reale e vertente sul solo valore aggiunto dei beni e dei servizi scambiati, l‟IVA si poneva infatti quale imposta neutra rispetto alle scelte produttive/erogative dei vari operatori economici578.

L‟imposta locale sui redditi, dal carattere reale e proporzionale su tutti i redditi, eccettuati quelli da lavoro, il cui gettito, accertato dallo Stato, era rivolto a Comuni, Province, Regioni, Camere di Commercio ed aziende autonome, avrebbe dovuto configurarsi quale tributo sul quale i predetti soggetti avrebbero avuto il potere di manovrare le aliquote entro un range aprioristicamente determinato dalla legge statale. In verità le cose andarono molto diversamente: fin da subito non solo venne previsto che i relativi introiti sarebbero confluiti nelle casse erariali e non già locali579, ma di lì a poco si stabilì altresì che la misura dell‟aliquota sarebbe stata determinata in via uniforme dallo Stato, così spogliando le Istituzioni periferiche di qualsiasi potere di intervento pure in tale ambito580.

578

La neutralità dell‟IVA è garantita dal fatto che l‟imposta, pur essendo plurifase, non risente del numero dei passaggi del bene tra i vari soggetti economici e questo in virtù della detrazione d‟imposta sugli acquisti.

579

Cfr. art. 21 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 638.

580

Sul punto, dopo una serie di interventi normativi, si pervenne, con l‟art. 121 del Testo Unico delle imposte dirette del 1986, alla definizione ultima dell‟aliquota, fissata nella misura del 16,2%.

Almeno per ciò che riguarda quest‟ultimo aspetto, sorte analoga sarebbe toccata all‟altro tributo locale, l‟imposta sugli incrementi di valore degli immobili, il cui gettito, accertato a livello erariale, sarebbe stato destinato ai soli Comuni, cui era formalmente accordata la prerogativa di stabilirne le relative aliquote, poi di contro decise invece dallo Stato581. Il tutto, dunque, con buona pace per quegli originari intenti di perseguimento dell‟affrancamento finanziario periferico582

. Occorre, tuttavia, a questo punto evidenziare come la legge delega, al di là di queste due ultime importanti imposte, non precludesse affatto la via alla possibile istituzione di ulteriori tributi locali, essendo anzi plausibile e finanche auspicabile la possibilità, entro quattro anni dall‟entrata in vigore della stessa legge delega, di delineare, “con legge ordinaria, la disciplina delle entrate tributarie delle province e dei comuni, diverse da quelle previste nei precedenti articoli 4583 e 6584, in relazione alla riforma tributaria e alle funzioni e ai compiti che con un nuovo ordinamento risulteranno, assegnati, per legge, agli enti medesimi”585. Dacché, allora, l‟ulteriore grande pregio della legge delega in parola – oltre a quello di non porre limiti ad eventuali futuri interventi orientati ad un maggior affrancamento finanziario delle Istituzioni periferiche – consisteva non esclusivamente nell‟assicurare alle medesime un certo quantum di risorse, ma di sforzarsi, forse per la prima volta, di prescrivere la doverosa ricostruzione dell‟entità di tale quantum avendo riguardo alle concrete funzioni che le stesse erano chiamate ad assolvere586.

581

L‟INVIM colpiva invero gli incrementi di valore degli immobili, in caso di trasferimento, secondo aliquote differenziate in ragione della misura dell‟incremento di valore di cui l‟immobile stesso era giunto a pregiarsi. L‟imposta veniva così a fondarsi su tre scaglioni parametrati a valori di riferimento: fino al 20% del valore di riferimento, l‟aliquota variava dal 3% al 5%; dal 20% al 50% del valore di riferimento, l‟aliquota oscillava dal 10% al 15%; oltre il 200% del valore di riferimento, l‟aliquota si attestava tra il 25% e il 30%.

582

V‟è dunque stato chi, come V. VISCO, Il fisco giusto. Una riforma per l‟Italia europea, in Il

Sole 24 Ore, Milano, 2000, pag. 33, ha ravvisato che “tra i difetti di fondo” della riforma

tributaria del 1971, fosse rinvenibile, tra gli altri, “il totale accentramento del prelievo”.

583

Ove il riferimento correva all‟ILOR.

584

Ove il riferimento correva invece all‟INVIM.

585

Così recitava l‟art. 12 della legge delega n. 825/1971.

586

Come, infatti, giustamente ravvisato da S. STEVE, La riforma dei tributi locali, in G. POLA – M. REY (a cura di), Finanza locale e finanza centrale, Il Mulino, Bologna, 1978, pagg. 289- 306: “una meditata riforma dei tributi locali degli enti locali deve essere congiunta, nella presente situazione italiana, ad un riesame di tali enti e a una generale revisione delle strutture amministrative”.

Nel mentre di una sua compiuta implementazione, era poi la stessa fonte in disamina a preoccuparsi di non lasciare gli Enti locali in completa balia di un‟eventuale inerzia del legislatore delegato. Così, il relativo art. 14 veniva a statuire che “nei primi quattro anni di applicazione della riforma tributaria [fossero] attribuite dall‟amministrazione finanziaria ai comuni e alle province somme d‟importo pari, per il primo biennio, alle entrate riscosse nell‟anno 1971; per il secondo biennio alle entrate riscosse nell‟anno 1971 maggiorate annualmente del sette e cinquanta per cento” dei rispettivi precedenti tributi soppressi.

Anche la rinnovata considerazione di quest‟ultimo profilo, ci porta a cogliere appieno, ed in definitiva, quali fossero dunque i globali valori ispirativi della manovra: semplicità, efficienza, progressività, maggiore autonomia finanziaria periferica.

E‟ doveroso, ora, ravvisare come non tutti i suddetti obiettivi furono colti, in particolare, di essi, l‟ultimo. Di ciò ci si avvede sol che si ripercorrano le considerazioni in precedenza spese circa l‟effettiva messa a regime dei due grandi tributi locali neoconcepiti, o, più in generale della complessiva riforma stessa. Invero, la drammatica situazione in cui versava la finanza decentrata, almeno dal punto di vista del proprio grado di affrancamento rispetto a quella statale, non subì significative riscosse nemmeno dall‟istituzione di due esazioni locali che videro la luce nella seconda metà degli anni settanta dello scorso secolo. Il riferimento corre, da un lato, alla tassa sulle concessioni comunali587, dall‟altro, al canone per i servizi di disinquinamento delle acque588

. Le ragioni della mancata inversione di tendenza sono molteplici e da addebitarsi: quanto alla prima, essenzialmente dallo scarso gettito che da essa era possibile ritrarre;

587

Entrata in vigore a partire dal 1° gennaio 1979, essa fu istituita mediante d.l. 10 novembre 1978, n. 702, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 gennaio 1979, n. 3. Per maggiori ragguagli sulla natura del tributo, si rinvia a M. BEGHIN, Le concessioni comunali, in Trattato

di diritto tributario, diretto da A. AMATUCCI, 4 voll., Cedam, Padova, 1994, vol. IV, pagg.

509-513.

588

Istituito con legge 10 maggio 1976, n. 319. Per una più ampia analisi su questo tipo di esazione, si rinvia a G. FERRARA, Canone per la raccolta, depurazione e scarico delle acque, Maggioli Editore, Rimini, 1986.

quanto al secondo, dall‟assenza di qualsiasi ratio nel proporsi in tal senso589 , nonché dalla oscurità e volatilità della relativa normativa, più volte rimaneggiata e interpretata, in quanto inidonea alla esatta decifrazione dei soggetti passivi e della prestazione patrimoniale dovuta.

Tant‟è, che poi, di fatto, come è stato correttamente osservato, il risultato ultimo fu che, “decapitata l‟autonomia impositiva degli enti locali e, quindi, anche dei Comuni (i tributi vecchi e gloriosi, sia detto senza nessun rimpianto, erano stati abrogati, i nuovi uccisi nell‟incubatrice) fu abbandonato a se stesso anche il meccanismo che prevedeva trasferimenti erariali commisurati alle entrate realizzate negli ultimi anni di autonomia tributaria”590

.

Proprio l‟insufficienza dei trasferimenti statali – sommata alla carenza di risorse autonome e ad un‟inflazione che nel frattempo era tornata ad espandersi a ritmi sostenutissimi, fu alla base di un progressivo e crescente ricorso locale all‟indebitamento, il quale, al tempo, non soggiaceva a vincoli di sorta ed era pertanto disinvoltamente impiegato anche per far fronte a spese di parte corrente, con grave nocumento per gli equilibri finanziari di bilanci sempre più gravati da oneri negativi per interessi passivi e da disavanzi ormai fuori controllo.

16. I decreti Stammati ed il poderoso sistema di finanza derivata fondata