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L‟età giolittiana si innesta sulla fine della sinistra storica: anticipata da un primo governo transitorio, in un momento di indebolimento di Crispi, comincia propriamente dopo la crisi di fine secolo ed ha un breve seguito prima dell‟instaurazione del regime fascista. L‟inizio del primo ministero di Giolitti coincise sostanzialmente, come detto, con la prima vera disfatta del Governo Crispi, messo in minoranza nel febbraio del 1891 su una proposta di legge di inasprimento fiscale. In seguito, dopo una breve parentesi durante la quale il Paese fu affidato al governo liberal-conservatore del marchese Di Rudinì505, il 15 maggio 1892 a capo del Governo fu nominato Giovanni Giolitti, allora facente parte del gruppo crispino. Sennonché, il suo rifiuto di reprimere con la forza le

maggiormente concentrati nel Mezzogiorno e caratterizzati da una piena assoggettabilità al tributo; i secondi, presenti invece per lo più nelle aree centrali e soprattutto settentrionali del Paese, la cui popolazione, molto spesso dispersa nel contado, poteva sfuggire alla suddetta tassazione, normalmente esatta entro le sole cinta cittadine.

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Una chiara conferma dell‟incidenza decisamente maggiore assunta dal dazio consumo, quale fonte in entrata, per le Amministrazioni locali del Mezzogiorno, rispetto a quelle del Nord del Paese, è rinvenibile nel contributo di A. DE VITI DE MARCO, I moti siciliani, in E. ROSSI (a cura di), Un trentennio di lotte politiche (1894-1922), Tip. Cuggiani, Roma, 1930, ora pubblicato a cura di A.M. FUSCO, Giannini Ed., Napoli, 1994, pagg. 220-221 ed in quello di G. CARANO DONVITO, L‟economia meridionale prima e dopo il Risorgimento, Valecchi, Firenze, 1928, pagg. 280-285. Circa la perspicua sperequazione territoriale riconducibile al predetto tributo, si rammenti l‟ulteriore profilo segnalato da G. MARONGIU, Op. ult. cit., pagg. 54 ss., già tracciato nella precedente nota.

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proteste alimentate dalla crisi economica di fine secolo506, le voci che indicavano come propositore di una tassa progressiva sul reddito, e, infine lo scandalo della Banca Romana, che gli valse l‟accusa di aver coperto irregolarità fiscali507, lo travolsero in pieno facendogli crollare la base del consenso su cui poggiava la sua ancora giovane politica e lo costrinsero a dimettersi a poco più di un anno e mezzo dalla nomina, il 15 dicembre 1893.

Di fronte alle debolezze mostrate da Giolitti, appena dimessosi, gli elettori vollero di nuovo affidarsi al Governo repressivo di Crispi, per tentare di porre fine ai continui disordini causati dai lavoratori. La politica estera di Crispi, aggressiva e colonialista, lo portò in Eritrea, ma una serie di sconfitte, culminate con quella di Adua, per un verso ne causarono le dimissioni, per l‟altro lasciarono comunque dietro a sé un gravoso strascico costituito da un‟enorme mole di spese di carattere militare che andarono pesantemente ad intaccare gli equilibri della finanza pubblica e che solo sotto la successiva guida del Governo Rudinì, e del suo Ministro del Tesoro Luttazzi, ritrovarono la precedente e temporaneamente perduta quadratura.

L‟arco temporale che va da questo momento, ossia il 1896 al 1903, quando Giolitti ritornò a capo dell‟Esecutivo, è comunemente indicata come la “crisi di fine secolo”: un periodo di forte instabilità, connotato da un sensibile aumento della tensione sociale e politica che si tradusse in una continua successione, o comunque rimescolamento, dei Governi allora in carica.

Tra i maggiori avvenimenti che ne furono all‟origine possono senz‟altro annoverarsi le numerose proteste popolari avverso un generalizzato, e non più sostenibile, aumento dei prezzi, specie dei generi alimentari, e dei farinacei, più in particolare. E‟ pur vero che, già nel 1894, si provvide all‟abolizione della tassa sul macinato e che, quattro anni più tardi, un nuovo intervento legislativo tentò di razionalizzare le esazioni denotanti affinità di oggetto imponibile508, ma è altrettanto vero che, pur a fronte di tali misure, i contribuenti non si erano

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Responsabile, fra l‟altro, di un generalizzato aumento dei costi di prima necessità.

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Prima con il suo Dicastero delle Finanze e poi con una costante riluttanza all‟apertura di inchieste parlamentari.

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comunque liberati dal giogo della tassazione sui generi di prima di necessità. Una tassazione che, invero, si era semplicemente traslata dall‟ambito statale a quello locale, ove, in effetti, ai Comuni era nel frattempo stata ad ogni modo concessa la prerogativa di accrescere le proprie addizionali, su quegli stessi beni, fino alla metà dell‟abolito dazio governativo509. Il diffuso malcontento non tardò a farsi sentire nelle piazze, ma nemmeno, innanzi ad esso, indugiò a manifestarsi la risoluta, impietosa e brutale risposta delle autorità: ai massicci interventi delle forze di polizia, e alla susseguente proclamazione dello stato d‟assedio, seguì poi il passaggio di potere ai corpi militari. Le conseguenze di tali scelte furono durissime, soprattutto a Milano, ove, incaricato dallo stesso Di Rudinì, il generale Bava Beccaris diresse il fuoco dell‟artiglieria contro la folla, causando almeno ottanta caduti510. La portata dell‟evento – unita allo scandalo riconducibile alla decisione di insignire di medaglia il generale, in relazione al successo dell‟azione appena posta in essere – produsse le ineluttabili dimissioni del Capo del Governo, cui successe il generale Pelloux.

Costui, in piena continuità con le precedenti politiche autoritarie e repressive, cercò di varare provvedimenti di chiara impronta liberticida, ma non riuscì a vederne la definitiva concretazione a causa del duro ed invalicabile ostruzionismo messo in campo dalle forze di opposizione. Di lì a poco, la sconfitta dal medesimo subita nelle elezioni del giugno del 1900 lo costrinsero alle dimissioni.

Fu così che, preso atto del completo fallimento delle suddette politiche, il re Umberto I affidò l‟incarico al senatore Luigi Saracco. La fase di instabilità tuttavia non accennò a chiudersi: un mese più tardi il sovrano veniva infatti assassinato dall‟anarchico Gaetano Bresci, succedendogli così al trono il figlio Vittorio Emanuele III; poco oltre, il 4 febbraio 1901, il pronunciamento di Giolitti alla Camera contribuì alla proprio caduta del Governo Saracco, responsabile di aver ordinato lo scioglimento della Camera del lavoro di Genova.

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Cfr. art. 12, TU della legge sui dazi di consumo, 15 aprile 1897.

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Già a partire dall‟Esecutivo Zanardelli511

, Giolitti ebbe una notevole influenza, che andava oltre quella propria della sua carica di Ministro degli Interni, anche a causa dell‟avanzata età del Presidente del Consiglio.

Il 3 novembre 1903 Giolitti ritornò al Governo, ma questa volta si risolse per una svolta radicale: si oppose, come prima, alla ventata reazionaria di fine secolo, ma lo fece dalle file della Sinistra e non più dal gruppo crispino, come era avvenuto fino ad allora. Questo cambiamento gli consentì di seguire un po‟ più agevolmente quella politica che si era proposto già all‟epoca del suo primo mandato: conciliare gli interessi della borghesia con quelli dell‟emergente proletariato, sia agricolo, sia industriale. A tal proposito, è notevole come Giolitti fu il primo a proporre l‟entrata nel suo Governo al socialista Filippo Turati, il quale tuttavia rifiutò, convinto che la base del suo partito non avrebbe compreso una sua partecipazione diretta ad un Governo liberale borghese. Nonostante l‟opposizione della corrente massimalista, in quel periodo minoritaria, Turati appoggiò dall‟esterno il Governo Giolitti che in questo contesto poté varare norme a tutela del lavoro512, sulla vecchiaia, sull‟invalidità e sugli infortuni. Tra gli ulteriori provvedimenti vanno poi menzionati quelli con cui si dispose la municipalizzazione, ossia l‟assunzione diretta da parte dei Comuni di pubblici servizi513, nonché una maggiore tolleranza dei Prefetti nei confronti degli scioperi, a condizione che non turbassero l‟ordine pubblico, ovvero, per altro verso, l‟ammissione, nelle gare d‟appalto, delle cooperative cattoliche e socialiste.

Nonostante ciò, gli scioperi che imperversarono negli anni 1901-1902, tanto nel settore agricolo, quanto in quello industriale, nonché sia al Nord, che al Sud del Paese, dimostravano che tutta la floridezza economica e le riforme giolittiane non arrivavano a incidere sulla precaria situazione della società italiana, soprattutto di quella meridionale, abbandonata a se stessa e presa in considerazione solo come serbatoio di voti. Il malessere continuava ad essere diffuso, segnatamente nel Mezzogiorno d‟Italia dove, anche a causa dell‟aumento demografico e ai

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Il quale restò in carica dal 15 febbraio 1901 al 3 novembre 1903.

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In particolare, di quello infantile e femminile.

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numerosi dissesti economici causati da gravi disastri naturali514, continuava la emorragia della emigrazione verso il Nord del Paese. Il Governo, che in un primo momento aveva ostacolato il flusso migratorio per non fare salire troppo i prezzi sul mercato del lavoro, in seguito vi diede via libera, favorendo la fuga all‟estero delle classi subalterne, soprattutto perché cominciava a temere le conseguenze di un‟aumentata pressione.

Durante questo mandato Giolitti continuò, essenzialmente, la politica economica già avviata nel suo secondo Governo, e si preoccupò di risanare il bilancio dello Stato con una più equa ripartizione degli oneri fiscali, in questo aiutato dalla congiuntura economica positiva dei primi anni del Novecento. L‟Esecutivo poté così dare il via, nel 1906, alla conversione della rendita nazionale, diminuendo il tasso d‟interesse dal 5% al 3,75%, e dando la possibilità, a chi non avesse accettato la diminuzione della rendita, di poter ottenere l‟intero rimborso dei capitali sottoscritti. Ben pochi furono, tuttavia, coloro che lo richiesero, segno della buona fiducia nelle finanze dello Stato. Questa era in realtà un‟operazione rischiosa, poiché, per quanto si potesse prevedere un certo panico tra i creditori dello Stato, le richieste di rimborso non erano facilmente prevedibili. Di fatto, comunque, ebbe successo, perché, come appena accennato, queste furono assai limitate e la possibilità di bancarotta fu ampiamente sventata. Ciò fu possibile perché la conversione della rendita provocò una generale diminuzione del costo del denaro che consentì di ottenere crediti ad un saggio di interesse più favorevole e, quindi, incontrò nutrito consenso.

Se per un verso, lo sviluppo economico si estese, in qualche modo, al settore agricolo, tutto questo favorì in misura certamente maggiore l‟impresa pesante, che risultava ancora arretrata a causa della mancanza, da parte degli industriali, dei grandi capitali che sarebbero stati necessari a svecchiarla. Oltre a ciò, la conversione della rendita centrò il suo scopo primario: far beneficiare virtualmente lo Stato di quella quota parte dei suoi debiti che, con

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Si ricordi, in proposito, l‟eruzione del Vesuvio del 1906 e il terremoto che devastò Messina e Reggio Calabria nel 1908.

l‟abbassamento del tasso, non era più tenuto a pagare. I proventi di questa manovra poterono così essere impiegati nell‟industria.

Su altro fronte, nel frattempo, la lira godeva di una stabilità mai raggiunta prima, al punto che sui mercati internazionali, la moneta italiana era quotata al di sopra dell‟oro e preferita addirittura alla sterlina inglese. E tutto questo nonostante gli ingenti esborsi di denaro pubblico per la realizzazione di grandi opere come l‟acquedotto pugliese, il traforo del Sempione, la bonifica delle zone di Ferrara e Rovigo. Accanto alla ormai completa nazionalizzazione delle ferrovie, infine, andò a collocarsi la proposta di nazionalizzazione delle assicurazioni, poi portata a compimento nel corso del quarto mandato.

Quest‟ultimo si estese dal 30 marzo 1911, al 21 marzo 1914, con un programma che cercò di coinvolgere il Partito socialista e che prevedeva la nazionalizzazione delle assicurazioni sulla vita e l‟introduzione del suffragio universale. Progetti, questi, di notevole valenza sociale, ed entrambi immediatamente realizzati515.