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Il sistema camerale tra autoriforma e riforma

Nel documento LAVORARE IN RETEPER LO SVILUPPO (pagine 45-48)

2. Il sistema delle Camere di commercio tra pubblico e privato

2.1. Il sistema camerale tra autoriforma e riforma

Per meglio valutare il contesto nel quale il progetto network si è collocato, i vincoli e le opportunità affrontati, è utile premettere alcu-ni riferimenti generali per inquadrare le caratteristiche e l’ambito di attività assegnato dal legislatore all’istituto camerale, integrati da una sintetica ricostruzione delle linee di intervento strategiche dell’Union-camere Emilia-Romagna. Come per tutti gli altri enti pubblici, anche per le Camere di commercio le competenze e i ruoli assolti nell’ordina-mento e le potenzialità per operare con efficacia ed efficienza vengono in buona sostanza definiti dalla legge e dai principi giuridici generali.

Anzi, come ben sottolineato – Chainian, 1998, pag. 4 –, “è proprio la normativa di riferimento che può segnare le sorti e l’importanza di un ente pubblico, indipendentemente dalla sua effettiva amministra-zione, mentre quest’ultima è responsabile dei successi o meno dello stesso nella misura in cui venga accordata una sufficiente autonomia gestionale ed un fine concretamente e stabilmente apprezzabile”. Per esigenze di sintesi, non si intende in questa sede approfondire in ma-niera esauriente la materia: rinviando alle tante pubblicazioni specia-lizzate dedicate alla natura giuridica, alle caratteristiche e alle fun-zioni delle Camere di commercio, ci si limiterà a richiamare alcune tendenze e traiettorie evolutive che possono contribuire a mettere in luce l’effettivo ruolo da esse assolto e le potenzialità di sviluppo, anche in rapporto con gli altri soggetti pubblici e privati.

Alla legge 29 dicembre 1993, n. 580 sul «riordinamento delle Ca-mere di commercio» va riconosciuto il merito di ridisegnare compiti e caratteristiche di questi enti. Ma negli anni Ottanta si avverte la consa-pevolezza che, per consentire all’istituto camerale di assolvere al meglio – in linea con le più significative esperienze europee – il proprio ruolo rispetto allo Stato, alle economie locali e al sistema delle imprese, si de-ve andare oltre le pur significatide-ve modifiche di prassi e comportamenti autonomamente perseguiti. Nonostante l’indubbio processo di adegua-mento alle esigenze delle imprese, attraverso la spinta del percorso di autoriforma pilotato da Piero Bassetti e Giuseppe Cerroni,

rispettiva-mente Presidente e Segretario Generale dell’Unioncamere, lo stereotipo di Camera trasmesso dalla normativa del 1934 – una sorta di prefettura preposta alle economie locali – appare da troppo tempo inadeguato e limita l’efficacia delle attività. Pesano le conseguenze del mancato varo di un testo organico di aggiornamento della normativa, al punto che quella delle Camere di commercio diventa il simbolo di una riforma continuamente annunciata e attesa ma che – come Godot, il noto per-sonaggio di Beckett – non arriva mai a destinazione. La questione della legge quadro entra in lista di attesa nel lontano 1944, quando un decre-to legislativo luogotenenziale demanda a una normativa da approva-re in tempi bapprova-revi l’adeguamento delle Cameapprova-re di commercio al nuovo ordinamento democratico, dopo la parentesi della trasformazione nel 1926 in “Consigli provinciali dell’economia” e nel 1931 in Consigli del-l’economia corporativa, presieduti dal Prefetto della Provincia (1).

Per quanto concerne l’articolazione dei poteri, il provvedimento del 1944 prevede di reintrodurre, richiamandosi alla normativa prefa-scista, il Consiglio di nomina elettiva che sceglie nell’ambito dei suoi componenti il Presidente e la Giunta; le regole per la composizione e l’elezione degli organi direttivi vengono tuttavia rinviate a un succes-sivo provvedimento. Per il periodo transitorio, l’amministrazione de-gli enti camerali resta affidata a una Giunta composta dal Presidente e da quattro membri (in rappresentanza del commercio, dell’industria, dell’agricoltura e dei sindacati dei lavoratori) nominati rispettivamen-te dal Ministro dell’Industria e dai Prefetti (2).

(1) Come sottolineato in uno scritto risalente al 1959, «con la caduta del fascismo e lo smantellamento del sistema corporativo il legislatore si trovò dinanzi ad un dilemma:

sopprimere gli organismi camerali in quanto espressione di un ordinamento giuridico ed economico ormai superato in relazione agli eventi bellici, ovvero far sopravvivere gli organismi stessi, conferendo loro nuovi indirizzi ed una nuova impostazione organiz-zativa, nel presupposto che, da un lato, non fosse più possibile un ritorno alle vecchie Camere del 1910 e del 1924, e dall’altro, che la riforma da esse subita sino al 1943 si dovesse considerare un portato della moderna evoluzione economica e sociale dello Stato e non la specifica applicazione di un clima politico determinato. Il legislatore si mostrò incline a ritenere utile e conveniente procedere alla ricostituzione anziché alla soppressione degli enti camerali, ma diede al problema di siffatta ricostituzione una soluzione che voleva essere di transizione e d’avvio a più radicali riforme degli enti, ma che doveva poi rilevarsi inconfacente, tanto più che, nonostante il notevole trascorso di tempo, le preannunciate riforme non hanno ancora visto la luce» (Molteni, pagg.

962-963).

(2) Successivamente, la composizione delle Giunte camerali viene integrata con i rappresentanti dell’artigianato e dei coltivatori diretti (in base alla legge n. 560 del 1951). Un ulteriore ampliamento è consentito dalla legge 1560 del 1956, che prevede la nomina di “membri scelti in altri specifici settori economici che rivestano nella circo-scrizione camerale particolare importanza”.

Ma le norme per l’elezione del Consiglio e per l’ordinamento ge-nerale delle Camere non vengono emanate. Non bastano certo ad ov-viare a questa situazione i parziali “ritocchi” e adeguamenti legislativi finalizzati a precisarne la fisionomia e i compiti. Al punto che, nella fase di attuazione della delega prevista dalla legge 382 sull’ordinamen-to regionale e sulla riorganizzazione della Pubblica Amministrazione, viene messo in discussione il ruolo stesso degli enti camerali. Mentre si stanno diffondendo timori e preoccupazioni a causa della ventila-ta soppressione dell’istituto camerale, un imporventila-tante contributo per cambiare rotta viene da un documento di autorevoli associazioni na-zionali (Confindustria, Confagricoltura, Confcommercio e Confarti-gianato). Nel documento, inviato al Ministero dell’Industria nel 1977, si sottolinea la necessità di “salvaguardare l’autonomia istituzionale e funzionale dell’istituto camerale”, si ravvisa “la causa prima delle difficoltà di funzionamento degli enti camerali” nelle “interferenze politiche” e nella “subordinazione alla logica di controllo politico”;

si esclude, come alternativa alle nomine ministeriali, il criterio del-l’elezione diretta “perché tale sistema presenta rilevanti difficoltà di attuazione e un impegno finanziario non indifferente” e si propone il meccanismo della designazione da parte delle associazioni.

Ma sulla scia del varo del d.P.R. 616 del 1977, per concretizzare il coinvolgimento delle Regioni a statuto ordinario ci si limita a preve-dere che per la nomina del Presidente, di spettanza del Ministro del-l’Industria (di concerto con quello dell’ Agricoltura), è richiesta l’inte-sa del Presidente della Giunta regionale. Ma ciò non basta a conciliare la fisionomia dell’istituto con il decollo dell’ordinamento regionale e si accentua, anzi, il carattere di provvisorietà dell’inquadramento degli enti camerali: il riordino generale delle Camere diventa, in altre pa-role, un tassello importante da collocare nella più ampia riforma dei

“rami bassi” dell’ordinamento repubblicano.

Una spinta per superare la situazione di stallo viene dalle innovazio-ni introdotte nel regime delle entrate delle Camere di commercio. Su iniziativa del Ministro del Tesoro Guido Carli, con la legge finanziaria per il 1990 viene modificata, con un’ottica congiunturale dettata dalla necessità di far fronte alle falle che si aprono nel bilancio dello Stato, la struttura dei meccanismi di finanziamento: si avvia l’azzeramento dei trasferimenti statali – che all’inizio degli anni Ottanta assicurano circa il 90 per cento delle entrate – e il corrispondente incremento del

«diritto annuale» pagato dalle imprese iscritte, destinate a diventare

per tale via le decisive finanziatrici dei bilanci camerali (3). Anche a fronte di queste modifiche, diventa sempre più ineludibile l’esigenza di un maggior coinvolgimento delle imprese e delle loro associazio-ni nell’impostazione delle attività camerali, per concretizzare il prin-cipio del no taxation without rappresentation (vale a dire “niente tasse senza il diritto di eleggere i propri rappresentanti”). Si rafforza, l’esigenza di un “ritorno al passato” sul versante della partecipazio-ne delle forze imprenditoriali alla composiziopartecipazio-ne degli organismi di direzione e, di conseguenza, all’impostazione delle attività camerali.

Quando l’onere per il finanziamento della Camera viene spostato qua-si senza requa-sidui sulle imprese, ancor più attuale diventa la questione di un parallelo riorientamento dell’asse del sistema camerale verso le imprese e le associazioni di rappresentanza.

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