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La distanza sociale nelle teorie dell’élite

3.4 Governanti e governati: distanza sociale ed élites

3.4.1 La distanza sociale nelle teorie dell’élite

Nell’analisi scientifica si distinguono due varianti principali della teoria dell’élite (Sola, 2000). Nella prima, di tipo sociologico, lo studio delle minoranze che possiedono in maniera significativamente più elevata rispetto al resto della popolazione una o più risorse positivamente valutate dalla società coincide con la teoria generale delle disuguaglianze e della stratificazione sociale, avendo ad oggetto l’eterogeneità e la differenziazione sociale. Nella seconda variante, più propriamente politologica, l’oggetto dell’indagine riguarda invece la distribuzione del potere politico. Certamente, questa distinzione analitica non si presenta nella realtà sociale in maniera così netta. Non di rado, infatti, si verifica una coincidenza tra élites sociali ed élites politiche. Oltre tutto, i processi di differenziazione ed eterogeneità sociale hanno un peso rilevante sulla formazione, l’estensione, la composizione, l’organizzazione e la legittimazione delle minoranze del potere. Non da ultimo, viene la riflessione di Bourdieu sulla omologia delle posizioni di dominio tra i vari campi dello spazio sociale, e sulla tendenza del dominio politico ad estendersi al di fuori dello spazio specificamente politico. Ciò nonostante, a fini analitici, rimane importante evitare la conversione automatica delle distanze sociali in distanze politiche, operando, quando possibile, una ricognizione delle molteplici élites presenti nella società e individuando, al loro interno, le meno numerose élites politiche. Seppure variegate al loro interno, le teorie delle élites

(politiche) si fondano sul comune assunto secondo il quale in ogni società la possibilità e il potere di prendere decisioni importanti sul destino comune è concentrata nelle mani di una ristretta minoranza, organizzata in vista di questo scopo. Si tratta del cosiddetto “principio minoritario”, per cui una minoranza che detiene il potere, anche se con fondamenti differenti di legittimazione, governa su una maggioranza che, priva di potere, è soggetta alla prima (Costabile, 2002).

Nella versione che ne danno i suoi fondatori,48 la distanza tra la minoranza al governo e il resto del corpo politico è imprescindibile ed ineliminabile: “in nessun caso la distanza tra governanti e governati, tra élite e massa, può essere colmata: la minoranza al potere è organizzata per mantenerlo, e la maggioranza è sempre troppo disorganizzata per fronteggiare le manovre dell’élite e per opporre consapevolmente ed efficacemente ad essa la propria volontà e rappresentanti autentici dei propri reali interessi” (Bovero, 1975, p. 10).

Pareto, Mosca e Michels non solo constatano che in tutte le organizzazioni sociali vaste e complesse vi è una minoranza che comanda ed un’altra che obbedisce, ma sostengono altresì l’impossibilità che la seconda imponga forme di controllo efficaci sulla prima tali da impedire l’affermazione di una classe dirigente che assuma decisioni anche contro il volere della maggioranza o a danno di essa.

La distanza di cui parlano gli elitisti classici ha, evidentemente, un carattere prevalentemente statico che ben funziona in una struttura sociale chiusa in cui il mutamento si presenta con ritmi ancora contenuti, il tipo di società, insomma, in cui si trovano a vivere i nostri autori, e che lentamente si sgretola davanti ai loro occhi. Parliamo del periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento, denso di trasformazioni economiche e progressi tecnici, ma allo stesso tempo travolto da crisi politica, morale e intellettuale: il trasformismo parlamentare in Italia, la continua minaccia della guerra, le preoccupazioni del ceto borghese al potere – che da poco aveva soppiantato le vecchie aristocrazie – per la domanda di inclusione politica delle masse, le manifestazioni operaie e sindacali e il pericolo socialista, sono alcuni dei fenomeni che caratterizzano il retroterra culturale e politico entro il quale operano i fondatori della teoria dell’élite.

Certamente le opere di Mosca, Pareto e Michels non sono in tutto convergenti, presentando dottrine differenti a seconda degli interessi e dei punti di vista di ciascun autore.

48 Le opere in cui si trovano le prime formulazioni sistematiche della teoria dell’èlite sono il Trattato di

sociologia generale (1916) di Vilfredo Pareto, gli Elementi di scienza politica (1896) di Gaetano Mosca e La sociologia del partito politico nella democrazia moderna (1911).

Poiché le elaborazioni di Michels, a differenza di quelle degli altri due autori, sono circoscritte allo studio delle élites di partito, in questa sede ci sembra opportuno tralasciare il suo contributo e limitarci a riportare brevemente solo i principali contenuti delle riflessioni di Mosca e Pareto. Il primo individua nella divisione della popolazione in “minoranza governante” e “maggioranza governata” la prima e fondamentale legge che regola la vita di ogni società. Contrariamente da quanto sostenuto da Aristotele nella sua antica tripartizione delle forme di governo (monarchia, oligarchia e democrazia), per Mosca esiste un solo tipo di governo: l’oligarchia. Per indicare la minoranza dirigente, Mosca usa il termine “classe politica” e indica nella capacità di organizzazione di tale gruppo la condizione essenziale per detenere un effettivo controllo del complesso sociale. Nella realtà della vita politica, infatti, una minoranza che sappia organizzarsi è sempre più forte di una maggioranza disorganizzata. Per tale ragione, il parlamentarismo, il socialismo e la democrazia sono da considerarsi esclusivamente come formule politiche utilizzate dalla classe politica per nascondere e legittimare l’effettivo dominio esercitato da una cerchia ristretta di persone.

Sulla formazione e la riproduzione della classe politica Mosca volge l’attenzione a due ordini di fattori: la trasmissione dell’autorità e il reclutamento dei membri dell’élite. Sul primo punto, egli distingue due principi che corrispondono a due meccanismi politici alternativi: il “principio autocratico” secondo cui la trasmissione del potere procede dall’alto verso il basso attraverso un’investitura che proviene dall’interno della stessa classe dirigente, e il “principio liberale” in base a cui i governanti ricevono l’autorità dai governati. Sul secondo punto, Mosca osserva due tendenze opposte che, anche questa volta, caratterizzano tipi opposti di società: la “tendenza aristocratica”, quando i nuovi membri della classe politica vengono reclutati dallo stesso ceto sociale da cui proviene la minoranza già al governo, e la “tendenza democratica”, quando l’oligarchia ammette al suo interno nuovi componenti di qualunque classe sociale.

La posizione conservatrice del Mosca dei primi scritti va mitigandosi con il tempo. L’ultimo Mosca, addirittura sembra anticipare alcuni temi dell’élitismo democratico allorché questo autore, contrariamente a quanto affermano molti del suo tempo, sostiene che l’opposizione tra élite e democrazia non è inconciliabile: la democrazia, infatti, non è altro che un regime politico che realizza una particolare costruzione e organizzazione della classe politica, per elezione dal basso e con possibilità di accesso aperte a tutti i cittadini.

Nei suoi studi Mosca attribuisce il motivo fondamentale del perché vi sia sempre una distanza tra una minoranza che comanda ed una maggioranza che obbedisce alla capacità di organizzazione della classe politica. Tuttavia, tale spiegazione non è esclusiva. Per quanto rilevante, per esercitare il potere minoritario, oltre all’organizzazione i membri della classe politica devono

possedere “qualità effettivamente superiori” (o che appaiono come tali) rispetto a quelle della massa. Alcune di queste qualità sono fisse – ad esempio “la capacità di lavoro”, la “costante volontà di innalzarsi e restare in alto” – e altre cambiano nel tempo essendo risorse socialmente rilevanti per ciascun popolo in epoche diverse – ad esempio il valore militare, la ricchezza, il merito personale, ecc. (Turi, 2006).

Seppure tenuti in considerazione, in Mosca i caratteri soggettivi dei membri dell’élite non sono il principale motivo di spiegazione della distanza tra governanti e governati. Diversa è invece l’impostazione di Pareto, il quale riconduce la spiegazione della distanza tra élite e massa ad una più vasta teoria psico-sociologica del comportamento umano, i cui veri moventi, che egli chiama “residui”, sono nascosti dietro le giustificazioni apparentemente razionali che gli uomini danno del proprio agire, e che egli chiama “derivazioni”.

È in questo contesto dell’agire sociale fondato sulle azioni non logiche, sugli istinti e i sentimenti e sul loro camuffamento paralogico che Pareto individua delle leggi universali valevoli per le élite: il principio dell’eterogeneità sociale e delle classi elette, e il principio della circolazione delle élite. Pareto osserva che, poiché vi è di fatto una diseguale distribuzione tra gli uomini di capacità, talento, doti e risorse individuali, nessuna società è omogenea, essendo, in ultima analisi, divisa in due grandi classi: la “classe eletta” o élite, composta da coloro che di volta in volta detengono il potere, e la “classe non eletta” che coincide con la maggioranza della popolazione.

Per poter comprendere i fenomeni politici e sociali e persino il mutamento, per questo autore è necessario comprendere il comportamento, e quindi i residui che lo determinano, dell’élite di ciascun sistema sociale. Pareto riconosce l’importanza preminente di due gruppi, o <classi> di residui: i “residui di classe I” - chiamati “istinto delle combinazioni” - si riferiscono alla creatività umana, alla tendenza al compromesso, fino al sotterfugio, all’inganno e alla corruzione; i “residui di classe II” - denominati “persistenza degli aggregati” – raggruppano tutte le tendenze alla stabilità, alla conservazione, all’intransigenza e al rifiuto dei compromessi. La classe dirigente migliore deve bilanciare i due aspetti, ma in realtà in ogni sistema sociale si afferma la prevalenza dell’uno o dell’altro gruppo di residui, fino a quando non si produrrà un ricambio dell’élite. In ogni caso, infatti, proprio perché la società umana è fondata sui residui-istinti, la circolazione delle élite, che si formano per doti naturali, è inevitabile, sia che questa avvenga per via graduale e pacifica sia che si realizzi in maniera improvvisa, violenta e rivoluzionaria. Resta comunque vero che eterogeneità sociale e circolazione dell’élite si sostengono vicendevolmente, in una società che ha i caratteri di un sistema meccanico in equilibrio mutevole (Costabile, 2002).

Il carattere realistico dei primi studi su questo tema e l’importanza attribuita dagli autori classici alla struttura e al funzionamento dell’élite per il sistema sociale e politico di ogni epoca storica

vengono riconosciuti nei decenni successivi da un numero crescente di altri studiosi i quali, con impostazioni diverse, si propongono di analizzare la struttura dell’élite in società oramai industrialmente avanzate, complesse e a regime democratico.

Dal periodo in cui scrivevano Mosca, Pareto e Michels in quasi tutti i Paesi dell’Occidente si è prodotto, infatti, il passaggio da ristrette élites aristocratiche e ascrittive a élites diversificate per provenienza sociale e politica, convinzioni, strategie e comportamenti.

La diversificazione comporta, tra l’altro, l’allargamento delle basi sociali dell’élite – a cui possono accedere anche esponenti delle classi inferiori – la modificazione dei percorsi di formazione e riproduzione delle categorie superiori – in cui perdono peso gli elementi ascrittivi e assumono rilevanza quelli acquisitivi, legati all’auto-affermazione e al prestigio personale di ciascun soggetto – l’articolazione tra élite economiche, culturali, scientifiche, religiose e politiche, collegata alla differenziazione e alla moltiplicazione e specializzazione di ruoli politici e istituzionali, che si traduce anche in stratificazione delle classi superiori. Gli effetti di questo insieme di fenomeni si traducono in modificazioni della distanza sociale tra gli attori dell’ordinamento politico, e, in particolare della distanza tra le classi superiori e quelle inferiori del sistema di stratificazione politica, al punto di consentirci di affermare che tutti gli studi e le ricerche che a partire dagli anni Cinquanta dello scorso secolo, soprattutto negli Stati Uniti, si concentrano sullo studio della distribuzione del potere politico nelle comunità locali e nelle società democratiche in generale, hanno in qualche modo attinenza con il tema della distanza sociale (strutturale) nella sfera politica.

Ciò è vero sia quando ci riferiamo al filone di studi dei neoelitisti, secondo il quale il potere sociale in generale, e il potere politico-amministrativo in particolare, hanno caratteri fortemente gerarchizzati e coesi che si strutturano in “piramidi di potere”49 sia quando guardiamo agli studi dei pluralisti o elitisti democratici, i quali smentiscono l’esistenza di un’unica élite dominante, strutturata e coesa, separata dal popolo e sostengono, invece, che la democrazia è il regime in cui esiste una pluralità di classi dirigenti la cui presenza, seppure resa necessaria dal livello di complessità della società, è condizionata e controllata dagli elettori e dalle associazioni politiche, che ne producono in tal modo il ricambio.50 In quest’ultimo caso, la distanza dei governati dai

49 Secondo l’indirizzo di studio dei neoelitisti, ristrette cerchie di persone sono detentrici della ricchezza

economica, del prestigio sociale e dei ruoli politici superiori. Queste posizioni di potere sono alimentate da un intreccio di relazioni privilegiate ed esclusive, chiamate “risorse cumulative”, che li separa dal popolo e dalla base. Rientrano in questo filone, ad esempio, gli studi di Hunter (1971) e di Wright Mills (1966)

50 Gli elitisti democratici, il cui caposcuola è Robert Dahl, si richiamano a Shumpeter e a Laswell, che

governanti non è incolmabile, ma si riduce, perde la sua rigidità e diventa estremamente fluida e variabile.

Vanno segnalati, ancora, tra gli studi sull’élite, quegli approcci che tendono a rilevare alcuni aspetti poco visibili della diseguale distribuzione del potere nell’ordinamento politico e sociale. Bachrach e Baratz (1986), ad esempio, parlano della dimensione del potere chiamata delle “non- decisioni”, la quale consiste nella possibilità che hanno alcuni leaders di definire l’agenda politica, e di escludere dall’ambito della discussione, della scelta e, quindi, dall’arena politica, le istanze, le domande e le proteste di individui e gruppi sociali meno tutelati. La non-decisione risulterebbe allora come azione di distanziamento tra le classi dirigenti superiori e tutti quei gruppi sociali privi di influenza e potere decisionale.

L’ultima prospettiva che menzioniamo è, infine, quella proposta da Lukes, il quale individua la manipolazione quale “forma radicale del potere”. La manipolazione viene intesa come “capacità di ottenere che un altro o altri si conformino alla nostra volontà mediante l’uso strategico di un’arte o di un’abilità” senza necessariamente implicare l’uso della forza, dell’inganno o del giudizio morale” (Lukes, 1992, p. 725). Il potere manipolatorio può consistere nell’ “induzione o allettamento”, cioè nella capacità di raggiungere i propri scopi o ottenere dei vantaggi attraverso offerte, corruzioni o la cooptazione di altri, o nell’ “influenza”, considerata come “la possibilità di condizionare la volontà, i desideri e le credenze degli agenti”.

Questa elaborazione è per noi interessante, poiché mette in luce alcune delle forme di azione poste in essere dagli attori sociali nel campo politico per modificare o mantenere la distanza sociale, offrendoci una chiave di lettura del fenomeno in analisi secondo una prospettiva dinamica.