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La politica tra spazio fisico e spazio simbolico

La costruzione di uno “spazio” è un fenomeno complesso che opera attraverso un intreccio di dimensioni simboliche e di potere. Queste chiamano in causa sin dalle origini la politica, prima ancora che essa venga storicamente a coincidere con l’azione dello Stato o delle organizzazioni “specificamente” politiche (Palano, 2007).

Il rapporto che la politica ha con lo spazio ha una valenza plurima. Le dimensioni di questo rapporto sono almeno due: una, più fisica e materiale, connaturata alla definizione del suo stesso fine (il governo di una società e del suo territorio), e l’altra, “immateriale” e simbolica, connessa ai legami di appartenenza, ai sentimenti di identità di una comunità politica.

La dimensione fisica dello spazio politico, ovvero l’elemento della territorialità, rappresenta un carattere imprescindibile, anche se non esclusivo, della politica. Il controllo dello spazio geografico è una delle poste in gioco del potere: la politica si dispone nello spazio, ne dispone e lo politicizza, producendo o strutturando la realtà e organizzando concretamente gli spazi di libertà, cittadinanza, vigenza del diritto, tracciando linee di esclusione, confini interni ed esterni, “centri” e “periferie”, articolando gli spazi del consumo e della produzione (Galli, 2001).

Nella teoria sociologica di Max Weber è la nozione stessa di gruppo politico prima, e di Stato poi, che richiama l’elemento caratteristico dello spazio fisico, il quale nel pieno dispiegarsi dell’organizzazione politica statuale assume le caratteristiche e la definizione di “territorio”. Per Weber un “gruppo politico” è un gruppo di potere la cui sussistenza (esistenza e durata) e validità delle sue regole sono garantite in maniera continua all’interno di un determinato territorio dall’impiego e dalla minaccia della coercizione fisica da parte di un apparato amministrativo. Nel passaggio che separa un gruppo politico da uno Stato, il richiamo all’elemento territoriale rimane invariato. Lo Stato è, infatti, sinteticamente definito come “quella comunità umana, che nei limiti di un determinato territorio – questo elemento del territorio è caratteristico – esige per sé con successo il monopolio della forza legittima” (Weber, 1971, pp. 47-8).

La spazialità fisica della politica è al centro dell’analisi di un altro autore: nel Nomos der Erde Carl Schmitt (1991) traccia un’ipotesi suggestiva sul legame costitutivo che esisterebbe tra terra e politica nella storia europea, ovvero un legame tra l’appropriazione di un territorio e la costituzione di una comunità politica. Secondo la prospettiva schmittiana, affinché una comunità politica possa esistere sono necessari quattro fattori fondamentali: l’insediamento stabile su un territorio e l’avvio di attività produttive stanziali; la delimitazione del territorio in confini (più o meno stabili e definiti nel tempo) in grado di fissare una barriera tra il “dentro” e il fuori”; la presenza di un nemico pubblico collocato o riconducibile all’esterno dei confini della comunità che ne

costituisce una minaccia reale o potenziale; la difesa dei confini da parte dell’autorità politica sovrana mediante l’uso (o la minaccia dell’uso) della forza fisica.

Il legame costitutivo tra politica e terra ipotizzato da Schmitt è stato però oggetto di numerose critiche, alcune delle quali hanno sottolineato come il legame con il suolo, la necessità di qualsiasi ordinamento concreto di imprimere nella terra i confini definiti che permettono la costituzione della comunità, non rappresentano aspetti costitutivi della politica, ma piuttosto elementi che emergono con il passaggio dalle società nomadi di cacciatori e raccoglitori alle società agricole (Miglio, cit. in Palano, 2007).

Da numerosi autori proviene il suggerimento di non considerare il rapporto tra politica e territorio in una chiave “naturalistica”, alla maniera di Schmitt29. Pur riconoscendo il ruolo fondativo della comunità all’atto della fissazione dei confini, infatti, viene rilevato come non sempre si tratta di confini materiali tracciati nella terra, o attraverso manufatti fisici, ma come spesso è più opportuno parlare di confini simbolici, confini che vengono percepiti tali dagli appartenenti alla comunità (Cella, 2006).

La questione ci introduce direttamente all’analisi della seconda dimensione della relazione tra spazio e politica: l’uso simbolico della geometria e del lessico spaziale nella fenomenologia e nei discorsi della politica.

Hannah Arendt (1958) sostiene che la polis greca trovava fondamento non solo nello spazio fisico, nei confini tracciati nel suolo o nelle mura della città Stato erette a difesa dai potenziali nemici, ma anche – e forse soprattutto – in uno spazio “immateriale”. Esso coincide con quella sfera della politica che nasce dalla condivisione di parole e azioni dei cittadini, dall’organizzazione delle persone, così come scaturisce dal loro vivere, parlare e agire insieme, indipendentemente dal luogo in cui essi si trovano.

Che lo “spazio politico” sia anche uno spazio simbolico, uno spazio di rappresentazioni spaziali implicite sulle quali si sorregge il pensiero politico (Galli, 2001), viene riconfermato dalla ricostruzione di Anderson (1991) a proposito dell’origine del nazionalismo moderno. Secondo tale interpretazione la nazione è una sorta di comunità politica “immaginata”: gli abitanti, infatti, pur non conoscendosi reciprocamente e senza essersi mai incontrati e parlati, sentono di essere comunità e questa immagine vive nella loro mente. La ricostruzione delle “comunità immaginate” comporta spesso un recupero (o un’invenzione) di antiche identità etniche e linguistiche, secondo dinamiche definite da Hobsbawm come “invenzione della tradizione” (Hobsbawm, Ranger, 1994) e che servono a rafforzare la contrapposizione noi/voi, dentro/fuori non tanto rispetto ad un confine fisico, quanto piuttosto rispetto al confine simbolico dell’identità.

La genesi delle “identità nazionali” non è un caso eccezionale, ma potrebbe essere considerata come una particolare espressione delle “iconografie regionali” definite dal geografo Jean Gottman (cit. in Palano, 2007) come il risultato della tendenza umana alla stabilizzazione (opposta e complementare alla tendenza alla circolazione, creatrice di cambiamento nell’ordine stabilito nello spazio). Le “iconografie regionali” rimandano principalmente a rappresentazioni simboliche per mezzo delle quali gli uomini possono fissarsi su un territorio, immaginandolo unitario all’interno dei propri confini e diverso all’esterno, garantendone, in tal modo, la stabilità politica e sociale. Le dimensioni materiali e simboliche dello spazio politico, di cui abbiamo finora trattato, si combinano, a partire dalla modernità, in maniera sempre più complessa, in architetture mutevoli, a volte contraddittorie, generando equilibri precari tra interno ed esterno, particolare e universale, ordine e movimento, formando delle geometrie politiche le cui distanze, di volta in volta, si concentrano, si comprimono, si allungano, si complicano producendo dei rapporti sempre mobili tra società e politica.