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La regola generale del conflitto di interessi

Nel documento LUISS - G. CARLI (pagine 161-165)

4. La disciplina del conflitto di interessi nella MiFID e la sua recente attuazione in Italia

4.1 La regola generale del conflitto di interessi

La MiFID rappresenta il punto di arrivo del tormentato processo di liberalizzazione per la costruzione del mercato unico nei servizi di investimento, che ha preso le mosse dalle strategie minime annunciate dalla Commissione Europea con il “Libro Bianco” del giugno 1985 e si è evoluto verso un grado di integrazione sempre più amplio e completo237. Obiettivo della direttiva è quello di

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Dato il carattere fortemente regolamentato del settore finanziario, il processo di creazione di un mercato unico europeo si è rivelato, sin dalle origini, particolarmente accidentato. Sull’iniziale ed ambizioso progetto di armonizzazione completa del diritto dei mercati finanziari, ovvero di produzione di norme uniformi destinate a sostituire la regolamentazione a livello nazionale, è prevalso un atteggiamento più pragmatico, sollecitato dalla celeberrima pronuncia della Corte di Giustizia nel caso Cassis de Dijon (sentenza

Rewe-Zentral, procedimento C-120/78. Racc. 1979, p. 649) e poi annunciato dalla Commissione Europea nel Libro

Bianco del giugno 1985. Tale “nuova” strategia si è tradotta nell’emanazione della seconda direttiva bancaria e della ISD, entrambe fondate sui principi cardine: (i) del mutuo riconoscimento, (ii) dell’armonizzazione minima, e (iii) del controllo del paese di origine. Come è noto, il principio del mutuo riconoscimento si sostanzia in una tecnica di integrazione negativa, ossia nell’obbligo, in capo a ciascuno Stato Membro, di non ostacolare la prestazione transnazionale dei servizi finanziari da parte di soggetti autorizzati nel proprio paese di origine in quelle materie in cui è stata raggiunta un’armonizzazione minima della regolamentazione. L’armonizzazione minima, a sua volta, si estrinseca in un tipo di integrazione positiva: nell’imporre agli Stati Membri, mediante lo strumento della direttiva, una regolamentazione che può essere modificata solo in senso più restrittivo, e sempre che ciò non comporti un irragionevole ostacolo al corretto funzionamento del mercato interno. Nelle materie armonizzate, la competenza regolamentare è suddivisa tra gli Stati Membri nel senso di assegnare al paese di origine, ossia a quello in cui l’impresa comunitaria ha la propria sede principale, il compito di regolamentare, vigilare e sanzionare l’impresa. I suddetti principi operano in pratica mediante il meccanismo del c.d. passaporto europeo, in base al quale ogni impresa di investimento autorizzata nel proprio paese di origine a svolgere determinati servizi finanziari è ammessa a prestare detti servizi in un altro Stato Membro, mediante stabilimento o libera prestazione di servizi, senza necessità di dover richiedere ulteriori autorizzazioni e sulla base di una mera comunicazione all’autorità del paese d’origine. Prima dell’entrata in vigore della MiFID, gli sforzi di armonizzazione comunitari si erano concentrati prevalentemente sulla procedura di autorizzazione e sulle regole prudenziali di stabilità (specialmente i requisiti patrimoniali delle banche e delle imprese di investimento), per le quali il principio

introdurre un livello di armonizzazione più elevato rispetto a quello minimo stabilito con l’ISD, così da superare quello che era stato identificato come uno dei maggiori ostacoli al processo di integrazione dei mercati mobiliari: la frammentazione della disciplina mobiliare238.

Coerentemente con questo obiettivo, il conflitto di interessi degli intermediari è trattato nella MiFID secondo un approccio che, pur riprendendo la regolamentazione per gradi che abbiamo visto caratterizzare la ISD, arricchisce la disciplina di ulteriori contenuti e specificazioni. Essa ha trovato recente attuazione nel nostro ordinamento con l’entrata in vigore nel 24 novembre 2007 del d. lgs. n. 164/2007 recante modifiche al TUF, che modifica considerevolmente la normativa sul conflitto di interessi degli intermediari mobiliari.

del controllo del paese di origine e del mutuo riconoscimento si applicano appieno. Diverso il discorso per quanto concerne le regole di condotta delle imprese di investimento ed in generale la regolamentazione c.d. transattiva, ossia quella che opera sul piano dei rapporti tra intermediario ed investitore. In questo campo, la norma fondamentale è l’art. 11 della ISD, che contiene tuttavia un grado di armonizzazione estremamente embrionale. Riconoscendo implicitamente che lo scarso livello di armonizzazione così raggiunto non fosse tale da giustificare l’applicazione del mutuo riconoscimento, il secondo comma dell’art. 11 assegna la competenza regolamentare a specificare i suddetti principi di condotta e a controllarne il rispetto allo Stato Membro in cui il servizio di investimento viene prestato, ossia al paese di destinazione anziché a quello di origine. Pertanto, a ciascuno Stato Membro viene riconosciuta la libertà di decidere le modalità più appropriate per raggiungere ciascuno degli obiettivi enumerati all’art. 11. Sul processo di armonizzazione ed integrazione del mercato mobiliare v. per tutti MOLONEY (2002).

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La norma si inseriva, peraltro, in un quadro già assai disomogeneo di regolamentazioni nazionali che riflettevano non solo le diverse tradizioni degli Stati Membri, ma anche il differente grado di sviluppo del settore finanziario. Lungi dal diminuire i costi di transazione dovuti al frammentato quadro regolamentare esistente, l’attuazione dell’art. 11 ha portato a soluzioni normative assai divergenti tra Stato e Stato, specialmente in materia di tutela degli investitori retails, con l’effetto di rendere estremamente difficoltosa e costosa la prestazione transfrontaliera di servizi di investimento. In particolare, la sovrapposizione tra le competenze regolamentari del paese di origine e del paese di destinazione è tale per cui un’impresa che intenda offrire i propri servizi finanziari in una pluralità di stati comunitari è chiamata ad adempiere a ciascuna normativa nazionale, oltre che alle disposizioni del proprio ordinamento. Per valutare la complessità del quadro normativo basta considerare come, a seconda dello Stato Membro in cui il servizio è prestato, le regole di condotta possono assumere una qualifica, una efficacia giuridica e un grado di specificazione differenti. Se in Germania, ad esempio, quelle regole sembrano costituire delle norme di vigilanza con effetti solo pubblicistici, tali da non riconoscere al singolo investitore un diritto allo scioglimento del contratto o al risarcimento dei danni, in Belgio, in Francia ed in Italia la trasposizione di quei principi costituisce un valido fondamento per l’esercizio di azioni di responsabilità. Inoltre, mentre in talune giurisdizioni, come in Belgio, il legislatore nazionale si è limitato ad elencare internamente i principi generali dettati dall’art. 11, in altri Stati Membri, in primis nel Regno Unito e, con un livello di dettaglio inferiore, in Irlanda, Francia ed Italia, quei principi sono stati tradotti in un minuzioso catalogo di regole. Interessanti studi comparativi circa l’implementazione dell’art. 11 della ISD sono in TISON (2002), PACCES (2004) e WYMEERSCH (1998). Il quadro si complica ulteriormente se si considera che i prodotti finanziari e il rapporto tra intermediari ed investitori sono disciplinati da contratti o, comunque, sottoposti a disposizioni di natura civilistica (esempi: responsabilità extracontrattuale, indebito e responsabilità precontrattuale). Di conseguenza, la prestazione transnazionale di servizi di investimento deve tener conto anche delle regole internazional-privatistiche dettate dalla Convenzione di Roma, dal Regolamento di Bruxelles e, nelle materie non coperte da detti strumenti, dalle norme di conflitto vigenti in ciascun ordinamento. Di fronte ad una disciplina così frammentata, la Commissione Europea ha lanciato nel 1999 un ambizioso piano di integrazione dei mercati finanziari, il Financial Services Action Plan, un pacchetto di misure alquanto eterogeneo, che spazia dal settore dei mercati all’ingrosso ai rapporti con la clientela privata. L’obiettivo è di migliorare il livello di armonizzazione e, più in generale, di superare l’approccio settoriale che sino ad oggi ha caratterizzato la produzione normativa comunitaria, in favore di una regolamentazione più coerente, tale da realizzare un level

Partendo dall’analisi della MiFID, la direttiva contiene innanzitutto la regola per cui a ciascun intermediario deve essere imposto l’obbligo di adottare meccanismi organizzativi ed amministrativi che consentano di gestire il conflitto di interessi in modo da impedire che arrechi pregiudizio all’interesse dei clienti (dovere di organizzazione ex art. 13, co. 2). La norma rappresenta un rafforzamento, già a livello di principi-quadro, dell’obbligo di adottare disposizioni organizzative per arginare i conflitti di interessi. Mentre, infatti, l’art 10 della ISD prevedeva che le imprese di investimento si dotassero di una struttura “tale da ridurre al minimo” il rischio di conflitti, la MIFID impone che “le imprese di investimento mantengono e applicano tutte le misure ragionevoli destinate ad evitare che i conflitti di interessi (…) incidano negativamente sugli interessi dei loro clienti”.239 La disposizione dunque prevede il compimento di un’azione, quella di mantenere ed applicare misure, funzionale al raggiungimento di un obiettivo, evitare in modo assoluto che i conflitti ledano gli interessi degli investitori. Essa è stata trasposta in modo pressoché letterale all’art. 21, co. 1-bis (a) del TUF, che viene dunque a sostituire la poco chiara locuzione “equo trattamento” con un obbligo di risultato assai più incisivo240.

Si scorge nella norma l’intenzione del legislatore di puntare al rafforzamento della disciplina dei conflitti di interesse attraverso la previsione di un maggior grado di proceduralizzazione. Ciò si è reso necessario probabilmente in ragione del prevedibile aumento dei rischi di sfruttamento dei conflitti derivante dal riconoscimento nella MiFID della nuova figura dell’internalizzatore sistematico, ossia dell’impresa di investimento che esegue fuori mercato e in conto proprio gli ordini della clientela241. Nella prestazione di questo servizio, l’intermediario potrebbe sempre più spesso essere tentato di sfruttare la propria superiorità informativa facendo prevalere i propri interessi su quelli dei clienti (ad esempio mediante maggiori occasioni di front running)242. In questo nuovo contesto, l’obiettivo di un’accresciuta gestione interna del conflitto è intesa a favorire il momento procedurale-preventivo, naturalmente oggetto di un controllo ex ante da parte delle autorità di vigilanza.

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Sottolinea SCOTTI SCAMOZZI (2007), p. 123, che la lettera della MiFID mette in risalto la circostanza che all’impresa di investimento non basterà scrivere le regole di struttura e di procedura, ma occorrerà che esse siano applicate in concreto.

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Si è inoltre opportunamente provveduto a modificare la clausola generale espressa al primo comma dell’art. 21 riconoscendo all’espressione inglese “fair” il significato di “corretto”. L’articolo 21(1)(a) legge oggi infatti che i soggetti abilitati devono “comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, per servire

al meglio l’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati”, v. anche infra. 241

V. definizione all’art. 4(1)(7) della MiFID.

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Il passaggio successivo, intermedio e strumentale rispetto al risultato della cura dell’interesse del cliente243, è il dovere di identificare i conflitti che “potrebbero insorgere tra tali imprese, inclusi i dirigenti, i dipendenti e gli agenti collegati o le persone direttamente o indirettamente connesse e i loro clienti o tra due clienti al momento della prestazione di qualunque servizio di investimento o accessorio o di una combinazione di tali servizi” (dovere di identificazione ex art. 18, co. 1). Si noti come tale ricognizione deve intervenire in modo ampio, con riferimento ai conflitti che “potrebbero insorgere” e non limitatamente ai conflitti che possono considerarsi lesivi degli interessi dei clienti, elemento che rileva solo nella fase successiva della gestione244. Anche in questo caso si assiste ad una ricezione all’art. 21, co. 1-bis (a) del TUF in termini molto fedeli alla lettera della disposizione comunitaria.

Da ultimo, nel caso in cui le misure organizzative volte a prevenire (lo sfruttamento de) i conflitti non siano sufficienti ad evitare, con ragionevole certezza, l’emergere di rischi di lesione degli interessi dei clienti, prima di compiere l’operazione l’intermediario dovrà fornire ai clienti prima di agire per loro conto un’“informazione chiara della natura generale e/o delle fonti di tali conflitti di interesse” (dovere di informazione ex art. 18, co. 2, trasposto all’art. 21, co. 1-bis (b) del TUF). L’obbligo di informazione preventiva si sostanzia in una procedura decisamente meno ingessante e formalistica rispetto al disclose or abstain che era in vigore in Italia. Essa non contempla una preventiva autorizzazione da parte del cliente e va avviata solo laddove i doveri di organizzazione non siano ragionevolmente sufficienti a prevenire il pericolo di nuocere agli interessi degli investitori. La trasparenza si giustifica con l’esigenza di permettere al cliente che ne abbia le capacità di valutare ex ante l’operazione, impedendone eventualmente il compimento, mentre per i meno esperti di rimandare in una fase successiva l’esperimento dell’azione.

Una critica che si deve levare nei confronti di questa disposizione è che il tenore generico della previsione sembrerebbe condizionare l’applicazione della regola a valutazioni di tipo soggettivo, in ciò rendendo dubbia l’efficacia del presidio o comunque estremamente costosa la sua applicazione245, specialmente in un contesto come quello italiano dove l’enforcement privato non è particolarmente sviluppato ed efficiente.

243 Cfr.SCOTTI SCAMOZZI (2007), p. 124. 244 Così COMPORTI (2005), p. 602. 245

In questo senso ENRIQUES (2005), p. 846, che osserva come se l’informazione è stata omessa sulla base di un giudizio di buona fede (non affetto da dolo né da colpa) circa la sufficienza di tali misure a prevenire i danni per i clienti, l’intermediario non sarà responsabile nei confronti del cliente neppure se questi abbia subito un danno dall’operazione in conflitto.

A ben vedere, tuttavia, sebbene in talune circostanze le misure organizzative e la regola della trasparenza possono di per sé non essere sufficienti a neutralizzare il conflitto, esse nella MiFID trovano un complemento nella norma di chiusura già riconosciuta dalla ISD e dallo IOSCO ed oggi meglio trasposta anche nel nostro ordinamento. Ci si riferisce al principio del fair treatment, opportunamente collocato tra le regole di condotta all’art. 19 della direttiva e recepito all’art. 21, co. 1 (a) del TUF, ai sensi del quale vige a carico dell’intermediario un generale dovere di professionalità, onestà e correttezza (nella versione italiana diligenza, correttezza e trasparenza) “per servire al meglio gli interessi dei loro clienti”. Attraverso queste clausole generali il legislatore comunitario e quello italiano, pur lasciando all’intermediario un ampio margine di discrezionalità nel determinare la propria struttura interna, ancora la valutazione della condotta compiuta in situazione di conflitto ad un criterio oggettivo, consistente nel perseguimento dell’interesse della controparte.

Per questa via, la regolamentazione ha il pregio di non impone rigidi divieti nella prestazione dei servizi e di consente all’impresa di operare a condizione che vengano rispettate le procedure interne di gestione del conflitto e, infine, soddisfatto il risultato ultimo della cura dell’interesse del cliente. In altre parole, nella MiFID e nella normativa italiana di attuazione della stessa gli strumenti di prevenzione sono più esplicitamente funzionali ad un generale obbligo di risultato da verificarsi ex post. L’obiettivo è di non cadere in una rigida disciplina che si risolva in adempimenti di tipo formalistico, ma di garantire al contrario una tutela di tipo più spiccatamente sostanziale. È pur vero tuttavia che, affinché un tale approccio possa produrre risultati efficaci, l’ordinamento necessita di dotarsi di un contesto istituzionale tale da garantire una reale vigilanza sulle procedure e sulle condotte degli intermediari, vuoi attraverso l’attività delle autorità di settore, vuoi con l’esercizio di azioni legali.

Nel documento LUISS - G. CARLI (pagine 161-165)

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