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La regolamentazione primaria della prevenzione del conflitto e la confusa trasposizione del principio del fair treatment

Nel documento LUISS - G. CARLI (pagine 130-139)

3. La disciplina italiana del conflitto di interessi precedentemente il recepimento della Direttiva MiFID

3.1 La regolamentazione primaria della prevenzione del conflitto e la confusa trasposizione del principio del fair treatment

Gli standard IOSCO151 hanno notevolmente influito sull’elaborazione della Direttiva 93/22/CE relativa ai servizi di investimento (di seguito la “ISD”). In particolare l’art. 10 della ISD detta la regola prudenziale secondo cui l’impresa di investimento deve essere “strutturata e organizzata in modo tale da ridurre al minimo il rischio che gli interessi dei clienti siano lesi dai conflitti di interessi tra impresa e i suoi clienti e tra singoli clienti”. L’art. 11 contiene la regola di comportamento secondo cui l’impresa deve “sforzarsi di evitare i conflitti di interessi e, qualora ciò non sia possibile, a provvedere a che i suoi clienti siano trattati in modo equo.”152 Tali disposizioni della ISD riprendono in modo pressoché letterale il principio n. 6 dei precedenti IOSCO Principles, introducendo innanzitutto una regola organizzativa volta alla prevenzione non del conflitto, ma del suo sfruttamento. L’intermediario è chiamato, infatti, a strutturarsi in modo da tale da ridurre al minimo il rischio che il conflitto possa produrre nocumento al cliente.

In secondo luogo, l’ISD prevede l’obbligo per l’intermediario di evitare il conflitto ogni volta in cui ciò sia possibile e, qualora esso sia insorto, disciplina l’attività dell’intermediario il quale è chiamato ad operare seconda regola del fair treatment. La ratio è imporre all’intermediario l’obbligo di perseguire la migliore cura dell’interesse del cliente, anche in presenza di un conflitto che possa incidere sul corretto svolgimento dei propri compiti professionali. Ai sensi della ISD, i presidi organizzativi richiesti all’art. 10 non sono che la modalità attraverso cui favorire tale risultato.

In linea con le raccomandazioni IOSCO e con la regola base del fair treatment, la Direttiva ha seguito un orientamento flessibile scegliendo di non

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Evidentemente la versione degli standard che precede gli Objectives and Principles.

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Il testo in lingua inglese della ISD utilizza l’espressione, identica al principio IOSCO n. 6, “fairly treated”. In sede di traduzione ufficiale, quell’inciso è stato erroneamente trasposto in lingua italiana come “trattati in

specificare le modalità con cui gestire il conflitto, ma limitandosi a fissare un più generico obbligo di risultato. Le norme prudenziali in tema di organizzazione e controlli interni e le regole di condotta vengono in questo modo a svolgere un ruolo complementare nella disciplina del conflitto, funzionale alla tutela del risparmiatore e dell’integrità del mercato153.

Il modello elaborato in sede IOSCO e poi confluito nelle disposizioni comunitarie ha infine permeato anche il diritto finanziario italiano in seguito alla trasposizione della ISD nel Decreto Eurosim e successivamente nel TUF. Attraverso questo passaggio per il diritto europeo, l’impostazione normativa esemplificata nel codice IOSCO è circolata nell’ordinamento interno dando vita ad un fenomeno di trapianto giuridico, che ha inciso su una precedente disciplina caratterizzata da una maggiore rigidità154. Tale circolazione è intervenuta, tuttavia, con una certa difficoltà, in quanto il legislatore italiano ha sottovaluto talune peculiarità del diritto finanziario nostrano, pretendendo di introdurre istituti e modelli senza procedere ad un opportuno adattamento al sostrato giuridico di riferimento.

In particolare, come è noto, la disciplina finanziaria è composta da norme di settore rivolte alla tutela di interessi pubblici, sanzionate in via amministrativa e penale e dunque ascrivibili al diritto pubblico dell’economia, ma i cui effetti si riverberano anche in campo privatistico. Basti considerare come la relazione tra intermediario e cliente è retta da un contratto e nei suoi aspetti privatistici è regolata anche dalle norme del codice civile. Inoltre, la disciplina mobiliare ripropone nelle regole di condotta applicabili agli intermediari criteri analoghi alle clausole generali di diritto privato, richiamandole talvolta in modo confuso e foriero di dubbi applicativi155.

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Che il fine ultimo della disciplina sia quello della tutela dei clienti e dell’integrità del mercato si evince non solo dal testo dell’art. 10 in cui si obbliga l’impresa a ridurre al minimo il rischio di ledere gli interessi dei clienti, m anche da tenore delle norme di comportamento. L’art. 11(1) legge, infatti, nel primo trattino che l’impresa di investimento deve “agire, nell’esercizio della sua attività, in modo leale ed equo, nell’interesse,

per quanto possibile, dei suoi clienti e dell’integrità dei mercati”. Si noti, peraltro, come anche in questa

disposizione si ripeta l’errore di tradurre il concetto di “fair” con il termine “equo”, anziché “corretto”. Al di là della confusione linguistica, appare chiaro tuttavia che è sempre quel criterio di fairness/correttezza (comunque la si voglia appellare) che il legislatore comunitario richiama nel dettare più avanti nel medesimo art. 11(1) la regola di conflitto.

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Cfr. SARTORI (2001-I), p. 200. In generale, sul fenomeno della circolazione dei modelli v. per tutti MATTEI, MONATERI (1997)e GRANDE (2001).

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L’uso delle clausole generali nelle regole di condotta applicabili all’intermediario nell’esercizio delle sue attività nei confronti degli investitori è stato oggetto di critica da parte di DI MAJO (1992), p. 292, vedendo nel richiamo alla diligenza, correttezza e professionalità effettuato all’art. 6 della legge SIM un’evocazione retorica ed imprecisa di categorie civilistiche. PISANI MASSAMORMILE (2005), p. 768, osserva che la diligenza, la trasparenza e la correttezza di cui all’art. 21 del TUF sono precise regole civilistiche che sarebbero state comunque applicabili anche in assenza di uno specifico richiamo. Esse “si traducono nell’obbligo, per gli

intermediari, (…) di tendere alla realizzazione (e non solo al rispetto) dell’interesse dei risparmiatori, interesse volto non necessariamente a conseguire profitti, ma ad operare in un mercato “integro”, che consenta cioè la consapevole assunzione e gestione dei rischi” (p. 771-772). Si noti tuttavia che, come

Di conseguenza, il rapporto tra il diritto civile generale e diritto finanziario non è qualificabile sic et simpliciter in termini di specialità e dunque di prevalenza del secondo sul primo, ma è complicato dal fatto che la norma amministrativa si inserisce in un regime giuridico privatistico di carattere tradizionale, dando vita ad un modello binario156. Pur muovendosi su piani separati, il diritto finanziario e quello comune si incontrano nella regolamentazione del rapporto intermediario-cliente determinando talune difficoltà di coordinamento e di interpretazione, aggravate dal fatto che la norma amministrativa (portatrice di effetti privatistici) riflette modelli giuridici elaborati in altre sedi internazionali.157 Pertanto, il trapianto di regole nel settore finanziario non conduce automaticamente ad un’armonizzazione del diritto, sia in quanto nell’opera di trasposizione possono verificarsi errori o imprecisioni che distanziano anche sotto il profilo meramente formale la norma interna dalla disciplina di riferimento, sia – soprattutto – perché quella disciplina si innesta su un diritto comune locale e va interpretata e ricostruita alla luce di questo158.

Precedentemente il recepimento della MiFID, il conflitto di interessi nel rapporto tra intermediario mobiliare e cliente era affrontato con norma primaria all’art. 21, co. 1, lett. c) del TUF, che imponeva all’intermediario che presta servizi di investimento di “organizzarsi in modo tale da ridurre al minimo il rischio di conflitti di interesse”159. Inoltre, si prevedeva che in situazioni di conflitto l’intermediario dovesse agire “in modo da assicurare comunque ai

osservato da ANNUNZIATA (1993), p. 430 ss., la tendenza a riprendere nel diritto speciale disposizioni già comunque applicabili si giustifica con l’esigenza di attribuire una rilevanza sul piano del diritto amministrativo o disciplinare a clausole generali che altrimenti sarebbero tutelabili solo con l’intervento dell’autorità giudiziaria.

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SALVATORE (2004), p. 264, cita a questo riguardo un passo di Castronovo che si sembra utile richiamare: “il piano sul quale correttamente l’interprete deve porsi non è quello della diacronia tra il codice e le leggi

singolari bensì della sincronia tra norme quale che sia la fonte nella quale esse si trovano allocate (…) il sistema considerato (…) si mette in luce come struttura articolata secondo il modello binario diritto privato generale-diritti secondi nel quale si suddivide l’intero diritto privato.”

157

Un interessante studio circa le interazioni tra la normativa privatistica e la regolamentazione finanziaria è, tra gli altri, in GKOUTZINIS (2004).

158 ANNUNZIATA (1993), p. 433, vede nel rapporto tra il diritto comune e regole di comportamento degli intermediari mobiliari “i tratti di una complessa relazione di sovrapposizione, integrazione e, al contempo,

deroga del diritto comune”; l’integrazione tra i due sistemi opera secondo l’Autore in senso biunivoco,

stimolando un reciproco arricchimento ed adattamento.

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Sotto un profilo oggettivo, la Consob ha chiarito con comunicazione n. DI/99038880 del 14 maggio 1999 che tale disposizione (e, più in generale, tutte le regole di svolgimento dei servizi) trova applicazione anche nella prestazione di servizi accessori, inclusa pertanto la consulenza non funzionalmente collegata ad un servizio di investimento. Sotto un profilo soggettivo, la norma si applica ai “soggetti abilitati”, definizione che ricomprende ai sensi dell’art. 1 del TUF le imprese di investimento, le banche, le SGR (incluse quelle armonizzate), le SICAV, e gli intermediari finanziari iscritti nell’elenco ex art. 107 del TUB, qualora tali soggetti prestino servizi di investimento e servizi accessori. I criteri contenuti nell’art. 21 si prestano inoltre a costituire fonti di obblighi anche a prescindere dalla stipulazione del contratto e sono applicabili nei rapporti tra l’intermediario e la generalità degli investitori e quindi del mercato, cfr. MIOLA (2002), p. 166; ALPA

clienti trasparenza ed equo trattamento”160. Infine, ai sensi dell’art. 21(1)(d): “Nella prestazione dei servizi di investimento i soggetti abilitati devono (…): disporre di risorse e procedure, anche di controllo interno, idonee ad assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi”161.

Dette disposizioni riflettono l’impostazione generale dello standard IOSCO e della normativa comunitaria caratterizzato da un sistema di tutela “per gradi”162, in cui si distinguono i due momenti statico-organizzativo, funzionale alla prevenzione ed alla gestione del conflitto (ossia alla prevenzione dello sfruttamento del conflitto insorto) e quello dinamico, relativo all’azione intrapresa dall’intermediario in conflitto163.

La normativa rappresentava un cambiamento di prospettiva rispetto al precedente regime previsto dalla legge 1/91 (c.d. legge Sim) incentrato: (i) su una rigida separazione organizzativa tra le attività ed i servizi svolti dalla SIM e (ii) sul c.d. “contratto informato”, ossia sul divieto di concludere l’operazione con o per conto del cliente in mancanza di un’autorizzazione informata di questi, una volta messo a conoscenza della situazione di conflitto (cd. disclose or abstein, mutuato dal diritto inglese)164. Tale sistema era stato giudicato ingessante e formalistico in ragione degli effetti pregiudizievoli in termini di concorrenza a carico degli intermediari italiani, per via della perdita dei vantaggi connessi alla polifunzionalità causata da una così rigorosa separazione, e considerata comunque la difficoltà del cliente (soprattutto retail) a valutare il conflitto in ragione della natura stessa del rapporto con l’intermediario. La regola, inoltre, rischiava di avere effetti deresponsabilizzanti per l’intermediario, al quale sarebbe bastato istituire una muraglia cinese e/o ottenere un’autorizzazione dal risparmiatore, non importa se consapevole o meno, per essere in grado di scaricare sulla controparte i costi di un’operazione potenzialmente dannosa e comunque inquinata dal

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L’art. 21.1(c) legge: “Nella prestazione dei servizi di investimento e accessori i soggetti abilitati devono

organizzarsi in modo tale da ridurre al minimo i conflitti di interessi e, in situazioni di conflitto, agire in modo da assicurare comunque ai clienti trasparenza ed equo trattamento”.

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Ai sensi dell’art. 6(2)(a): “La Consob, sentita la Banca d’Italia, tenuto conto delle differenti esigenze di

tutela degli investitori connesse con la qualità e l’esperienza professionale dei medesimi, disciplina con regolamento: (a) le procedure, anche di controllo interno, relative ai servizi prestati e la tenuta delle evidenze degli ordini e delle operazioni effettuate (…).”

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L’espressione è di RABITTI BEDOGNI (2002),p. 143.

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A differenza della disciplina comunitaria che distingue la regola organizzativo-prudenziale di cui all’art. 10 da quella di condotta all’art. 11 dell’ISD, il TUF inserisce ambedue le disposizioni nell’articolo concernente i criteri generali per lo svolgimento dei servizi. Tuttavia, ci sembra questa una differenza solo formale, che non incide sull’impostazione di base della disciplina italiana del conflitto che comunque riconosce questi due momenti.

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L’art. 6, lett. g) della l. 2 gennaio 1991, n. 1 disponeva che: “Nello svolgimento delle loro attività le

società di intermediazione mobiliare (…) non possono effettuare operazioni con o per conto della propria clientela se hanno direttamente o indirettamente un interesse conflittuale nell’operazione, a meno che non abbiano comunicato per iscritto al cliente la natura e l’estensione del loro interesse nell’operazione, e il cliente non abbia preventivamente ed espressamente acconsentito per iscritto all’effettuazione dell’operazione.”

conflitto165.Il sistema introdotto con il decreto Eurosim prima, e con il TUF poi, avrebbe dovuto far fronte all’esigenza di superare le inefficienze emerse nell’ambito della precedente disciplina e regolamentare il conflitto in termini maggiormente rispondenti alle esigenze del mercato e dei risparmiatori.

Nonostante – come si è appena detto – ne condivideva l’approccio di base, la normativa italiana precedente la riforma MiFID si discostava dal modello internazionale sotto vari profili. Innanzitutto, il lessico adottato dal legislatore nazionale non prevedeva, a differenza dello standard IOSCO e delle disposizioni comunitarie, un obbligo di prevenire l’insorgenza del conflitto ogniqualvolta ciò fosse stato possibile, ma si limitava a richiedere che il rischio di conflitti fosse ridotto al minimo166. È solo grazie all’intervento della Consob che si era chiarito, sul piano della moral suasion, che la norma andava interpretata alla luce della disciplina comunitaria, nel senso di ritenere “che l’impegno di “evitare i conflitti di interessi” [fosse] esigibile dinnanzi ad una fattispecie (…) derivante non da una circostanza preesistente e in grado di costituire il riflesso, seppure indiretto, di soluzioni organizzative ed operative ritenute ammissibili dal legislatore (svolgimento congiunto di più servizi; appartenenza ad un gruppo), bensì da una situazione (…) appositamente creata dall’intermediario”167.

Inoltre, la regola dell’agire in conflitto secondo il principio del “fair treatment” è stata trasposta in diritto italiano con la previsione di un obbligo di assicurare ai clienti “trasparenza ed equo trattamento”, espressione che non trova precedenti nel nostro ordinamento e non costituisce una categoria giuridica tipica del diritto italiano. L’“equo trattamento” sembra piuttosto rappresentare un’imprecisa traduzione letterale di un istituto elaborato, come si è detto, in

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Una critica alla trascorsa disciplina è inANNUNZIATA (1993), p. 327 e ss., il quale evidenzia come la norma, sebbene chiaramente ispirata al modello inglese, si appuntava maggiormente sui profili formalistici e rigidi. Inoltre, essa era stata introdotta proprio nel nostro paese in un momento in cui il sistema inglese aveva appena subito una brusca revisione. Infatti dal 1990 il meccanismo del disclose or abstain venne nel Regno Unito soppiantato dalla regola base tutt’ora vigente (di cui si è dato già conto) del fair treatment, che punta alla correttezza dell’intermediario e svaluta il profilo dell’autorizzazione, considerata una tutela formalistica ed insufficientemente efficace per il cliente e troppo rigida per l’intermediario. Medesima evoluzione si andava affermando in quegli anni anche nel sistema francese (v. p. 197). Insomma, il legislatore italiano aveva finito per introdurre una disciplina tardiva e desueta, in quanto superata dal generale riconoscimento che nelle relazioni fiduciarie, contraddistinte proprio dalla presenza di asimmetrie informative, il meccanismo l’autorizzazione preventiva non può essere una soluzione soddisfacente ed efficace ai fini della tutela dell’interesse del cliente avverso comportamenti opportunistici dell’intermediario; cfr. FICI (1997), p. 309.

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Così ALPA (1998-II), p. 375, con riferimento alle divergenze lessicali tra la normativa italiana e la ISD; l’Autore evidenzia inoltre che: “altro è ridurre il “rischio” che gli interessi dei clienti siano lesi da conflitti

d’interessi; ciò significa che particolare attenzione dovrà essere portata non solo alle modalità con cui si possono profilare conflitti, ma anche agli effetti dei conflitti, con riguardo alla loro incidenza sui clienti”.

L’Autore conclude sollecitando un’interpretazione adeguatrice del TUF alla luce della lettera e dello spirito della Direttiva, così come previsto all’art. 2 del TUF.

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Comunicazione Consob n. DIN/1009635 dell’8-2-2001 riguardante la remunerazione del gestore sottoforma di commissioni di movimentazione e di GPF aventi ad oggetto parti di OICR collegati. Sul tema delle remunerazioni si tornerà più avanti.

sistemi giuridici lontani dal nostro, un inedito che troviamo menzionato esclusivamente in sede di regolamentazione del conflitto nel settore mobiliare168.

Così maldestramente trapiantato nel nostro ordinamento, ed in mancanza di una tradizione giuridica di riferimento che ne permettesse di ancorare il significato a specifici canoni ermeneutici, l’“equo trattamento” assume i connotati di una clausola generale carica di contenuti affatto ambigui e passibili di una pluralità di interpretazioni contrastanti169. Essa potrebbe intendersi come “parità di trattamento” (che – come detto sopra – è uno soltanto degli aspetti del fair treatment)170, o come “bilanciamento di interessi”171, o ancora potrebbe essere riferita al canone di equità espresso all’art. 1374 c.c.172. In altre parole, nel nostro sistema giuridico l’equo trattamento diviene un concetto polisenso, con l’effetto di privare l’ordinamento italiano di una regola che in modo chiaro ed univoco imponga all’intermediario in conflitto di operare sempre e comunque per la cura dell’interesse dell’investitore173.

168

Sul concetto di equità nel diritto privato, e particolarmente nel codice civile, v. il contributo ricostruttivo di ROMANO (1966), p. 83 ss.

169 Più in generale, la formula adottata nell’art. 21 del TUF non riproduce tutte le clausole generali previste all’art. 11 dell’ISD. In particolare, l’art. 21(1)(a) impone ai soggetti abilitati di “comportarsi con diligenza,

correttezza e trasparenza, nell’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati”. Rispetto all’art. 11 dell’ISD

mancano richiami ai criteri di “onestà” (honestly), “equità” (fairly), “impegno” (care) e “competenza” (due

skill). Sebbene tali canoni possano essere ricondotti in via interpretativa a quelli più tipicamente nostrani della

diligenza, correttezza e trasparenza contemplati all’art. 21(1)(a), permane il dubbio sul perché il legislatore abbia introdotto nella lettera (c) del medesimo articolo contenente la disciplina del conflitto una clausola generale del tutto inedita e menzionata esclusivamente in quella sede. Sull’uso delle clausole generali nella normativa speciale di cui all’art. 21 del TUF in funzione integrativa, in quanto espressione di un obbligo generale di preservare gli interessi della controparte, v. RABITTI BEDOGNI (1998), p. 171 ss. In senso conforme SALVATORE (2004) p. 263 ss. e MIOLA (2002), p. 165, secondo cui l’ambito di applicazione del principio di correttezza ricomprende, inoltre, tutte le fasi del rapporto contrattuale, incluse le trattative e la formazione del contratto. Contra ALPA (1998-I), pp. 221-222, secondo cui l’equità non andrebbe equiparata alla fairness inglese e inclusa nel principio di correttezza, ma costituirebbe un criterio autonomo, identificabile con l’obbligo di non abusare del potere contrattuale e di tenere conto degli interessi dei clienti.

170

L’interpretazione di “equo trattamento” come “parità di trattamento” è di ANNUNZIATA (2001), p. 109, secondo il quale la norma deve rivestire un significato autonomo rispetto al generale obbligo di agire correttamente, con trasparenza e con diligenza professionale nell’interesse del cliente. Parità di trattamento non vuol dire poi uniformità di trattamento, in quanto la clausola permette una differenziazione dei clienti, purché non arbitraria, ma giustificata dalla loro diversa qualifica e da apposite disposizioni in tal senso. Una serrata critica a questo approccio è in MAFFEIS (2005).

171 Il rischio che l’equo trattamento possa essere erroneamente interpretato come bilanciamento di interessi è stato opportunamente messo in evidenza da VISENTINI,MAFFEIS,GIANNI (2002-II), pp. 241-242.

172

Propone questa interpretazione alla luce dell’art. 1374 c.c. RECINE (1998), p. 183; contraMIOLA (2002), p. 173. Per SALVATORE (2004), pp. 278-279, in generale nel settore mobiliare l’equità avrebbe diverse funzioni: garantire la parità di trattamento tra clienti ed evitare l’abuso da parte dell’intermediario della posizione contrattuale; tuttavia quando utilizzata come criterio per la soluzione dei conflitti di interesse, l’equità assumerebbe una connotazione diversa, che coincide con quella ex art. 1374 c.c.

173

Altri ordinamenti di civil law si sono ben guardati dall’introdurre la regola mediante la semplicistica traduzione della ISD, ma hanno precisato che il principio fondamentale dell’agire in conflitto è quello della cura dell’interesse del cliente. Ad esempio, in Germania la regola è stata trasposta all’art. 31, par. 1, n. 2 WpHG secondo cui (in inglese) “An investment firm shall (…) try to avoid conflicts of interest and, when they

cannot be avoided, ensure that the client’s order is executed with due observance of the client’s interest”.

Similmente in Francia il sistema si appunta sulla lealtà dell’intermediario nei confronti del cliente; cfr. SARTORI (2001-I), p. 201, nt. 42 e 43.

La prevalente dottrina aveva tentato di rimediare a tali dubbi esegetici correttamente interpretando le disposizioni del TUF in chiave sistematica e assegnando all’inciso “equo trattamento” l’accezione di “trattamento rispondente all’interesse del cliente”174. A sostegno di una tale interpretazione interviene anche l’analisi storico-internazionale della disciplina del conflitto di interessi

Nel documento LUISS - G. CARLI (pagine 130-139)

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