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Il trade-off tra conflitto di interessi e sinergie organizzative: un problema di politica legislativa

Nel documento LUISS - G. CARLI (pagine 107-114)

5. Le iniziative internazionali a fronte dei recenti scandali finanziari

1.5 Il trade-off tra conflitto di interessi e sinergie organizzative: un problema di politica legislativa

1.5 Il trade-off tra conflitto di interessi e sinergie organizzative: un problema di politica legislativa

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Le crisi del 1929 e la Grande Depressione diedero avvio allo svolgimento, da parte di un’apposita Commissione d’inchiesta del Senato americano, di numerose indagini ed audizioni che identificarono nella commistione tra attività bancaria e attività finanziaria una delle principali cause del dissesto finanziario di quegli anni. Fu così che il presidente Roosvelt tentò di ripristinare la fiducia nel mercato finanziario promulgando un complesso di norme passato alla storia come Glass-Steagall Act che vietavano alle banche commerciali di: (a) svolgere attività di sottoscrizione, collocamento, acquisto, vendita o distribuzione di strumenti finanziari, e (b) avere rapporti partecipativi o di fatto con società impegnate principalmente in attività di sottoscrizione, collocamento, acquisto, vendita o distribuzione di strumenti finanziari (cfr. art. 20 del Banking Act del 1933).

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In particolare, secondo il GLBA, le banche commerciali possono appartenere ad un gruppo facente capo ad una financial holding company. Quest’ultima è autorizzata a svolgere, direttamente o tramite società controllata non bancaria, servizi finanziari, assicurativi e accessori, sempre che la Fed abbia accertato la sussistenza di due condizioni: (a) che tutte le banche del gruppo presentino una adeguata capitalizzazione (well capitalized) ed un adeguato sistema di gestione (well managed); (b) ciascuna di esse adempia a taluni obblighi di prestare adeguata attenzione alle necessità di credito della comunità del territorio in cui operano, previsti nel Reinvestment Act.

96 Vi è consenso nella letteratura economica nel ritenere che in media i conflitti di interesse derivanti dalla contemporanea prestazione di servizi bancari e di investimento non producono effetti negativi sul mercato, v. riferimenti in MEHRAN E STULZ (2006), p. 30 ss.

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Più in generale, sull’evoluzione del sistema finanziario americano, si vedano, ex multis, CROCKETT, ET AL. p. 56 e ss., e WILMARTH (2007)p. 1 e ss. Quest’ultimo Autore ha evidenziato come tra i numerosi studi sugli scandali Enron e Worldcom solo due hanno prestato attenzione al ruolo in essi rivestito dalle banche universali. L’Autore sottolinea come l’elevata remuneratività dei servizi di investment banking abbia indotto le banche universali a concludere operazioni di finanza strutturata in presenza di elevati rischi reputazionali e di responsabilità giuridiche e quindi in totale spregio delle policy interne di gestione dei rischi. Le operazioni compiute dalle banche universali nei casi Enron e Worldcom hanno rivelato la presenza di pressanti esigenze di business, conflitti di interessi, finanza speculativa e sfruttamento degli investitori in termini molto simili a quelli che avevano indotto il Congresso a decretare la separazione delle banche commerciali da quelle di investimento nel 1933. Questi episodi hanno rappresentato un evidente fallimento dei presidi di governance sia delle banche universali che dei loro clienti corporate.

Nell’intermediazione bancaria l’interposizione di una banca commerciale tra il risparmiatore e l’impresa fa sì che la relazione fiduciaria principal-agent si instauri a livello del rapporto tra la banca ed il soggetto finanziato. In questo ambito, la banca agisce come principal e si trova essa sola a dover sopportare i rischi ed i costi connessi alla conoscenza imperfetta della situazione patrimoniale e dell’attività del cliente finanziato98. Pertanto, dall’ottica del risparmiatore, il modello bancocentrico è più stabile e garantisce una maggiore sicurezza; i rischi ed i costi dell’asimmetria informativa sono allocati sulle banche e regolati attraverso la legislazione prudenziale.

Diversamente che nell’intermediazione bancaria, nel mercato mobiliare i problemi di selezione avversa e di azzardo morale si spostano sul rapporto tra intermediario e risparmiatore; risultano anzi aggravati dalla circostanza che l’ignoranza dell’investitore medio è, a differenza che per la banca commerciale, un’ignoranza razionale99. La presenza di asimmetrie informative tra chi domanda e chi offre capitali è il motivo stesso per cui il cliente si rivolge all’intermediario per ricevere servizi finanziari. Da un punto di vista economico, quell’asimmetria giustifica l’esistenza dell’intermediario mobiliare: è ineliminabile, se non a pena di annientare il vantaggio derivante dalla specializzazione e dalle economie di scopo fornite dall’intermediazione. Annullare il gap informativo vorrebbe dire, in altre parole, rendere inutile la figura dell’intermediario mobiliare e, da ultimo, inefficiente il funzionamento del mercato finanziario100.

Il ragionamento economico ci permette di evidenziare questo aspetto fondamentale del mercato mobiliare: la presenza di asimmetrie informative è strutturale, in quanto necessaria non solo all’impresa, che altrimenti non riuscirebbe a mobilitare le risorse economiche dal pubblico, ma anche all’investitore, che, non ritenendo “razionale” sostenere costi di ricerca, di elaborazione e di monitoraggio proibitivi, non avrebbe informazioni sufficienti a investire e perderebbe l’opportunità del guadagno finanziario. È possibile dunque identificare un trade-off tra asimmetria informativa e specializzazione (separazione tra proprietà e controllo).

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ONADO (2000): “Ponendosi come creditore dell’operatore in deficit e come debitore dell’operazione in

surplus [la banca] risolve alla radice il problema delle informazioni tra il primo ed il secondo”. 99

Sulle misure istituzionalmente idonee a controbilanciare la presenza di asimmetrie informative presenti sul mercato mobiliare v. BLACK (2001), p. 789 ss.

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In altre parole, è il gap informativo a giustificare uno spostamento di risorse da un soggetto ad un altro, particolarmente da un numero elevato di persone a pochi specialisti (c.d. pooling), determinando rischi in termini di opportunismo; cfr. SARTORI (2001-II), p. 611, che opportunamente cita un passaggio di Smith alquanto significativo per quanto concerne la tematica considerata: “(…) large financial intermediaries could

serve as the conduit through which the savings of millions of dispersed housholds are collected and transformed into corporate capital and shareholder power. By pooling and investing the dispersed savings of their customers, financial intermediaries could thus become large, influential shareholders, and could monitor firm management and reduce agency costs”.

Le precedenti osservazioni possono essere meglio comprese se si considera l’informazione come un qualunque bene oggetto di domanda e di offerta. Chi offre le informazioni, ossia le imprese e gli intermediari, agisce nella speranza di ottenere la fiducia degli investitori e, conseguentemente, ricevere i capitali (per le imprese) o realizzare un lucro (per gli intermediari). Chi domanda le informazioni necessita di notizie utili a compiere una scelta di investimento consapevole. Tuttavia, sia sul lato dell’offerta che su quello della domanda, l’informazione presenta dei costi: per gli offerenti in termini di produzione dell’informazione, per gli investitori in termini di elaborazione delle stesse. Data la presenza di tali costi e la natura di bene pubblico dell’informazione – caratterizzata dall’indivisibiltà e dalla non esclusività del godimento, le imprese e gli intermediari ne produrranno una quantità inferiore a quella socialmente desiderabile101. A loro volta, gli investitori, a causa dei problemi di free riding e degli elevati costi transattivi, possono domandare un livello di informazione inferiore a quello ottimale102. Tutte queste complicazioni sono ulteriormente acuite dalla natura del bene scambiato consistente, come si è detto, in una fonte di remunerazione meramente futura e incerta e di difficile valutazione.

Quanto precede, se da un lato giustifica la presenza degli intermediari e l’intervento del legislatore in favore di una disclosure obbligatoria103, sotto un diverso profilo rende estremamente complessa la determinazione in concreto del regime informativo da imporre alle parti104. Ne consegue che bisogna distinguere la presenza di una disinformazione spontanea105, derivante un dislivello informativo efficiente, ossia ineliminabile alla luce della diversa distribuzione delle informazioni sul mercato dei capitali e persino “economica” dati i vantaggi derivanti dalla specializzazione dei compiti, dall’esigenza di garantire un grado di

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Ex multis, ZINGALES, p. 18 e GENTILI (2004), p. 556. Sul fallimento del paradigma convenzionale dell’informazione perfetta nei mercati finanziari e sul connesso problema del conflitto di interessi v. CAVAZZUTI (1989), p. 357 ss.

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Cfr.FERRARINI (2004), p. 412.

103 Cfr. per tuttiCAVAZZUTI (2004), p. 419 ss.

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Sul tema si veda PERRONE (2006), p. 382, secondo cui la funzione degli obblighi di informazione dell’intermediario dovrebbe essere quella di consentire il superamento di asimmetrie informative di “secondo grado”, aventi come riferimento non tanto il rapporto fra emittenti e l’insieme degli investitori (a cui provvede un efficiente mercato di capitali), ma quello fra il significato dei prezzi di mercato e la normale razionalità limitata dell’investitore retail. L’opinione si basa sul riconoscimento dell’efficienza informativa del mercato di capitali che tuttavia è tutt’altro che riscontrata nella realtà dagli economisti, che in effetti utilizzano la teoria del mercato perfetto come mero modello, ossia come uno strumento di indagine per definizione irrealistico, ma utile a fini scientifici.

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L’espressione è in GENTILI (2004), p. 560 per indicare quell’asimmetria derivante dal fatto che il contraente non dispone di informazioni in ragione dell’elevato costo di acquisirle e valutarle. Questa ipotesi viene distinta da quella in cui, in presenza di una disinformazione spontanea, vi sia un approfittamento della controparte che basa la propria posizione contrattuale sull’ignoranza altrui e da quella ulteriore della disinformazione indotta, ossia derivante dal comportamento della controparte.

trasparenza tale per cui chi offre capitali deve avere notizie sufficienti a compiere una ponderata ed efficiente allocazione delle proprie risorse106.

Prese di posizioni semplicistiche in favore dell’imposizione sull’intermediario di un obbligo di informativa “quanto più ampia e veritiera possibile” in nome di un’assunta esigenza del mercato mobiliare rischiano di essere poco più che slogan. Similmente, sillogismi del tipo: “l’asimmetria informativa procura fallimenti del mercato; i fallimenti del mercato vanno risolti attraverso una regolamentazione che vi ponga rimedio; quindi il legislatore deve provvedere a regolamentare il mercato finanziario nel senso di ridurre il gap informativo” sono fuorvianti, se letti isolatamente. Complementare al precedente sillogismo vi è la questione di determinare la quantità e la qualità delle informazioni che dovrebbero essere fornite all’investitore; sino a che punto è opportuno imporre obblighi informativi despecializzanti; o, detto ancora diversamente, quali sono i limiti oltre i quali la circolazione delle informazioni viene ad essere di ostacolo, a costituire un costo (in primis per i risparmiatori) anziché un beneficio, ai meccanismi di accumulazione del capitale e di efficiente allocazione delle risorse107.

Vi è poi un altro aspetto che, come è stato osservato, rende l’informazione “uno strumento carico di ambiguità”, particolarmente quando diventa convinzione che informare il cliente costituisca formalisticamente un onere sufficiente a ritenere adempiuto l’obbligo di diligenza professionale. L’ambiguità è in ciò, che l’informazione potrebbe, al di là delle dichiarazioni di principio, divenire il mezzo per precludere al cliente la possibilità di esperire rimedi contro operazioni che – sebbene concluse a fronte di un’informazione adeguata – risultano sostanzialmente contrarie al proprio interesse.

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In termini più rigorosamente economici, per citare EATERBROOK,FISCHEL (1991), p. 299: “Information is

costly to compile and disseminate and to digest, and the costs are borne in large part by investors. Whether investors benefit by more information depends on whether the marginal benefits of increments of knowledge exceed the marginal costs”.

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Della difficoltà di trovare una soluzione equilibrata al problema, che tenga conto dell’esigenza degli investitori di ricevere informazioni finanziarie al contempo semplificate e complete, vi è piena consapevolezza a livello internazionale. Si riporta a titolo esemplificativo un passo dello IOSCO Consultation Report “An Overview of the Work of the IOSCO Technical Committee”, del marzo 2007, in cui la questione viene sinteticamente affrontata: “As retail investors may not access the same information as market

professionals, their growing role in financial markets raises issues concerning their capacity to assess suitability of financial products and investment risks related to these products. Many retail investors (…) may not clearly understand the products or the layers of costs associated with those products. (…) Therefore, they might end up purchasing a product that they would not have otherwise, has they understood the true costs of the product and/or their intermediaries conflicts of interests. IOSCO is currently considering the key information that customers ought to receive at the point of sale in order to support sound investment decision-making”, p. 14-15.

La tematica del conflitto di interessi è particolarmente scomoda perché si collega a questo tipo di domande, ed alla difficoltà di trovare aprioristicamente una risposta. Come l’asimmetria informativa, anche la presenza del conflitto affonda le proprie radici nella separazione tra proprietà e controllo, nella divisione del lavoro, nelle economie di scala, nella specializzazione dei compiti che caratterizzano i moderni capitalismi. Di fatto, quanto più complessa diventa la finanza, tanto più forte è la tendenza alla formazione di economie di scopo, di intermediari polifunzionali, tanto più si estende la probabilità che insorgano conflitti di interesse ad inquinare l’efficiente svolgimento delle transazioni finanziarie. Indubbiamente, è possibile individuare un trade-off anche tra sinergie/economie di scopo e conflitto di interessi108.

In quest’ottica, se da un lato il conflitto di interessi richiama l’esigenza di rafforzare leggi, regole e principi che valgano a contrastarne gli effetti, dall’altro, obliquamente, nell’attuale sistema esso si presenta come un costo strutturale, riproponendo le antiche contraddizioni del capitalismo. La separazione della proprietà diffusa dal controllo risponde all’esigenza di aggregare grandi ricchezze e di assicurare opportunità di investire alla massa disinteressata alla gestione diretta dell’impresa, secondo criteri di diversificazione del rischio. Tuttavia, quanto più il controllo è dissociato dalla proprietà, e dunque dal rischio, tanto più si genera un problema di incentivi perversi e di costi di agenzia dovuti al disallineamento di interessi tra proprietario e gestore. Il legislatore che voglia affrontare questo tema si troverà allora a dover risolvere un conflitto sul conflitto (un “metaconflitto”)109.

Come evidenziato dal Prof. Visentini, in un capitalismo di libero mercato “la diffusione dei conflitti d’interesse non è una malattia epidemica, ma è il costo per una maggiore crescita”. Questo è il nodo cruciale: l’esistenza di un conflitto di interessi, non necessariamente danneggia i risparmiatori. Ciò in quanto la presenza di conflitti si accompagna a sinergie ed economie di scopo da cui il pubblico degli investitori può e deve trarre vantaggio. Questo vantaggio costituisce la giustificazione alla presenza dei conflitti, ne rappresenta la stessa ragion d’essere. Impedire il sorgere del conflitto implica innalzare i costi di

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WHITE si esprime in questi termini: “The quest for synergies, the benefit from combining multiple activities

within a financial institution, is one of the driving forces behind the development of financial institutions. However, synergies and conflicts of interest are a package deal. You cannot eliminate one without eliminating the other. The information approach to financial markets reveals the nature of this problem, which is at the core of the function of any financial institution.” p. 1.

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Non si tratta di un “conflitto di classe” – per riferirci all’efficace espressione del Prof. Gustavo Visentini in una critica acuta alle conclusioni espresse dal Prof. Guido Rossi nel saggio “Il conflitto endemico”. Mi permetto di aggiungere che il “malinteso” nel discorso del Prof. Rossi non è solo quello di assimilare il conflitto individuale o contrattuale ad uno di classe. Mi pare, infatti che l’equivoco nell’analisi del Prof. Rossi risieda nel fatto di associare semplicisticamente la catastrofe all’endemica esistenza dei conflitti d’interesse.

produzione delle informazioni da parte degli intermediari, a detrimento dei risparmiatori.

Bisogna inoltre considerare che il trade off tra conflitti e sinergie è difficilmente risolvibile in modo autoritativo dal legislatore, il quale non è in grado di conoscere ex ante qual è in un dato momento il modello organizzativo più efficiente per ciascun intermediario. In questa situazione, il miglior approccio è quello di lasciar determinare l’equilibrio attraverso scelte decentrate, favorendo il buon funzionamento del mercato ed una vigilanza indipendente da parte di autorità pubbliche e risparmiatori.

D’altra parte, ciò di cui indubbiamente un legislatore può essere certo, ciò che determina la crescente valenza politica del tema dei conflitti, è il danno sociale subito dal pubblico degli investitori in occasione di comportamenti opportunistici di chi si approfitta del conflitto per avvantaggiarsi a discapito della controparte. Il vero snodo nevralgico, allora, non è tanto nella presenza (endemica) dei conflitti, quanto nel loro sfruttamento, nel comportamento abusivo e nella violazione della fiducia che ne consegue.

Lo sfruttamento del conflitto di interessi comporta, infatti, un’appropriazione (oggettivamente) fraudolenta che interviene in spregio ad un accordo improntato sulla fiducia, ossia in violazione della regola che dovrebbe forgiare la relazione tra principale ed agente. È un fallimento del mercato derivante da una “crisi di legalità”110. È a quell’appropriazione che ci si riferisce quando si utilizza l’espressione tipicamente angloamericana di “frode finanziaria”111. La relazione causale tra i due fenomeni del conflitto di interessi e della frode finanziaria può condurre alla fallace opinione che obiettivo del legislatore dovrebbe essere quello di contenere in ogni caso il sorgere dei conflitti, eventualmente persino vietarli. A ben vedere, con un tale tipo di approccio, anziché punire l’evento patologico, si compie l’errore di spostare il rimedio sul gradino precedente, colpendo il fenomeno da cui può derivare (ma non necessariamente deriva) il comportamento opportunistico. Per fare un esempio di

110

Così efficacemente il Prof. Visentini: “Per la funzionalità del mercato il problema sta (…): nel regolare

come accadimento fisiologico, come voluta conseguenza della mobilità del mercato, le crisi economiche e finanziari; ma nel contempo: nel prevenire e punire come patologie le crisi di legalità, queste sì distorsive della concorrenza, di danno per il mercato, di ingiusta allocazione dei capitali e dei profitti.” (v. VISENTINI

(2005), pp. 27-28)

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Sempre il Prof. Visentini: “Le crisi di legalità, nel loro complesso e intese nella loro radice, ben possono

ricondursi a vicende di frode contrattuale; alla frode, nel significato più comprensivo. Infatti, il mercato è la risultante di accordi tra operatori liberi di decidere: imprenditori e consumatori. Il contratto è lo strumento del mercato, sì che i principi del contratto sono i principi del libero mercato. Perciò il principio sul quale si fonda il mercato è il rispetto dei patti. La frode inquina l’accordo e, se diffusa, distrugge il mercato”. (v.

VISENTINI (2005), p. 28). Come si è detto, il concetto di “frode finanziaria” è l’architrave dell’ordinamento giuridico statunitense in materia finanziaria e vera e propria norma di chiusura del sistema (v. cap. I).

sapore paradossale, è come se il legislatore che volesse evitare incidenti stradali vietasse l’utilizzo delle automobili112.

Al contrario, è possibile ed opportuno distinguere sotto un profilo logico la presenza di una situazione di conflitto di interessi dal suo sfruttamento (frode finanziaria), differenza che – sebbene ovvia – riteniamo non sufficientemente sottolineata dalla dottrina giuridica. Il conflitto è una situazione di rischio (e dunque un costo) dal quale tuttavia possono derivare sinergie ed economie di scopo a beneficio del mercato: la regolamentazione del conflitto richiede una complessa analisi di tipo costi/benefici; le frodi finanziarie sono comportamenti opportunistici di appropriazione di risorse al di fuori del mercato, procurano esclusivamente esternalità negative, costi individuali e costi sociali113 e vanno contrastate, prevenute e sanzionate con particolare rigore, attraverso un’idonea disciplina che valga a tutelare la fiducia dei risparmiatori negli operatori di mercato.

Seguendo questo filo logico, un legislatore che abbia compiuto una scelta politica in favore di un capitalismo di libero mercato deve risolvere il “metaconflitto” in una regolamentazione che, più che prevenire tout cour l’insorgenza dei conflitti di interessi (endemici), ne contrasti senz’altro lo sfruttamento, ossia ne favorisca la prevenzione e la gestione in modo da evitare danni agli investitori ed al mercato114. In altri termini, in un’ottica gius-economica, il legislatore dei mercati mobiliari dovrebbe normare non tanto con l’obiettivo demagogico di abolire “la piaga dilagante” del conflitto di interessi, ma quanto con quello più realistico di contrastarne lo sfruttamento con strumenti preventivi e repressivi115.

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Di questo aspetto si è raggiunta ormai piena consapevolezza anche negli Stati Uniti, ove la risposta ai recenti scandali finanziari non è stata la reintroduzione delle barriere vigenti con il Glass-Steagall Act, ma un rafforzamento degli obblighi informativi attraverso il Serban-Oxley-Act. Anzi, come evidenziato efficacemente daCAPPIELLO (2007), p. 60, la normativa statunitense sembra fondata sul convincimento che il coordinamento operativo ed informativo nell’ambito di un medesimo gruppo risponda a criteri di efficienza e competitività. Per una critica a quest’approccio si vedano tuttavia CUNNINGHAM (2002),pp. 6 e 42, secondo cui meglio avrebbe fatto il Congresso a riflettere sull’opportunità di ripristinare le più stringenti misure previste nel Glass-Steagall Act.

Nel documento LUISS - G. CARLI (pagine 107-114)

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