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Le prime azioni coloniali dell’Italia liberale (1882-1896)

3.1 Il colonialismo italiano: dai primi possedimenti all’Impero fascista (1882-

3.1.1 Le prime azioni coloniali dell’Italia liberale (1882-1896)

Gli inizi del colonialismo italiano si possono far risalire all’azione individuale e privata di due personaggi, l’armatore genovese Raffaele Rubattino e l’ex missionario Giuseppe Sapeto, che procurarono al Regno d’Italia il primo

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Giampaolo Calchi Novati, Pietro Valsecchi, Africa: la storia ritrovata, Carocci Editore, Roma 2005, p. 233.

possedimento d’oltremare. I due, grazie all’interessamento del governo italiano, acquistarono, nel 1869, la baia di Assab sul Mar Rosso, una striscia di terra di appena sei chilometri che, per problemi con l’Egitto e la Gran Bretagna, rimase per circa dieci anni inutilizzata e soltanto nel 1882, dopo aver sviluppato il possedimento, la società Rubattino cedette totalmente all’Italia il territorio in suo possesso, creando la prima colonia italiana in Africa. Negli anni ottanta del XIX secolo, la situazione in Africa Orientale stava mutando a causa dei problemi inglesi in Egitto, con il relativo protettorato britannico sul paese, e in Sudan, a causa della rivolte dei Dervisci. La Gran Bretagna aveva bisogno di un alleato europeo nella zona e lo trovò nell’Italia, per la quale promosse la sua partecipazione nell’area attraverso la presa di Massaua il 5 Febbraio 18852.

Le autorità italiane svilupparono, tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta dell’Ottocento, una politica espansionistica verso l’interno, che tendeva ad un dominio diretto della parte settentrionale dell’altopiano etiopico e ad un protettorato effettivo sul resto dell’Abissinia. Ciò, però, non era supportato in Italia con la costanza e la serietà necessaria ad un azione di così ampio respiro, scaturendo una politica espansiva basata sui contrasti tra i capi abissini, impegnati e preoccupati per i successi dei Dervisci sudanesi che minacciavano l’Etiopia settentrionale. Il primo scontro vero e proprio tra le truppe italiane e gli etiopici ci fu nel Gennaio 1887, quando ras Alula, uno dei capi dell’altopiano eritreo, attaccò il fortino italiano di Saati e una colonna di cinquecento soldati che, sconfitti, ripiegarono verso i centri della costa. Il gen. di San Marzano riuscì a riprendersi Saati e a collegarla con Massaua attraverso una linea ferroviaria, evitando di dare battaglia, nel Marzo 1888, all’esercito dell’Imperatore Giovanni, riuscendo a strappare un mezzo successo senza colpo ferire. Il suo successore, gen. Baldissera, creò truppe coloniali adeguate all’ambiente, formate dai famosi ascari eritrei che si distinsero subito per mobilità e fedeltà, e seppe muoversi con estrema sicurezza nella complessa situazione abissina, avvalendosi delle inimicizie tra i capi locali e dosando i rifornimenti di armi per espandere l’influenza italiana in maniera più efficace3.

Il Presidente del Consiglio Crispi, rimasto in carica una prima volta dal 1887 al 1891, e tra i più grandi fautori dell’espansione italiana in Africa, trattò con Menelik, negus dello Scioà, rifornendolo di armi per indebolire l’Imperatore

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Giorgio Rochat, Il colonialismo italiano, Loescher editore, Torino 1973, pp. 20-23.

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Giovanni che, morendo in battaglia contro i Dervisci nel Marzo 1889, gli aprì la strada al trono etiopico con il pieno appoggio delle istituzioni italiane. Nelle settimane successive il conte Antonelli, rappresentante italiano alla corte abissina, ottenne dal nuovo regnante la stipulazione di un trattato di amicizia e alleanza, il

Trattato di Uccialli, firmato il 2 Maggio 1889, che riconosceva all’Italia il possesso

del lembo settentrionale dell’altopiano e proclamava altresì, con una formulazione ambigua ed un sospetto errore di traduzione, il protettorato italiano sull’Etiopia.

L’azione militare si combinò con quella diplomatica e i battaglioni di ascari di Baldissera occuparono Cheren e Asmara nell’estate 1889, estendendo il dominio italiano su tutto l’altopiano settentrionale che, dal 1 Gennaio 1890, fu costituito in colonia sotto il nome di Eritrea. In aggiunta, la penetrazione italiana lungo le coste somale dava i primi risultati concreti, con la proclamazione del protettorato italiano sul Benadir. Tali successi erano stati possibili grazie alla crisi etiope, provocata dalla morte dell’Imperatore Giovani, e non fu compreso dagli italiani che un’ulteriore espansione avrebbe causato la resistenza degli etiopi, oltre ai problemi posti dall’ostilità dei Dervisci nei territori settentrionali dell’Eritrea4.

Il secondo governo Crispi, in carica dal 1893 al 1896, si lasciò facilmente convincere a riprendere le operazioni africane per distrarre l’opinione pubblica dalla crisi economica e dalle tensioni sociali latenti all’interno della penisola. Nel Luglio 1894, il gen. Baratieri conquistò Cassala sconfiggendo i Dervisci, deteriorando la situazione militare in Eritrea e provocando un ulteriore dispersione di truppe italiane che incoraggiò i capi abissini a fare fronte comune e dare battaglia contro l’invasore europeo. Come se non bastasse, nel Dicembre 1894, scoppiò la rivolta nei domini italiani, dove le grandi confische di terre coltivabili aveva profondamente irritato la popolazione indigena, soffocata dai battaglioni di ascari che schiacciarono la sommossa ad Halai e sconfissero ras Mangascià, nel Gennaio 1895, occupando il Tigré, Adigrat, Adua, Axum e Macallé, ma le forze abissine non capitolarono totalmente e riuscirono ad unirsi all’esercito dell’Imperatore Menelik.

Da qui in avanti si palesarono gli equivoci della politica del governo italiano, considerato che si approvò l’occupazione del Tigré senza inviare rinforzi per stabilizzare la situazione e far fronte alla certa reazione abissina, che poteva contare su un esercito di 100.000 uomini e che ottenne delle facili vittorie, nel Dicembre 1895, contro i sorpresi comandi italiani. Di fronte a queste sconfitte, Crispi decise di

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inviare ingenti rinforzi per una pronta vittoria e far fronte ad una vasta opposizione popolare al suo governo, ma la situazione delle truppe in Africa Orientale non era delle migliori, a causa degli scarsi e difficili rifornimenti. Nonostante le difficoltà, nella notte del 1 Marzo 1896, le truppe italiane marciarono verso il campo abissino di Adua con l’intenzione di affrontare il nemico in una posizione favorevole, dato il terreno montuoso e l’oscurità della notte ma, a loro sfavore, giocava la netta differenza di forze in campo, 16.000 italiani contro i 50-70.000 soldati di Menelik, e la poca conoscenza del territorio, elementi che furono fatali ai reggimenti italiani, nella maggior parte dispersi e distrutti. La tragica sconfitta di Adua segnò la fine di ogni programma espansionistico per circa un quindicennio e, se sul piano militare la debacle era riparabile, sul piano politico mise a nudo gli equivoci di una politica di potenza condotta senza le forze necessarie, incoraggiando l’opposizione popolare contro le istituzioni. Di Rudinì, capo del governo e successore di Crispi, venne chiamato a governare per trovare un accordo di pace con Menelik e l’intesa fu firmata il 26 Ottobre 1896 ed osservata per quasi quarant’anni, anche se con varie tensioni5.

Negli anni successivi, sotto la guida di Ferdinando Martini, commissario straordinario in Eritrea dal 1897 al 1907, la colonia si assestò non portando avanti gli esperimenti di colonizzazione sulle terre confiscate e quest’ultime vennero rese ai proprietari indigeni, con effetti positivi per la tranquillità interna. Una coltivazione di tipo capitalistico, come quella del cotone, venne sviluppata nel sud del paese grazie a tecnici e capitali italiani che sfruttavano la manodopera indigena e, inoltre, venne costruita una ferrovia a scartamento ridotto che collegava Massaua, Asmara, Cheren e Agordat. Lo sviluppo economico della colonia, però, fu lentissimo per la scarsezza di capitali disponibili e le non favorevoli condizioni climatiche e del terreno. Le aspirazioni di una rivincita sugli abissini furono accantonate e nel 1906 l’Italia firmò, con Francia e Gran Bretagna, un accordo in cui le tre potenze si impegnavano a rispettare l’integrità territoriale dell’Etiopia e delimitavano le rispettive zone di penetrazione economica, riconoscendo la preminenza degli interessi italiani nel nord e nel sud del paese6.

Negli stessi anni si sviluppò la seconda colonia italiana sulla costa meridionale della Somalia, formalmente sottoposta al sultanato di Zanzibar. Con una

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Rochat, Il colonialismo italiano, cit., pp. 25-27.

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serie di trattati commerciali e protettorati, a partire dal biennio 1889-1890, l’Italia aveva attestato la propria autorità su un territorio vastissimo ma scarsamente popolato, una pianura povera di acqua in cui l’unica attività era l’allevamento nomade o seminomade e dove solo lungo la costa e il corso dei due fiumi, lo Uebi Scelebi ed il Giuba, esistevano campi irrigati e insediamenti stabili, con un’agricoltura primitiva fondata sulla schiavitù. In aggiunta, il clima era molto pesante per gli europei e poche le possibilità di sviluppo economico ma, in compenso, non esisteva un’organizzazione politica unitaria e la modesta penetrazione italiana non incontrò gravi ostacoli. In un primo tempo il governo ricorse a compagnie private per lo sfruttamento e l’organizzazione territoriale, che però diedero pessima prova e, per ovviare al problema, dal 1905 la Somalia divenne una regolare colonia e il dominio italiano fu reso effettivo sulla zona costiera centrale, dopo scontri e sanguinose rappresaglie. Si trattava, anche questa volta, di una colonia che non rendeva, anche se non costava molto, né offriva possibilità di sviluppo, a causa degli scarsi investimenti italiani che furono concentrati nelle spese militari e nello sfruttamento capitalistico di alcune zone più ricche, lasciando il grosso della popolazione in una disperata miseria7.

Dopo il primo momento di riflusso e di abbandono, l’atteggiamento dei governi italiani dopo la sconfitta di Adua fu di salvaguardare l’avvenire con una politica di status quo e di accordi internazionali, senza abbandonare l’espansione coloniale, che si fa prudente e non contempla che il ricorso ai mezzi diplomatici e, localmente, alla penetrazione pacifica8.

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