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Le resistenze ad oltranza della Corte di Cassazione

Come poi si vedrà, al S.C. va riconosciuto il grande merito di aver deli-neato l’autonomia ed autosufficienza del procedimento disciplinare, al cui interno si configurano unitariamente sia la fase delle indagini sia quella della decisione sulla violazione disciplinare.

Di cui la corretta lettura delle regole, per cui l’istruttoria interna del consiglio notarile non è oggetto di autonoma impugnazione avanti al giudice amministrativo, come si era ritenuto in un primo momento, in quanto inidonea a ledere i diritti del notaio, posto che le prove dovranno poi essere assunte avanti alla commissione, senza assumere alcun valore al di fuori di tale momento.

Del pari anche la richiesta di avvio del procedimento disciplinare non può essere autonomamente impugnata, perché è davanti alla commis-sione che si dovrà valutarne il fondamento.

Questo per evidenziare che anche la Corte di legittimità, re melius

per-pensa, modifica i propri convincimenti alla luce dell’approfondimento

delle questioni che la riforma del 2006 ha posto in rilievo nelle sue prime fasi di attuazione.

È invece proprio con riferimento al rapporto tra procedimento disci-plinare e Convenzione europea dei diritti umani che il S.C. mantiene un atteggiamento di totale ostilità, anche a costo di arrivare talora a letture parziali e monche delle decisioni della Corte Europea, pur di avallare la tesi insostenibile per cui il procedimento disciplinare e le sue sanzioni sarebbero del tutto estranei alla nozione di pena delineata a Strasburgo.

53 Cass. SS. UU., 7.8.2012, n. 14172: «l’irrevocabilità della sentenza emessa dal con-siglio nazionale forense, che dispone l’annullamento per motivi formali (nella specie, per difetto di sottoscrizione) della decisione del consiglio dell’ordine degli avvocati che abbia irrogato la sanzione disciplinare, non si traduce in una preclusione compor-tante l’impossibilità di riesaminare i fatti posti a fondamento degli addebiti, e quindi in una consumazione del potere disciplinare, poiché il giudicato si riferisce al solo accertamento della nullità, la quale non si propaga agli atti precedenti a quello dichia-rato invalido».

Che vi sia una motivazione di fondo che resta nascosta è però facile ad evidenziarsi: il nostro ordinamento ha sempre configurato autonoma-mente l’illecito disciplinare da quello penale, da cui peraltro è nato, se si ricordi che nel passato non esisteva la nozione di sanzione non penale, dato che l’illecito minore era punito con l’ammenda. Infatti è solo con le prime depenalizzazioni della metà degli anni ’60 del secolo scorso, ad es., che le violazioni del codice della strada hanno assunto un rilievo non più penale, configurandosi così una sanzione afflittiva sì ma di altra natura.

Senonché questa autonomia, come si è visto nel paragrafo precedente, non può essere formale, giacché quel che conta è il carattere afflittivo della sanzione, non il nomen iuris, come la Corte dei diritti umani insegna dal 1976 e come poi è stato detto con riferimento a fattispecie cui il nostro ordinamento non ha dato pari rilievo, ad es. per la patente di guida o alle quali è giunta poi a seguito dell’intervento della Corte costituzionale, come in tema di confisca.

Se dunque si vuol mantenere la coerenza del sistema delle fonti, è dav-vero impossibile rendere impermeabile il solo procedimento disciplinare alle regole della Convenzione dei diritti umani, perché mancano argo-menti seri e consistenti per dire, ad es., che assume natura penale la con-fisca di un bene, quale che ne sia il valore (anche un cacciavite dunque) mentre la destituzione di un notaio, la sua sospensione o – come accaduto, sanzioni pecuniarie che passano i 50.000 euro ed arrivano a superare i 200.000 – sarebbero escluse da tale natura.

La verità è invece un’altra: il sistema disciplinare ne verrebbe scon-quassato, perché il legislatore del 2005 e quello delegato del 2006 non si sono resi conto che la riforma doveva coordinarsi con le fonti sovraordi-nate: creando ad es. le commissioni disciplinari come giudice specializ-zato anziché speciale, come si dirà nella seconda parte ed impedendo che un notaio possa essere giudicato due volte, come indicato sopra.

Ma il tentativo di salvare ad ogni costo il sistema asistematico tradisce la funzione nomofilattica del S.C., il cui compito non è di respingere gli attacchi a costo di negare l’evidenza, perché il rispetto della Convenzione dei diritti umani è più importante di ogni altra questione: sia il legislatore ad intervenire subito per rimettere ordine alle regole, perché difendere l’indifendibile è un ruolo che non si addice alla nostra Cassazione.

Due sono quindi i dati ineludibili che si traggono dalle decisioni della Corte dei diritti umani: il primo è che la natura penale della sanzione si ricava dalla sua afflittività valutata in concreto, dal che la conseguenza che è penale la regola che affligge; il secondo è che una volta giudicati su determinati fatti, è vietato procedere un’altra volta per gli stessi, perché è

il giudizio in quanto tale a costituire un male in sé per chi venga sottopo-sto a processo: ne bis in idem.

Vedremo invece subito come il S.C., per scansare questi principi fon-damentali di civiltà, che sono oggi anche principi comunitari, sia giunto ad affermare che il bene giuridico protetto dalle sanzioni disciplinari è diverso da quello oggetto della sanzione penale, quando la Corte di Stra-sburgo ha colpito proprio ragionamenti di questo tipo, perché ciò che conta è solo se per quei fatti sia prevista una sanzione penale e non moti-vazioni formaliste per cui si vorrebbe infliggere una seconda sanzione in quanto la prima tutela appunto altri interessi.

Il secondo ragionamento del S.C., ancora più incredibile, è quello che ha messo nella penna della Corte dei diritti umani parole che non ha scritto: tagliando un pezzo di una decisione in cui la Corte ha detto che la questione disciplinare riguarda diritti quantomeno civili, sicché non serve verificare se riguardi anche questioni penali, il S.C. ha affermato che secondo quella giurisprudenza si tratterebbe solo di questioni civili e non penali.

Di qui l’idea per cui il notaio giudicato in sede penale possa essere giudicato di nuovo in sede disciplinare, il che sebbene sia testualmente previsto dalla disciplina in esame, è in contrasto con la carta dei diritti fondamentali.

Un tale modo di leggere le sentenze è però francamente inaccettabile dalla Corte di Roma, che ha grandi giudici capaci di sentenze memorabili e da cui si può pretendere il rispetto rigoroso delle sentenze che proteg-gono i diritti umani.

Il primo caso accennato è stato oggetto di una sentenza del 2017, che tra l’altro si è pronunciata senza necessità, perché aveva ritenuto inam-missibile il gravame per difetto di autosufficienza. Meglio sarebbe stato quindi fermarsi lì, giacché non si vede la ragione, una volta ritenuto inam-missibile un ricorso, per entrare nel merito della controversia.

Dato però che poi le decisioni entrano in circolazione anche quando formulano principi estranei alla decisione, vanno prese in considerazione le parole testuali della sentenza, sebbene obiter dicta54.

54 La sentenza è Cass. 3.2.2017, n. 2927, in Foro it., 2017, I, c. 843 ed il primo motivo di ricorso è stato appunto dichiarato inammissibile perché «il ricorso avrebbe dovuto trascrivere o riassumere quanto meno stralci significativi della decisione passata in giudicato in modo da dimostrare la identità tra i fatti accertati nel giudizio penale e quelli oggetto del presente procedimento disciplinare, così da consentirne alla Corte di Cassazione la verifica». Tuttavia il S.C. aggiunge che «per completezza si rileva comunque l’infondatezza della doglianza».

Queste appunto le parole della decisione: «occorre innanzitutto pre-mettere che in materia di responsabilità disciplinare dei notai, della L. n. 89 del 1913, art. 147, lett. a), come modificato dal D.Lgs. n. 249 del 2006, configura come illecito condotte che, seppur non tipizzate, siano comun-que idonee a ledere la dignità e la reputazione del notaio, nonché il decoro ed il prestigio della classe notarile, la cui individuazione in concreto è rimessa agli organi di disciplina ed è integrato, dalle regole di etica pro-fessionale e dal complesso dei principi di deontologia propro-fessionale. In sostanza, la condotta intanto è sanzionabile in quanto ne sia in concreto accertata la idoneità a ledere l’interesse meritevole di tutela. Va al riguardo ancora sottolineato che, mentre integra l’ipotesi di cui all’art. 147, lett. a), anche la occasionale condotta illecita, assume rilevanza sotto il profilo di cui all’art. 147, lett. b), la reiterata violazione delle norme di cui ai principi di deontologia professionale dei notai.

Alla stregua di tali premesse, non possono condividersi i richiami for-mulati dal ricorrente alla giurisprudenza della CEDU in tema di viola-zione del divieto del bis in idem con riferimento alla natura (penale) delle norme sanzionatorie dettate in tema di illecito disciplinare dei notai.

In primo luogo, deve escludersi l’identità delle fattispecie in presenza delle quali si configurano la responsabilità penale e quella disciplinare, atteso che gli elementi costitutivi dell’illecito disciplinare si realizzano, come si è detto, ove i comportamenti posti in essere possano provocare discredito al notaio e alla intera categoria ovvero ancora quando si rea-lizza la violazione ripetuta e non occasionale dei principi di deontologia professionale.

D’altra parte, in relazione alla natura penale della norma incrimina-trice, secondo la giurisprudenza consolidata della Corte europea, la veri-fica va compiuta secondo i tre criteri, noti comunemente come i “criteri di Engel” (cfr. Engel e altri c. Paesi Bassi, 8.6.1976, Serie A n. 22). Il primo criterio è la qualificazione giuridica del reato in base al diritto nazionale, il secondo è il carattere stesso del reato e il terzo è il grado di severità della pena in cui rischia di incorrere la persona interessata. Il secondo e il terzo criterio sono alternativi e non necessariamente cumulativi. Ciò non esclude tuttavia un approccio cumulativo se l’analisi distinta di ciascun criterio non permette di raggiungere una conclusione chiara sull’esistenza di un’accusa penale (v. Jussila c. Finlandia (GC), n. 73053/01, p.p. 30-31, CEDU 2006 XIV; e Ezeh e Connors c. Regno Unito (GC), nn. 39665/98 e 40086/98, p.p. 82-86, CEDU 2003 X).

Se non può darsi rilevanza alla qualificazione giuridica, operata secondo la legislazione e la valutazione dello stato nazionale, il carattere

penale della norma va determinato con riferimento alla natura intrinseca della fattispecie incriminatrice e va escluso qualora essa, come nel caso di procedimenti disciplinari a carico dei notai, abbia come destinatari – contrariamente a quanto avvenuto, ad es. nelle fattispecie considerate dalla CEDU con le recenti sentenze del 10.2.2015, Kiiveri/Finlandia e del 15.11.2016, sul ricorso n. 24130/11 contro Norvegia (aventi a oggetto illeciti in materia tributaria previsti da disposizioni di carattere generale nei con-fronti dei contribuenti) – gli appartenenti a un ordine professionale e sia preordinata allo effettivo adempimento dei doveri inerenti al corretto eser-cizio dei compiti assegnati ai notai dall’ordinamento. Ed invero, la respon-sabilità disciplinare dei notai trova fondamento nella violazione di precetti che sono dettati con la finalità essenzialmente preventiva di assicurare il rispetto di regole deontologiche, la cui osservanza ha l’obiettivo specifico che sia effettivamente attuata la funzione istituzionale del notaio – che è preposto alla verifica della conformità degli atti al modello legale – e, attraverso i poteri di vigilanza e repressivi del consiglio notarile, che sia impedito l’esercizio della professione in contrasto con quelli che sono i principi ai quali deve ispirarsi il comportamento del notaio. Pertanto, in considerazione della autonomia e della specificità delle misure volte a contrastare la violazione dei doveri dei notai, le sanzioni disciplinari non possono farsi rientrare nel sistema sanzionatorio penale e tale qua-dro normativo non è certo contraddetto dall’applicabilità al procedimento disciplinare di istituti mutuati dal diritto penale in considerazione, da un canto, della rilevanza dell’interesse tutelato e, dall’altro, dalla esigenza di assicurare idonee garanzie a tutela dei soggetti incolpati. Del resto, il principio dell’autonomia e dell’eterogeneità del sistema sanzionatorio, in sede penale e in sede di disciplinare, seppure con riferimento al proce-dimento disciplinare dei magistrati – sotto il profilo in esame del tutto sovrapponibile a quello nei confronti dei notai – è stato enunciato dalle Sezioni Unite della S. C, con la decisione n. 4004 del 2016, secondo cui è possibile la “irrogazione della sanzione della rimozione anche dopo il giu-dicato penale di condanna con pena accessoria di estinzione del rapporto d’impiego, atteso che gli effetti della sanzione disciplinare permangono, mentre quelli della sanzione penale possono estinguersi per amnistia o riabilitazione” (SU 4004 del 2016)».

Questa lettura sposta la valutazione del giudice dalla verifica circa l’afflittività della sanzione alla funzione della disposizione sanzionatoria, che è proprio quanto la Corte di Strasburgo ha evidenziato essere erroneo quando ha negato, ad es., che l’arresto amministrativo possa assumere natura non penale perché appunto amministrativo. Lo stesso ha detto poi

più di recente – basta invertire l’ordine degli addendi – quando ha preci-sato che «in materia di giudicato, la sottoposizione a procedimento penale di un soggetto che sia stato già sanzionato con l’inflizione di una pena amministrativa la cui natura sostanzialmente penale può essere desunta dalla sua eccessiva severità e delle ripercussioni sociali e professionali che questa comporta, costituisce violazione del principio del ne bis in idem di cui all’art. 4, prot. n. 7 CEDU e del diritto ad un equo processo di cui all’art. 6, comma 1, CEDU»55.

A parte l’autoreferenzialità, nella sentenza del S.C., dei richiami ai pro-pri precedenti, che nella decisione servono a dare ragione a se stessa, il punto centrale è l’evidente distonia tra la premessa per cui «il terzo [indice della sentenza Engel] è il grado di severità della pena in cui rischia di incorrere la persona interessata» e la tesi per cui «in considerazione della autonomia e della specificità delle misure volte a contrastare la violazione dei doveri dei notai, le sanzioni disciplinari non possono farsi rientrare nel sistema sanzionatorio penale».

Questo è il classico ragionamento apodittico: il problema non consiste infatti nel negare l’autonomia delle sanzioni disciplinari, ma nel rilevare anzitutto se i fatti siano stati già oggetto di un procedimento penale, come in quel caso era successo56 e poi se per i medesimi fatti si voleva procedere una seconda volta.

Anche ipotizzando che a tanto si potesse giungere, una volta ricordato che la Grande sezione della Corte di Strasburgo ha considerato il secondo giudizio per gli stessi fatti un male in sé57, l’unica possibilità di evitare di violare il divieto di bis in idem consiste nella circostanza che il giudizio non abbia ad oggetto una sanzione di carattere afflittivo58, come sarebbe

55 CEDU, Grande Stevens - Italia, 4.3.2014, in Foro it., 2015, IV, c. 129.

56 Il notaio, in quel caso, «era stato ritenuto responsabile dei reati di peculato (in riferimento ai 12 atti oggetto delle imputazioni) e di truffa in danno dei clienti (per 72 degli atti in contestazione, per gli altri vi era stata pronuncia di assoluzione e di prescrizione)».

57 Ricordiamo la decisione cit. nel par. prec. 10.2.2009, Zolotukhin-Russia, par. 65 e par. 67, con cui la Corte ha ribadito come l’articolo 4 del protocollo n. 7 non sia limitato a garantire il diritto a non essere punito due volte per lo stesso fatto, ma sia esteso al diritto a non essere perseguito o condannato due volte ed ancora ribadisce che l’obiettivo di cui all’articolo 4 del Protocollo n. 7 è di vietare la ripetizione di un procedimento penale, che sia stato concluso con una decisione definitiva.

58 E di nuovo, come ha detto la Corte UE, Grande sezione, 26.2.2013, causa C-617/10, par. 35, «occorre inoltre ricordare che, ai fini della valutazione della natura penale delle sanzioni tributarie, sono rilevanti tre criteri. Il primo consiste nella qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale, il secondo nella natura dell’illecito e il terzo

potuto essere, ad es., se si fosse trattato di risarcire i danni (nel caso: la restituzione ai clienti delle imposte riscosse in misura maggiore di quella effettivamente versata all’erario).

Ciò che rileva, infatti, è se il secondo giudizio abbia natura risarci-toria, il che è possibile oppure al contrario retributiva o di prevenzione generale, il che è vietato se la sanzione prevista sia afflittiva59.

Da ciò consegue che di fronte alla natura afflittiva della sanzione disci-plinare, nel caso pari ad otto mesi di sospensione, davvero non c’è modo di dire che la diversità dei beni oggetto di tutela consentisse il secondo procedimento, in quanto connotato dalla natura disciplinare, perché è evi-dente a tutti che il notaio ha subito in tal modo un secondo giudizio per i medesimi fatti ed ha subito in sede disciplinare una seconda sanzione di carattere afflittivo e dunque penale.

Tutto il resto sono parole per negare la verità ed in particolare per dimenticarsi che «le indicazioni fornite dal diritto interno hanno un valore relativo»60.

Quanto al secondo problema, cioè del contenuto effettivo delle deci-sioni della Corte di Strasburgo, occorre evidenziare un clamoroso infortu-nio della Corte, perché riteniamo sia avvenuto in buona fede.

Con altra decisione del 2016, di fronte alla contestazione relativa alla circostanza che le udienze delle fasi disciplinari non sono pubbliche e ciò in violazione dell’art. 6 CEDU, il S.C. ha detto che «va al riguardo comun-que considerato come le diverse espressioni “accusa penale” e “accusato di un reato”, rinvenibili nei tre paragrafi dell’art. 6 art. 6 CEDU, non coin-volgano l’ambito dei procedimenti disciplinari in seno agli ordini pro-fessionali, in quanto questi procedimenti sono riconducibili al campo del diritto civile (Corte di Giustizia, 24.10.1983, causa 7299/75 e 7496/76, Albert e Le Compte c. Belgio, secondo la quale, in tema di provvedimenti disciplinari, “il diritto di continuare ad esercitare la professione... costitui-sce un diritto, sub specie diritto civile, ai sensi dell’art. 6 CEDU”; Corte di Giustizia 13.9.2007, causa n. 27521/04, Moullet c. Francia)».

Ciò per concludere che «l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo non prevede che tutta l’attività processuale debba svolgersi pubblicamente, ma assicura (salve talune specificate eccezioni) al soggetto

nella natura nonché nel grado di severità della sanzione in cui l’interessato rischia di incorrere (sentenza del 5.6.2012, Bonda, C-489/10, punto 37)». Se non è afflittiva si può procedere di nuovo, altrimenti no.

59 Sentenza 23.7.2002, Janosevic c. Svezia.

che debba far valere i suoi diritti o debba veder determinati i suoi doveri o debba rispondere di un’accusa il diritto ad una pubblica udienza, in tal senso esigendo che il processo debba prevedere un momento di tratta-zione in un’udienza pubblica, e non che vi si debba tenere tutto lo svolgi-mento processuale»61.

In questo momento non interessa tanto la questione della pubblicità delle udienze, che comunque la stessa sentenza della Corte dei diritti umani invocata dalla Corte risolve in modo esattamente contrario62, ma la circostanza affermata dal S.C. come statuizione della Corte dei diritti umani, che il procedimento disciplinare avrebbe natura “civile” – dice «sono riconducibili al campo del diritto civile» – per sottrarlo alla disci-plina penale.

61 Cass. 5.5.2016 n. 9041.

62 Corte CE 24.10.1983, causa 7299/75 e 7496/76, Albert e Le Compte c. Belgio ha detto che «orbene, ancorché sia data la possibilità di rimediare a tale mancanza in una fase successiva della procedura, una siffatta misura interna si pone in aperto con-trasto con la lettera dell’art. 6 CEDU. Invero, in disparte le deroghe consentite dal secondo periodo dell’art. 6, che espressamente ammette eccezioni al principio di pub-blicità delle udienze, in tutti i casi in cui durante la pendenza di un procedimento disciplinare si incida su un diritto civile si riespande inevitabilmente la tutela generale approntata dalla norma relativa all’equo processo. Pertanto, nel caso specifico, la Corte non ravvisa l’esistenza di alcun fatto riconducibile alle eccezioni elencate dall’art. 6, in quanto la vera natura della condotta addebitata ai ricorrenti non concerne questioni di segreto professionale o di protezione della salute o della vita privata dei pazienti, che da sole giustificherebbero una deroga ai principi del giusto processo. Da ciò consegue che i ricorrenti avevano senz’altro diritto ad un’udienza pubblica». Il S.C. ha affrontato tale problema in astratto, senza verificare in concreto la sussistenza delle eccezioni ammesse dall’art. 6 CEDU, limitandosi a ribadire «l’orientamento consolidato di

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