II. Trattamento o punizione inumano e tortura
3. Opportunità di seguire il primo modello nella costruzione del reato di tortura in Italia
Nel Capitolo II si è cercato di dimostrare come l’Italia sia inadempiente sotto numerosi aspetti rispetto agli obblighi internazionali in materia di tortura. Particolarmente evidente è l’inottemperanza rispetto all’art. 4 della Convenzione ONU del 1984, che impone la criminalizzazione degli atti di tortura.
Se nel prossimo Capitolo si cercherà di verificare nei fatti l’insufficienza dell’apparato normativo del nostro ordinamento rispetto alla prevenzione della tortura, nei precedenti paragrafi si sono brevemente analizzate le scelte effettuate, in materia di criminalizzazione della stessa, in altri ordinamenti, ed in particolare in quelli spagnolo e francese, che si sono rivelati paradigmatici di due diversi modelli. Il primo è, come si è visto, caratterizzato da un recupero quasi letterale della definizione di tortura di cui all’art. 1 della Convenzione e dalla conseguente qualificazione del reato come proprio; il secondo si contraddistingue, invece, per una maggiore libertà nella definizione e per la costruzione del reato come comune, con la previsione di una circostanza aggravante per le ipotesi in cui sia commesso da un pubblico ufficiale.
Sebbene entrambi i modelli posseggano pregi e difetti, il primo sembra preferibile al secondo, anche de lege ferenda nel nostro ordinamento, per tre ordini di motivi. Il primo – e forse il più banale – consiste nel considerare come esso, attraverso una maggiore fedeltà rispetto agli obblighi internazionali, metta al riparo da accuse di inadempimento in tale sede.
L’art. 1 della Convenzione ONU del 1984, inoltre, definisce la tortura attraverso l’indicazione di elementi costitutivi, la cui interpretazione, per quanto possa risultare problematica, è ormai da decenni frutto di attenzione da parte degli strumenti di
monitoraggio per la prevenzione della tortura. Questo permette di arginare i pericoli di indeterminatezza, propri ad esempio del sistema francese.
In ultimo, come ha messo in luce la dottrina spagnola, la tortura, posta in essere da un rappresentante dello Stato, non offende solo la dignità umana, ma mette anche in discussione il rapporto fra lo Stato e il singolo, poiché trasforma il tutore dei diritti umani in aggressore degli stessi. Questa plurioffensività merita, quindi, di essere racchiusa in un fatto tipico ad hoc, l’unico in grado di coglierne il reale e pieno disvalore.
IV Capitolo. La tortura in Italia
Premessa
L’Italia è firmataria di tutti gli atti internazionali dotati di efficacia vincolante che
contengono il divieto di tortura e che impongono una serie di obblighi per la sua prevenzione e repressione. Oltre al Patto sui Diritti Civili e Politici, reso esecutivo con l. 25 ottobre 1977, n. 881, il nostro Paese ha autorizzato la ratifica della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo con la l. 4 agosto 1955, n. 848 e del suo Protocollo 11, entrato in vigore il 1° novembre 1998, nonché della Convenzione ONU contro la tortura con la l. 3 novembre 1988, n. 498 e della Convenzione europea per la prevenzione della Tortura con la l. 2 gennaio 1989, n. 7. Inoltre, dopo aver firmato il Protocollo Opzionale alla Convenzione ONU contro la tortura, il 20 agosto 2003, l’Italia ha depositato lo strumento di ratifica il 3 aprile 2013.
Sul nostro Paese gravano, quindi, i numerosi obblighi preventivi, procedurali e sostanziali, che derivano da tutti questi strumenti e che sono stati analizzati supra Capitolo II. Appare opportuno verificare se e in che misura l’Italia si sia conformata a questi impegni, partendo dal livello costituzionale, passando poi ad esaminare il piano processuale ed infine quello sostanziale.
La Carta costituzionale italiana non contiene un espresso divieto di tortura, ma l’art. 13, comma 4, afferma che “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. In queste parole, sebbene non venga utilizzata in maniera esplicita l’espressione “tortura”, è certamente scolpita l’essenza della stessa e non si può pensare che i Costituenti, molti dei quali ne avevano avuto esperienza diretta nelle carceri fasciste e nei campi di prigionia nazisti, non volessero riferirsi ad essa375. Non è di poca importanza sottolineare inoltre che, l’art. 13,
375 Si leggano le testimonianze pubblicate sulla rivista il Ponte nel 1949 (n. 3), intitolata “Carceri:
esperienze e documenti”. Alla richiesta di Piero Calamandrei, promotore di un’inchiesta sulle carceri e sulla tortura, di raccontare la propria esperienza di detenzione nel periodo del fascismo risposero molti intellettuali. La questione posta da molti in maggior rilievo è la situazione carceraria e la conseguente necessità di una riforma penitenziaria. In alcuni contributi, si trovano, tuttavia, anche testimonianze di torture vissute: A. BANFI, Anima e corpo, pp. 412 ss., che narra delle torture subite durante l’arresto a Milano (feroci percosse, acqua e sale inghiottiti a forza in quantità tali da provocare un senso di nausea e soffocamento, combustione di materiale sotto i piedi, trascinamento per le scale con mani e piedi legati, minaccia di fucilazione…) e A. BEI, Episodi di vita in un carcere femminile, pp. 372 ss., che racconta, oltre che delle torture subite al momento dell’arresto, delle violenze messe in atto dalle
comma 4, è l’unica disposizione del testo costituzionale, costellato di limiti nei confronti dello strumento penalistico, ad imporre il ricorso alla sanzione penale376. La Costituzione impone quindi un obbligo di criminalizzazione della tortura, seppure con un ambito più ristretto rispetto alle fonti internazionali, riferendosi solamente alla violenza fisica e morale nei confronti di soggetti privati della libertà personale, mentre la definizione datane in ambito internazionale prescinde da questo elemento.
Nel nostro ordinamento è poi sancito, a livello processuale, il principio nemo
tenetur se detegere, da cui deriva in particolare il diritto al silenzio dell’imputato e
rispetto al quale la tortura è intrinsecamente incompatibile. La tortura giudiziaria ha infatti proprio lo scopo di ottenere una confessione (il mezzo di prova più ambito nel sistema inquisitorio) dal già presunto reo, che non a caso ha, in questo modello di concezione del processo penale, l’obbligo di rispondere377.
In un sistema che pretenda di ispirarsi al modello accusatorio, non si può, invece, non tutelare l’autodeterminazione dell’imputato e il processo deve essere reso immune dall’ingresso di dichiarazioni estorte in qualsiasi modo. A ciò sono preposti nel Codice di procedura penale italiano l’art. 64 c.p.p. per quanto riguarda l’interrogatorio dell’indagato e gli artt. 188, 189 e 191 c.p.p. in materia di principi generali sulle prove. Questi ultimi svolgono, a differenza dell’art. 64 c.p.p., una funzione più ampia, essendo volti a garantire la libertà morale di tutte le persone coinvolte nel procedimento (e non solo dell’imputato), nonché la genuinità delle prove che entrano nel processo378.
Così come nella Costituzione, anche nel Codice di procedura penale non si utilizza la parola tortura, perché non è solo contro di essa che si vogliono proteggere i diversi soggetti processuali, bensì contro tutti i mezzi idonei ad incidere sulla libertà di autodeterminazione, come ad esempio l’ipnosi, il lie-detector, la narcoanalisi, che si
suore che gestivano il carcere in cui era reclusa. Si veda anche P. BARILE, Il ritorno della tortura, cit., pp. 233 ss. L’autore, che aveva subito le sevizie dei nazifascisti, analizza in questo scritto il prepotente ritorno della tortura avvenuto durante la seconda guerra mondiale.
376 Cfr. L. FERRAJOLI, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, Vol. II, Laterza, 2007,
p. 328; L. FERRAJOLI, Dei diritti e delle garanzie. Conversazione con Mauro Barberis, Il Mulino, 2013, p. 42 e A. PUGIOTTO, Repressione penale della tortura e Costituzione: Anatomia di un reato
che non c’è, in Diritto Penale Contemporaneo, 17 febbraio 2014, pp. 6 ss.
377 Cfr. F. CORDERO, Guida alla procedura penale, UTET, 1986, pp. 47 ss. e P. TONINI, Manuale
di procedura penale, 13. Edizione, Giuffré, 2013, p. 7
378 Cfr. G. CONSO, V. GREVI, M. BARGIS, Compendio di procedura penale, 6. Edizione, CEDAM,
collocano sulla linea di confine fra la violenza morale configurabile come tortura e la semplice limitazione della libertà morale379.
Il nostro ordinamento si trova quindi in linea con gli obblighi internazionali, prevedendo una serie di tutele nei confronti dell’ingresso nel processo penale di dichiarazioni estorte con tortura: da un lato, esso vieta l’uso di tutte quelle tecniche che influiscono sulla libertà morale e, dall’altro, introduce la sanzione processuale dell’inutilizzabilità di tali dichiarazioni. Le regole del processo vietano, quindi, il ricorso alla tortura e lo rendono oltretutto controproducente, poiché le dichiarazioni così ottenute non possono essere introdotte nel procedimento e, laddove lo fossero, renderebbero comunque invalida la decisione presa dal giudice sulla loro base. Problemi di rispetto degli obblighi internazionali si pongono, però, sotto molti altri aspetti. Vi è, ad esempio, la questione dell’eccessiva durata dei processi, che contribuisce troppo spesso a determinare la prescrizione a procedimento iniziato. Questo accade forse con frequenza ancora maggiore di fronte ad episodi di tortura, dato che, in questi casi, le indagini spesso non sono tempestive e i tempi del procedimento si allungano di conseguenza. La questione della durata dei processi è, però, ben più ampia rispetto a quella dell’adempimento degli impegni presi in materia di tutela dalla tortura e non potrà, quindi, essere affrontata in questa sede. Buona parte dei problemi di conformità dell’ordinamento agli obblighi internazionali si pone nella prassi ed è, in gran parte, ricollegabile al clima di generalizzata indifferenza dell’opinione pubblica e di diffusa impunità, a livello istituzionale, nei confronti degli abusi posti in essere dalle forze dell’ordine.
Molti ritengono, infatti, che la tortura in Italia non esista e che, se si verificano degli abusi, questi non riguardino i cittadini “comuni”, ma solo i “delinquenti” o, in generale, coloro che minacciano l’ordine e la sicurezza pubblica. Anche quando da questi episodi viene colpita una persona, inquadrabile, nell’opinione dei più, fra i cittadini “comuni” e non fra gli emarginati, i facinorosi o i criminali, la reazione è di difesa (o quantomeno di giustificazione) dell’operato delle forze dell’ordine380. Emblematica è, in questo senso, la dichiarazione rilasciata da un testimone del caso
379 Cfr. G. AMATO, Art. 13, in R. BRANCA (a cura di), Commentario alla Costituzione, Rapporti
civili (art. 13 – 20), Bologna, 1977, pp. 28 ss.
380 Cfr. G. ZAGREBELSKY, In quello spazio vuoto di diritti, in L. MANCONI e V. CALDERONE,
Quando hanno aperto la cella. Storie di corpi offesi. Da Pinelli a Uva, da Aldrovandi al processo per Stefano Cucchi, il Saggiatore, 2014, pp. 1 ss.
Aldrovandi, il quale aveva sentito le urla della vittima, un “normale” ragazzo di 18 anni, provenire da sotto la propria finestra: “Insomma, la polizia si deve anche difendere delle volte. Io la penso così. Voi la potete pensare in un’altra maniera. Io dico che le forze della polizia fanno il loro dovere, la notte, e che dovere che fanno! Delle volte ci rimettono anche la pelle. E delle volte, purtroppo ci sono anche delle vittime. E ci sono e non c’entrano niente”381.
È indispensabile e urgente, alla luce di tutto questo, un’opera di sensibilizzazione della società nei confronti di questo tema, così come un’azione di sradicamento di quello spirito di corpo che è proprio delle forze dell’ordine italiane, secondo quanto denunciato dal Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura nel suo ultimo rapporto sull’Italia382, e che si riflette in ostacoli alle indagini, in copertura dei colleghi anche attraverso la falsificazione delle prove e in mancanza di adeguate sanzioni disciplinari nei confronti dei responsabili degli abusi.
Tutto ciò è frutto di una cultura radicata e risalente nel tempo, come dimostrano il numero e la collocazione temporale degli abusi denunciati383, che per essere superata richiederebbe un lungo e attento lavoro di sensibilizzazione sia della società civile che delle forze di polizia.
Intanto, il più importante e, allo stesso tempo, più semplice passo che il legislatore può compiere, è costituito dall’introduzione del reato di tortura, che costituisce
381 Dal documentario È Stato morto un ragazzo di Filippo Vendemmiati.
382 Report to the Italian Governement on the visit to Italy carried out by the European Committee for
the Prevention of torture and Inhuman or Degrading Treatment or Punishment (CPT) from 13 May to 25 May 2012, p. 8
383 I fatti sono numerosissimi e, alcuni, risalenti nel tempo. Cfr. A. CHIARELLI, Malapolizia,
Newton, 2011, pp. 1 ss.; L. MANCONI e V. CALDERONE, Quando hanno aperto la cella, cit., pp. 1 ss.; A. PUGIOTTO, Repressione penale della tortura e Costituzione, cit., pp. 8 ss. e P. GONNELLA,
La tortura in Italia. Parole luoghi e pratiche della violenza pubblica, DeriveApprodi, 2013, pp. 1 ss.
I primi casi, in cui è emerso l’utilizzo di tortura sono stati il caso Fort negli anni Quaranta e il caso Egidi negli anni Cinquanta. Quest’ultimo aveva fatto particolare scalpore, perché il P.M. nella requisitoria, basandosi su una frase di Francesco Carnelutti, aveva affermato la legittimazione dell’uso della violenza fisica, se moderata. Cfr. F. CARNELUTTI, A proposito di tortura, in Riv. di diritto
processuale, 1952, pp. 234 ss. e la postilla di P. CALAMANDREI, pp. 239 ss.
Alcuni casi denunciati risalgono, poi, agli anni Settanta e Ottanta e riguardano le violenze poste in essere nei confronti dei brigatisti. Ad esempio, gli abusi realizzati in occasione del sequestro del generale Dozier, sono stati accertati nella sentenza del Tribunale di Padova, sez. I, 15 luglio 1983 (Gli imputati furono condannati a poco più di un anno di reclusione con sospensione condizionale). Incredibile è, poi, la storia di Giuseppe Gulotta, che nel 1976, sottoposto a brutali violenze da parte di una decina di Carabinieri, aveva confessato di aver ucciso due Carabinieri. Nonostante la sua ritrattazione e la denuncia delle violenze, era stato condannato all’ergastolo. Nel 2007, però, uno dei Carabinieri coinvolti nei maltrattamenti ha raccontato delle violenze che erano state inflitte al signor Gullotta e questi è stato assolto per non aver commesso il fatto dopo più di venti anni di reclusione. Questi sono alcuni dei casi più risalenti, per i casi più recenti v. infra, par. 3.2.
un’“elementare garanzia primaria negativa”384 e che rappresenta un obbligo internazionale (e secondo alcuni anche costituzionale) da troppo tempo inadempiuto da parte del nostro Paese.
L’opportunità di questa novella legislativa è sostenuta oltretutto da un’analisi dei casi concreti, che permette di mettere in luce l’inidoneità del sistema normativo attuale nei confronti della repressione della tortura, a differenza di quanto a lungo sostenuto dal Governo italiano di fronte agli organi di monitoraggio per la prevenzione della tortura385.
Si può aggiungere che la situazione del nostro ordinamento è diventata addirittura paradossale da quando, nel 2002, è stato introdotto l’art. 185-bis nel Codice penale militare di guerra386. In Italia, infatti, la tortura è oggi un reato di per sé perseguibile se messa in atto durante una guerra – lo stato d’eccezione per antonomasia –, mentre è qualificabile solamente come percosse, lesioni, minacce, se viene commessa nella quotidiana gestione dell’ordine pubblico, delle indagini e nei luoghi di restrizione della libertà personale.
La necessaria introduzione del reato di tortura non deve, però, accompagnarsi all’idea che essa sia la panacea di tutti i mali. La complessità della prova, da cui sono caratterizzati gli episodi di tortura, in parte rimarrebbe, sebbene ridotta dalla circostanza che questi fatti non sarebbero più costretti in fattispecie inadeguate a coglierne tutti gli aspetti e il disvalore. Allo stesso modo non potrebbe essere completamente eliminata la difficoltà di far emergere questi casi, spesso legata al timore di ritorsioni.
È certo, però, che la sussistenza di un reato perseguibile d’ufficio, con requisiti ben determinati, pene sufficientemente alte e termini di prescrizione lunghi, o addirittura, come alcuni propongono, imprescrittibile, rappresenterebbe un notevole ridimensionamento dei problemi connessi alla repressione del fenomeno della tortura. Allo stesso tempo l’esistenza del reato da un lato svolgerebbe, nei confronti delle forze dell’ordine, una fondamentale funzione general-preventiva e, dall’altro, potrebbe costituire un modo per avviare la necessaria opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica su questi temi.
384 L. FERRAJOLI, Principia iuris, cit., p. 328 385 Si veda supra Capitolo II