II. La Caserma Nino Bixio di Bolzaneto
3.2.2. La prassi generalizzata di maltrattamenti nel carcere di Ast
Nel dicembre 2004, nel carcere di Asti, a seguito di una lite fra due detenuti e un assistente di polizia penitenziaria, i primi vennero posti in isolamento. I detenuti furono spogliati e portati in celle prive di vetri alle finestre, di materasso per il letto, di lavandino, di sedie o di sgabelli, dove rimasero, i primi giorni completamente nudi, rispettivamente per due mesi e venti giorni. Durante questo periodo fu loro razionato il cibo, consistente soltanto in pane e acqua.
Durante l’isolamento, inoltre, i due detenuti venivano costantemente insultati e ripetutamente picchiati con calci, schiaffi e pugni, anche più volte al giorno e soprattutto di notte per impedire loro di dormire, causando ad uno dei due varie lesioni personali, fra cui la frattura dell’ottava costola ed ecchimosi diffuse sul torace e sull’addome491.
Questi fatti che, secondo il giudice di prime cure che si è occupato della vicenda, “potrebbero essere agevolmente qualificati come “tortura””, facevano parte di una prassi generalizzata di vessazioni, anch’essa provata durante il processo, utilizzata per punire i detenuti più problematici e mantenere l’ordine all’interno dell’istituto penitenziario. È interessante sottolineare come il giudice ponga l’accento sul fatto che questi comportamenti furono resi possibili da un sistema di connivenza con molti dirigenti e agenti della Polizia Penitenziaria492.
Se uno dei due detenuti non avesse tentato il suicidio, la vicenda sarebbe con ogni probabilità rimasta all’interno delle mura del carcere, poiché non vi era la volontà delle vittime di denunciare l’accaduto. È stato infatti questo gesto che ha spinto il P.M. a svolgere le indagini, che si sono rivelate particolarmente difficoltose per la
491 Cfr. Tribunale di Asti, 30 gennaio 2012, giudice Crucioli, in Questione Giustizia, 2012, pp. 197 ss.
con commento di L. PEPINO, Maltrattamenti in carcere, tortura, giudici; P. GONNELLA, La tortura
in Italia, cit., p. 51
492 Come scrive il giudice del Tribunale di Asti: “Coloro che non erano d’accordo venivano isolati o
comunque additati come infami o (per usare un eufemismo) scocciatori”. Cfr. Tribunale di Asti, 30 gennaio 2012, giudice Crucioli, in Questione Giustizia, 2012, pp. 197 ss.
peculiarità dei soggetti ascoltati e per la reticenza di alcuni di essi. A seguito delle indagini svolte, è stata esercitata l’azione penale nei confronti di cinque agenti della Polizia Penitenziaria, con l’imputazione di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p.. Il giudice del Tribunale di Asti ha innanzitutto ritenuto provati “al di là di ogni ragionevole dubbio” sia la prassi generalizzata di vessazioni come modalità per mantenere l’ordine nel carcere, sia i fatti contestati agli imputati nei confronti dei due detenuti, mantenuti per lungo tempo in isolamento in condizioni inumane e degradanti.
Dopo aver premesso che l’unica fattispecie davvero idonea a racchiudere i fatti oggetto di imputazione, sarebbe stata quella di “tortura” ai sensi della Convenzione ONU del 1984, il giudice si è interrogato circa la possibilità di applicare ai fatti il reato di maltrattamenti in famiglia.
La sentenza ripercorre quindi l’evoluzione interpretativa della Cassazione rispetto all’art. 572 c.p., concludendo che, al di là della collocazione sistematica della disposizione fra i reati contro la famiglia, essa possa applicarsi anche al di fuori del contesto strettamente familiare, in presenza di alcuni requisiti del rapporto fra il soggetto attivo e quello passivo, che permettano di qualificare la relazione come parafamiliare: devono quindi sussistere relazioni intense e abituali e consuetudini di vita fra i soggetti; devono essere presenti la soggezione di una parte nei confronti dell’altra e la fiducia riposta dal soggetto più debole in quello che ricopre una posizione di supremazia.
In questa prospettiva, a parere del giudice, il rapporto fra detenuto e agente della polizia penitenziaria può rientrare nella fattispecie di maltrattamenti. Per questo motivo, sussistendo la condotta ed essendo la stessa qualificabile come abituale, l’elemento oggettivo della fattispecie risultava integrato nel caso di specie.
Il Tribunale di Asti ha invece escluso che potesse essere ravvisato l’elemento soggettivo, in quanto il dolo generico necessario per la fattispecie di cui all’art. 572 c.p. consiste nella coscienza e volontà di sottoporre in maniera abituale la vittima a sofferenze fisiche e psicologiche, avvilendone la personalità, mentre gli agenti avevano come obiettivo primario l’instaurazione di un sistema di vessazioni e sopraffazioni per punire e non per svilire la personalità dei due detenuti e soprattutto per dare un segnale forte e inequivocabile agli altri.
Per questo motivo il Tribunale di Asti ha ritenuto che l’applicazione della fattispecie dei maltrattamenti in famiglia al caso concreto avrebbe rappresentato un’interpretazione estensiva in malam partem. Il giudice ne ha perciò escluso l’integrazione e ha riqualificato il fatto come abuso di autorità nei confronti di detenuti o arrestati ex art. 608 c.p.. A suo parere sarebbe infatti questa norma ad attagliarsi meglio alle circostanze del caso concreto, dovendosi intendere per “misure di rigore” non soltanto quelle previste dalla legge ma non consentite nel caso concreto, bensì anche quelle non permesse tout court, come quelle applicate ai due detenuti nel caso di specie.
Essendo il reato di cui all’art. 608 c.p. punito con una pena massima di trenta mesi e dovendosi applicare la disciplina della prescrizione precedente alla l. 5 dicembre 2005, n. 251, perché più favorevole ai rei, il termine di prescrizione risultava decorso già prima del primo atto interruttivo. Il Tribunale ha perciò prosciolto gli imputati per estinzione del reato loro ascritto493.
Nei confronti di questa sentenza la pubblica accusa ha presentato ricorso immediato per Cassazione. I giudici di legittimità hanno mostrato di condividere i motivi di ricorso nei confronti della sentenza del Tribunale di Asti, censurando il ragionamento del giudice di primo grado.
Sebbene il giudice di merito avesse correttamente ritenuto sussistente l’elemento oggettivo, tuttavia aveva sbagliato ad escludere l’integrazione dell’elemento soggettivo. Il dolo richiesto dalla fattispecie di maltrattamenti è generico e non hanno in alcun modo rilevanza le finalità dell’agente.
Per ritenere sussistente nel caso di specie l’elemento soggettivo era quindi sufficiente verificare se gli agenti avessero avuto coscienza e volontà nell’infliggere sofferenze fisiche e morali in maniera abituale, mentre non doveva venir preso in considerazione l’obiettivo degli stessi di intimidire gli altri detenuti in modo da creare un sistema di vessazioni e sopraffazioni atto a mantenere l’ordine.
La Cassazione non ha escluso, inoltre, che si sarebbero potute applicare le fattispecie di cui all’art. 572 c.p. e 608 c.p. in concorso, in quanto non si pone fra le due norme un rapporto di specialità.
Ciò premesso, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso della pubblica accusa per mancanza di interesse, in quanto nel frattempo si era prescritto anche il più grave reato di maltrattamenti494.
Ci si trova così, ancora una volta, in presenza di una storia di giustizia negata: di fronte a fatti di tortura, come il giudice stesso li ha qualificati, accertati al di là di ogni ragionevole dubbio, l’ordinamento non si è mostrato in grado di rispondere in maniera adeguata.
Il ritardo dell’emersione dell’episodio e le difficoltà delle indagini, tipici dei casi di tortura, hanno fatto sì che il reato di abuso di autorità contro arrestati o detenuti si prescrivesse prima dell’inizio del procedimento penale e, di fronte ad un’interpretazione restrittiva del giudice di Asti, poi censurata dalla Suprema Corte, è bastato il solo ricorso immediato per Cassazione, perché cadesse in prescrizione anche il più grave reato di maltrattamenti in famiglia.