Sono molte le fattispecie comuni che possono applicarsi ai casi di tortura fisica o psicologica. Per quanto riguarda la tortura fisica, vengono in rilievo innanzitutto il delitto di percosse, di cui all’art. 581 c.p.451, e quello di lesioni, di cui all’art. 582 c.p.452.
449 Cfr. A. CHIARELLI, Malapolizia, Newton, 2011, pp. 1 ss.
450 Art. 605: “Chiunque priva taluno della libertà personale è punito con la reclusione da sei mesi a
otto anni.
La pena è della reclusione da uno a dieci anni, se il fatto è commesso: […] 2) da un pubblico ufficiale, con abuso dei poteri inerenti alle sue funzioni. […]”
Cfr. T. PADOVANI, Lezioni II sulla tortura alla Scuola Superiore S. Anna di Pisa, 5 febbraio 2007, dattiloscritto
451 Art. 581: “Chiunque percuote taluno, se dal fatto non deriva una malattia nel corpo o nella mente, è
punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a euro 309”.
452 Art. 582: “Chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel
corpo o nella mente, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni.
Se la malattia ha una durata non superiore ai venti giorni e non concorre alcuna delle circostanze aggravanti previste negli articoli 583 e 585, ad eccezione di quelle indicate nel numero 1 e nell'ultima parte dell'articolo 577, il delitto è punibile a querela della persona offesa”.
Le percosse così come le lesioni lievi, che procurino una malattia di durata inferiore a venti giorni, sono reati perseguibili a querela. Questa circostanza non si adatta affatto alla repressione della tortura, essendo notoria la difficoltà per le vittime delle violenze di denunciare i fatti, in particolare a causa del timore di ritorsioni.
Inoltre la risposta sanzionatoria di questi reati appare del tutto inadeguata: le percosse sono infatti punite con la reclusione fino a sei mesi o la multa fino a 309 euro, mentre le lesioni con la reclusione da tre mesi a tre anni.
Una pena maggiormente efficace è prevista nel caso in cui le lesioni siano aggravate e possano qualificarsi come gravi o gravissime ai sensi dell’art. 583 c.p.453. Nel primo caso si applica infatti la reclusione da tre a sette anni e, nel secondo, la pena detentiva si muove in una cornice edittale che va dai sei ai dodici anni. Si deve tuttavia tenere conto del fatto che se, come ritiene la maggior parte della dottrina e la giurisprudenza, le lesioni gravi e gravissime non sono fattispecie autonome ma circostanze aggravanti, esse rientrano nel bilanciamento fra circostanze ex art. 69 c.p., da cui può derivare un giudizio di equivalenza o di subvalenza fra aggravanti e attenuanti. In questo caso anche di fronte ad una malattia grave o insanabile, all’indebolimento o alla perdita di un senso, la risposta sanzionatoria torna a collocarsi fra i tre mesi e i tre anni, sanciti per le lesioni non aggravate, o addirittura in un ambito inferiore, ove il giudizio sia di subvalenza454.
Un ulteriore ostacolo all’applicazione del reato di lesioni consiste nella previsione dell’evento “malattia” per l’integrazione del fatto tipico. La “malattia” è interpretata in dottrina e in giurisprudenza in due modi: secondo alcuni e in particolare la giurisprudenza prevalente, essa deve essere intesa come “qualsiasi alterazione, non
453 Art. 583: “La lesione personale è grave e si applica la reclusione da tre a sette anni:
1) se dal fatto deriva una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa, ovvero una malattia o un'incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai quaranta giorni;
2) se il fatto produce l'indebolimento permanente di un senso o di un organo;
La lesione personale è gravissima, e si applica la reclusione da sei a dodici anni, se dal fatto deriva: 1)una malattia certamente o probabilmente insanabile;
2) la perdita di un senso;
3) la perdita di un arto, o una mutilazione che renda l'arto inservibile, ovvero la perdita dell'uso di un organo o della capacità di procreare, ovvero una permanente e grave difficoltà della favella;
4) la deformazione, ovvero lo sfregio permanente del viso”
454 Cfr. G. LANZA, Obblighi internazionali d’incriminazione penale della tortura ed ordinamento
interno, cit., pp. 749 ss.; P. PALERMO, Tortura e trattamenti inumani e degradanti in Italia, cit., p.
solo funzionale, ma anche meramente anatomica, dell’organismo”455; secondo altri, la malattia dovrebbe essere circoscritta alla sola menomazione funzionale, non essendo sufficiente l’alterazione anatomica, che non comporti una disfunzione dell’organismo456.
Entrambe le interpretazioni, riportate ai casi di tortura fisica, rischiano di lasciare impunite una serie di ipotesi. Si pensi alla falanga, la tecnica che consiste nel picchiare le piante dei piedi con un bastone, provocando forti dolori ma senza lasciare tracce o, se si segue il secondo orientamento, alla tortura che Alan Dershowitz propone di rendere legale per contrastare il terrorismo, consistente nell’infilare degli spilli sotto le unghie457.
Nell’ambito della repressione della tortura fisica può infine farsi rientrare il delitto di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p.458, nonostante la sua collocazione sistematica fra i reati contro la famiglia appaia fuor di luogo rispetto alla tortura. Esso punisce infatti chiunque maltratti non soltanto una persona della famiglia o comunque convivente, ma anche una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia.
La Corte di Cassazione ha affermato che, perché possa configurarsi questo reato, deve sussistere una relazione parafamiliare fra soggetto attivo e soggetto passivo ed ha indicato una serie di parametri in base ai quali è possibile identificarla: devono sussistere relazioni intense e abituali; devono essere presenti consuetudini di vita fra i soggetti; deve essere riscontrabile la soggezione di una parte nei confronti dell’altra e il soggetto più debole deve poter riporre fiducia in quello che ricopre una posizione di supremazia459.
Di recente, come si vedrà infra 3.2.2., la Cassazione ha ritenuto che il rapporto che si instaura fra gli agenti di Polizia Penitenziaria e i detenuti sia inquadrabile in queste caratteristiche e che, quindi, la fattispecie sia applicabile alle ipotesi di
455 S. CANESTRARI e altri, Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, cit., p. 455
456 Per la prima interpretazione si veda: Cass., Sez. V, 2 febbraio 1984, n. 5258 in Giustizia Penale,
II, 1985, pp. 32 ss. e Cass., Sez. V, 26 aprile 2010, n. 22781, Rv. 247518. Per la seconda interpretazione: S. CANESTRARI e altri, Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, cit., p. 455 e Cass. 15 ottobre 1998, in Cassazione penale, 2000, pp. 384 ss.
457 Cfr. A. DERSHOWITZ, Terrorismo, Carocci, 2003, pp. 125 ss.
458 Art. 572: “Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della
famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da due a sei anni”.
maltrattamenti in carcere. Tuttavia la necessità di questo elemento, per l’integrazione del fatto, lascia fuori dall’ambito di applicazione della fattispecie tutti quei casi di tortura che non avvengano in un contesto così qualificato.
La pena prevista per questo reato non è irrisoria, poiché quella base va dai due ai sei anni, mentre nelle ipotesi aggravate, nel caso in cui sia provocata una lesione grave alla vittima, va dai quattro ai nove anni e, nel caso in cui la lesione sia gravissima o segua la morte, dai dodici ai ventiquattro anni.
Anche questa fattispecie non sembra tuttavia poter supplire alla mancanza di una fattispecie ad hoc contro la tortura. Oltre a quanto si diceva prima in relazione all’ambito di applicazione della disposizione, la collocazione sistematica e la sua natura di reato comune non permettono di cogliere la reale gravità dei maltrattamenti posti in essere dai rappresentanti dello Stato. L’applicabilità dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 9, c.p., relativa alla commissione del fatto con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o ad un pubblico servizio, non sposta di molto la questione, essendo, in qualità di aggravante comune, non sottraibile ad un eventuale giudizio di equivalenza (o di subvalenza) con le circostanze attenuanti.
Inoltre la condotta richiede il requisito dell’abitualità, poiché il reato di maltrattamenti è necessariamente abituale, mentre l’assoluta inderogabilità del divieto di tortura non permette che la violenza psico-fisica inflitta possa essere tollerata, sebbene isolata.
Manca infine in questa, come in tutte le fattispecie fino ad ora analizzate, un elemento fondamentale della definizione di tortura, atto a legare insieme tutti gli elementi di cui essa si compone, vale a dire il dolo specifico. Lo scopo di ottenere informazioni o confessioni, punire, intimidire o discriminare è un elemento fondamentale del fatto tipico del reato di tortura: esso infatti collega tutti i frammenti della condotta e ne rende palese il disvalore. L’atto di tortura non consiste semplicemente nella violenza esercitata nei confronti di un soggetto su cui si ha una posizione di forza, ma si esprime più precisamente nella coartazione della sua volontà per la realizzazione degli scopi perseguiti dal soggetto agente460.
460 Cfr. T. PADOVANI, Lezioni II sulla tortura alla Scuola Superiore S. Anna di Pisa, 5 febbraio