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Il problema della doppia qualificazione giuridica di uno stesso fatto.

EFFETTI DELLE INTESE VIETATE SUI CONTRATTI A VALLE: RICOSTRUZIONE CRITICA DELLE TESI PROSPETTATE

2.10. Il problema della doppia qualificazione giuridica di uno stesso fatto.

Seguendo la via della validità del contratto «a valle», resta da affrontare il problema della possibilità di attribuire una duplice qualificazione giuridica ad uno stesso fatto.

Detto in altri termini, si tratta di stabilire se in presenza di un contratto valido, sia possibile configurare in capo al contraente danneggiato il risarcimento del danno e a quali condizioni il danno possa essere considerato ingiusto, in conformità a quanto prescritto dall’art. 2043 c.c. in materia di responsabilità extracontrattuale da fatto illecito. L’interrogativo che si pone è, dunque, se una condotta contrattuale scorretta ma legittima posta in essere da un’impresa in posizione dominante, o che ha realizzato un’intesa restrittiva della concorrenza, si configuri come “abuso del diritto” e sia, per tale ragione, fonte di risarcimento danni.

La problematica in esame è collegata con quella, più generale, che si interroga se l’abuso del diritto costituisca un principio generale del nostro diritto civile, problema che nasce dal fatto che nel nostro ordinamento l’esistenza di un simile principio non è mai stato codificato, né tantomeno costituzionalizzato, a differenza di quanto avvenuto in altri paesi, come la Spagna e la Francia.

Si ha abuso del diritto, tutte le volte in cui il diritto esercitato è normativamente previsto e attribuito al soggetto, che tuttavia lo utilizza per realizzare fini ulteriori e diversi da quelli previsti dal legislatore, in violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede e correttezza. La conseguenza prevista dalla giurisprudenza, per

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reagire a un tale abuso, è quella dell’inidoneità dell’atto compiuto a produrre i suoi effetti, nonché dell’impossibilità di conseguire o conservare i vantaggi così ottenuti e i diritti connessi209.

La questione è stata affrontata in una nota sentenza della Corte di Cassazione, cd. caso Renault210, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità del diritto di recesso esercitato dalla casa automobilistica Renault nei confronti delle diverse concessionarie di automobili con le quali aveva stipulato altrettanti contratti di concessione211.

Nella sentenza in questione, la Corte riconosce l’esistenza nel nostro ordinamento di un principio generale che vieta l’abuso del diritto, capace di attribuire al giudice il potere di sindacare il contenuto degli atti di autonomia privata.

In particolare, la Cassazione ha ritenuto che il superamento dei limiti interni o esterni del diritto ne determina il suo abusivo esercizio, e che la regola violata consiste nell’obbligo di comportarsi secondo lealtà e correttezza.

«Il principio di buona fede in senso oggettivo deve accompagnare il contratto per tutto il suo svolgimento, dalla formazione all’esecuzione, ed impone alle parti di comportarsi in modo da tener conto degli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di norme specifiche.

La sua violazione, pertanto, costituisce di per sé inadempimento, e può comportare l’obbligo di risarcire il danno che ne sia derivato»212.

209 Gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto, così come sviluppati nella sentenza n. 20106/2009, di

seguito richiamata nel testo, sono: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che l’esercizio di quel diritto possa effettuarsi secondo modalità non predeterminate dal legislatore; 3) il fatto che il concreto esercizio del diritto, pur muovendosi all’interno della cornice formale prevista dalla legge, si svolga secondo modalità censurabili da un punto di vista giuridico o extragiuridico; 4) la circostanza che, per l’effetto della modalità di esercizio, si manifesti una sproporzione tra il beneficio del titolare del diritto e “l’alterazione” della situazione giuridica che subisce controparte.

210 Cass., 18 settembre 2009, n. 20106, in I contratti, 2010, 1, p. 5 e ss., con nota di G. D’AMICO, Recesso

ad nutum, buona fede e abuso del diritto; in Foro it., 2010, 1, p. 85 ss., con nota di A. PALMIERI, e R. PARDOLESI, Della serie «a volte ritornano»: l’abuso del diritto alla riscossa; C. SCOGNAMIGLIO, Abuso del diritto, buona fede, ragionevolezza (verso una riscoperta della pretesa funzione correttiva dell’interpretazione del contratto?), in Nuova giur. civ. comm., 2010, II, p. 139 ss.

211 In breve i fatti di causa: tra il 1992 e il 1996 la Renault recedeva da circa duecento contratti di

concessione di vendita, sulla base di una clausola contrattuale che gli consentiva di effettuare il recesso ad nutum. Le concessionarie agivano, così, in giudizio per ottenere il risarcimento del danno cagionato dall’abusivo esercizio del diritto di recesso. In primo e secondo grado, i concessionari risultavano soccombenti e le loro richieste venivano rigettate. Giunta la questione in Cassazione, la Corte, sul presupposto dell’esistenza, nel nostro ordinamento, di un principio generale che vieta l’abuso del diritto, riconosceva, al contrario, la sindacabilità dei motivi di recesso, potendo il Giudice anche compiere interventi correttivi del regolamento contrattuale, al fine di riportare il contratto a giustizia.

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Attraverso lo strumento della buona fede oggettiva, il giudice può controllare, e se del caso modificare, il regolamento negoziale, tenendo conto degli opposti interessi delle parti213.

In tale prospettiva si ritiene, quindi, che perseguire un fine ulteriore e diverso rispetto a quello individuato dal legislatore è scorretto e sleale, e potrebbe solo dar luogo all’obbligo di risarcimento del danno cagionato dall’inadempimento dell’obbligo di buona fede e non anche quello di negare tutela all’atto compiuto nell’esercizio del diritto, ma in modo abusivo.

Quanto al danno risarcibile, il principio generale, in materia di responsabilità extracontrattuale, è sancito dall’art. 2043 c.c. che prevede la risarcibilità del solo danno “ingiusto”.

Nella recente casistica della giurisprudenza, la responsabilità civile viene estesa per tutelare anche una parte contraente verso l’altra, attraverso l’art. 1440 c.c. in tema di dolo incidente.

In particolare la giurisprudenza, con la sentenza citata - ribaltando il precedente orientamento che per molto tempo aveva ritenuto che tale norma non fosse applicabile al di fuori dei casi di responsabilità precontrattuale di cui all’art. 1337 c.c.214 – ha ritenuto che la regola da essa posta rappresenti un principio generale, applicabile anche al di fuori dell’ipotesi di rottura ingiustificata delle trattative, implicante il dovere di comportarsi in maniera corretta e leale, e di fornire alla controparte ogni dato rilevante, conosciuto o conoscibile con l’ordinaria diligenza, ai fini della stipula del contratto215.

In sostanza, ciò implica che la conclusione di un contratto valido ed efficace non impedisce la proposizione di un’azione risarcitoria, per violazione della regola di cui

213 In particolare, la Corte di legittimità ha statuito che: «in caso di recesso “ad nutum”, pur se

contrattualmente previsto, il controllo giudiziale del contratto deve essere condotto in base al principio della buona fede oggettiva, che consente intervento giudiziale anche modificativo o integrativo del regolamento pattuito, a garanzia del giusto equilibrio degli interessi». Secondo la Corte, il giudice del merito avrebbe dovuto riconoscere il diritto al risarcimento del danno, per l’esercizio di tale facoltà in modo non conforme alla correttezza e alla buona fede.

214 L’art. 1337 c.c. prevede l’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative

e nella formazione del contratto, per non incorrere in una fattispecie di responsabilità precontrattuale. L’art. 1338 c.c., dal canto suo, prevede una fattispecie specifica di responsabilità precontrattuale, quando una parte, conoscendo o dovendo conoscere una causa di invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all’altra parte, è tenuta a risarcire all’altra parte il danno da questa subito per aver confidato senza sua colpa nella validità del contratto

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all’art. 1337 c.c.216

Tale disposizione, così come l’art. 1440 c.c., possono essere considerate norme di tutela dell’autonomia negoziale di ciascuna parte, contro gli abusi perpetrati dall’altra, la cui lesione costituisce danno ingiusto ai sensi dell’art. 2043 c.c., a prescindere dalle vicende relative al contratto concluso.

Proprio l’art. 1440 c.c., infatti, ammette una possibile convivenza tra un contratto valido e un’azione di risarcimento del danno, tutte le volte in cui una parte con il suo comportamento scorretto abbia indotto l’altra a stipulare un contratto a condizioni diverse da quelle che si sarebbero stipulate in un contesto non viziato, commette un illecito e il danno che ne deriva è suscettibile di essere risarcito.

216 Così R. ALESSI, Tutele contrattuali, in Manuale del diritto privato, (a cura di) S. Mazzamuto, Torino,

2016, p. 27 ss.

Una volta ammesso che la responsabilità precontrattuale per violazione dell’obbligo di buona fede nel corso delle trattative vada oltre il caso in cui tale violazione abbia impedito la conclusione del contratto, ossia l’ipotesi della rottura ingiustificata delle trattative, o di un contratto valido, ed è l’ipotesi contemplata dall’art. 1338 c.c., è necessario ammettere che sussista tale forma di responsabilità tutte le volte in cui sia posto in essere un contratto valido che tuttavia abbia prodotto un danno per la parte che è stata vittima del comportamento scorretto.

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CAPITOLO III

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