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L’aberrante pronuncia della Cassazione sull’apologia di genocidio (Cass pen., sez I, 29 marzo 1985).

1. L’apologia ex art 414, comma 3, c.p.

1.4. L’aberrante pronuncia della Cassazione sull’apologia di genocidio (Cass pen., sez I, 29 marzo 1985).

Un esempio tangibile di interpretazione “involutiva” della fattispecie in esame si ritrova nella sentenza n. 507 del 1985, con cui la Corte di cassazione ha condannato per apologia di genocidio (art. 8, comma 2, l. n. 962 del 1967) (357)

alcuni tifosi varesini che, nel corso di una partita di basket fra la Emerson Varese e una squadra di Tel Aviv, avevano inscenato una grossolana manifestazione di ostilità razzista, inalberando striscioni con scritte antiebraiche e scandendo motti dello stesso tenore (358). Discostandosi da un

indirizzo interpretativo ormai consolidato in ordine alla punibilità dell’apologia e disattendendo gli insegnamenti della Corte costituzionale (359), gli Ermellini

confezionano una pronuncia a dir poco bizzarra: premettendo che la norma sull’apologia di genocidio «non si pone nei consueti binari interpretativi dei reati di apologia», essi giustificano un simile dirottamento richiamando «la particolare, singolarissima e mostruosa forma di crimine» cui l’apologia si riferisce, ossia il genocidio; di conseguenza – proseguono i giudici – il fatto in epigrafe andrebbe sanzionato, più che per il pericolo di ingenerare un «improbabile contagio» di propositi concretamente criminosi, «per la sua

intollerabile disumanità, per l’odioso culto dell’intolleranza razziale che

esprime, per l’orrore che suscita nelle coscienze civili, ferite dal ricordo degli stermini perpetrati dai nazisti e dal calvario ancora tragicamente attuale di alcune popolazioni africane ed asiatiche» (360). Ora, come è stato correttamente

rilevato, una simile ipotesi ricostruttiva risente di una «preconcetta e unilaterale enfatizzazione della ratio storicamente sottesa alla l. n. 962 del

357 L’apologia di genocidio (art. 8, comma 2, l. n. 962 del 1967) consiste nel fatto di

“chiunque pubblicamente fa apologia di alcuno dei delitti preveduti dal comma precedente”, ossia dei delitti di cui agli artt. da 1 a 5 della legge medesima, consistenti in atti diretti a commettere genocidio (art. 1), deportazione a fine di genocidio (art. 2) e relative circostanze aggravanti (art. 3), atti diretti a commettere genocidio mediante limitazione delle nascite (art. 4), e atti diretti a commettere genocidio mediante sottrazione di minori (art.5).

358 Per la precisione, sugli striscioni erano riportate frasi quali “Mauthausen reggia

degli ebrei”; “Ebrei saponette, saponette!”; “Hitler l’ha insegnato, uccidere l’ebreo non è reato”.

359 C. cost., sent. n. 65 del 1970, cit. V. supra par. 1.2.

L’apologia

1967» (361). L’obiettivo politico-criminale di prevenire un crimine così enorme e

mostruoso come il genocidio, infatti, non è sufficiente a legittimare una figura di apologia che sfugga alle regole imposte da un moderno sistema penale costituzionalmente orientato, la cui principale funzione – ci preme ribadirlo – non è quella di reprimere atteggiamenti moralmente riprovevoli, ma di prevenire comportamenti concretamente idonei a ledere o a mettere in pericolo determinati beni giuridici (362).

La Cassazione, in sostanza, avrebbe dovuto fornire un’interpretazione del dato normativo meno “emotiva” e maggiormente orientata verso il pericolo concreto. Stando alle argomentazioni dei giudici, però, una simile lettura renderebbe altamente improbabile la verificazione del fatto criminoso; essi, infatti, ritengono che «eccitare attraverso l’apologia al genocidio sarebbe, nella maggior parte dei casi, un reato impossibile se si pretendesse un qualche risultato pratico, un pericolo in qualche modo concretabile di provocazione del genocidio stesso» (363). Sennonché, anche in questo frangente la Suprema

Corte muove da una premessa inesatta, poiché nell’apologia di genocidio l’idoneità dell’azione deve essere valutata in relazione alla possibilità di provocare la reiterazione di un comportamento costituente delitto ai sensi degli artt. da 1 a 5 della legge sul genocidio e non – come ha ritenuto erroneamente la Cassazione – di cagionare la distruzione di un gruppo religioso, nazionale, etnico o razziale, quest’ultimo elemento limitandosi a caratterizzare in forma specifica l’elemento soggettivo doloso dei delitti de quibus. Pertanto, a fronte di questa precisazione, ben si comprende come «non sia affatto impossibile che al

361 G.FIANDACA,Nota a Cass. pen., sez. I, 29 marzo 1985, Abate e altri, in Foro it. 1986,

II, c. 19.

362 Questa prospettiva è condivisa anche da G. GRASSO,Genocidio, in Dig. disc. pen.,

vol. V, Torino 1991, p. 408, il quale, riprendendo a sua volta le considerazioni espresse da G. FIANDACA, Nota, cit. p. 21, rileva come «l’esigenza di disapprovare sentimenti

intollerabili per le coscienze civili o eticamente assai riprovevoli non può apparire decisiva in un sistema penale secolarizzato, nel quale la funzione del diritto penale non può essere ritenuta quella di garantire la purezza etica di azioni o atteggiamenti interiori, ma solo quella di prevenire comportamenti lesivi (…) di beni giuridici». Contra, invece, S. LARICCIA, Due sentenze della Cassazione sul problema dell’ostilità razziale nella società italiana, in Giur. cost. 1986, II, p. 86, il quale ritiene che l’opinione sostenuta nella sentenza in esame sia «esatta e convincente» e che rechi «un importante contributo per una giusta soluzione» al problema dell’intolleranza razziale. Condivide l’interpretazione fornita dalla Cassazione anche G. LA CUTE, Apologia e istigazione,cit., p. 5, il quale ritiene che «l’odioso culto dell’intolleranza razziale debba essere sanzionato per la sua inaccettabile disumanità anche se il rischio di contagio di una forma di razzismo, che potremmo impropriamente definire culturale, possa ritenersi improbabile».

L’apologia

comportamento apologetico si accompagni il pericolo concreto della verificazione del fatto che l’ordinamento riprova» (364). E in ogni caso, anche

qualora l’effettivo contagio di propositi genocidiari fosse improbabile, se ne dovrebbe dedurre che – proprio perché la norma incriminatrice risulta difficilmente applicabile nella realtà – «o sono veramente eccezionali le situazioni cui essa si riferisce (…), ovvero essa è conformata male sul piano della tecnica legislativa» (365).

Quelli sopra esposti, peraltro, non sono gli unici rilievi critici che si possono muovere alla pronuncia in esame. Innanzitutto, si è constatato che l’art. 8 della legge n. 962 del 1967 inasprisce – e non di poco – il trattamento sanzionatorio previsto per gli altri fatti di apologia. Di conseguenza, questa sensibile differenza in termini di severità della pena avrebbe dovuto indurre i giudici a fornire un’interpretazione più restrittiva del dato normativo (366):

l’esatto contrario, invece, di quanto si legge nella sentenza in commento.

Inoltre, premesso che con la repressione dell’apologia di genocidio il legislatore nazionale è andato ben oltre gli obblighi convenzionali – la Convenzione dell’ONU del 9 dicembre 1948, infatti, si limitava a prevedere la repressione della sola istigazione diretta e pubblica a commettere genocidio – risulta ancora più difficile comprendere la ratio di un’interpretazione così drastica e severa (367).

Alla Corte va poi rimproverato di aver respinto la tesi – accolta, invece, in altre pronunce – della «desemantizzazione del linguaggio, in quanto forma espressiva, nella specie ispirata dalla peculiare e momentanea esasperazione del tifo sportivo, priva di intenzionalità lesiva del bene tutelato dalla norma» (368). In altre parole, la Cassazione non ha considerato il contesto della

vicenda, svoltasi durante un incontro di pallacanestro in un palazzetto dello sport. In una situazione del genere, le manifestazioni razziste non avrebbero mai potuto essere univoche, confondendosi con il tifo sportivo che, per quanto

364 G.GRASSO,Genocidio, cit., p. 408.

365 G. FIANDACA, Nota, cit., p. 21. Sul punto v. anche quanto dichiarato dalla Corte

suprema canadese, R v. Zündel, [1992] 2 S.C.R. 731, cit., che, dalla scarsa utilizzazione della norma penale, ha tratto argomento per la sua incostituzionalità, sotto il profilo che l’esperienza ne dimostrerebbe la non essenzialità per una società libera e democratica.

366 In questo senso v. G.FIANDACA,Nota, cit., p. 21; G.GRASSO,Genocidio, cit., p. 408. 367 Sul punto v. G.GRASSO,Genocidio, cit., p. 408; M.PISANI,L’apologia di genocidio in

Cassazione, in Indice pen. 1986, p. 151 e s.

L’apologia

volgare e sgradevole, resta comunque e soltanto tifo. Senza dimenticare, peraltro, che lo stadio è un microcosmo, un luogo a parte, in cui è generalmente «accettato che possa succedere ciò che all’esterno non sarebbe possibile» (369). Si può quindi affermare che nel caso di specie «mancavano (…)

le condizioni obiettive atte a conferire agli slogans e ai simboli antiebraici quella valenza significativa davvero idonea a ingenerare un plausibile pericolo anche di semplice crescita del pubblico consenso a favore dell’antisemitismo attivo» (370).

1.5. La svolta del 2001: un argine alla deriva interpretativa in tema di

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