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L’esempio tedesco e la c.d “menzogna di Auschwitz”.

2. La legislazione penale antinegazionista in Europa Spunti di comparazione.

2.1. L’esempio tedesco e la c.d “menzogna di Auschwitz”.

Originariamente, il codice penale tedesco si limitava a punire i c.d. Hassreden, i discorsi che incitano all’odio e che istigano alla violenza (par. 130 StGB). Successivamente, nei primi anni Novanta, il verificarsi di una serie di manifestazioni a carattere xenofobo e razzista dimostrò come la normativa allora vigente non fosse affatto adeguata a reprimere anche il discorso negazionista. Il par. 130 StGB, infatti, tutelava la pace pubblica attraverso la previsione di alcune specifiche aggressioni alla dignità umana (Menschenwürde), che non sempre ricorrevano nell’ipotesi di negazionismo

548 Per ovvie ragioni, Israele è stato il primo Stato al mondo ad emanare norme

antinegazioniste (legge 8 luglio 1986).

549 L. SCAFFARDI, Oltre i confini della libertà d’espressione, cit., p. 85, osserva come

«queste discrepanze possono apparire tanto più rilevanti se si pensa come molti di questi Paesi appartengano alla “casa comune europea”, e come si possa ancor oggi assistere ad una disomogenea determinazione della fattispecie e delle relative sanzioni, tali da indurre molto spesso a “strategici spostamenti” degli individui che intendono propagandare quelle idee».

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o minimizzazione dell’Olocausto; di conseguenza, tale disposizione risultava spesso inapplicabile al c.d. revisionismo semplice (einfache Auschwitzlüge) (550). Esemplificativo in tal senso fu il caso Deckert, dal

nome dell’allora presidente del partito nazionaldemocratico tedesco, promotore di un’accesa attività di propaganda negazionista: premettendo che la semplice negazione della Shoah non era sufficiente ad integrare la disposizione di cui al par. 130 del codice penale tedesco, il Bundesgerichtshof pronunciò la c.d. “sentenza dell’infamia” (Schandurteil) (551), che suscitò forte indignazione nell’opinione pubblica e spinse il

legislatore tedesco (552) a riformare l’apparato normativo in materia. Al

sopra menzionato par. 130 furono aggiunti due ulteriori commi che, sotto la rubrica “Auschwitzlüge” – letteralmente, “la menzogna di Auschwitz” – puniscono chiunque, pubblicamente o in una riunione, approvi, neghi o minimizzi il genocidio commesso durante il regime nazista, sempreché tali comportamenti siano idonei a turbare la pace pubblica. La disposizione in esame, a dire il vero, tradisce tutta l’indecisione del legislatore che, da un lato, estende la portata della norma anche al negazionismo in senso lato, e quindi alle condotte di minimizzazione e approvazione, ma dall’altro ne riduce inaspettatamente l’applicabilità al solo negazionismo riguardante i crimini commessi dal regime nazionalsocialista. La conseguenza è che non si reprime il negazionismo in quanto generale negazione dei crimini contro l’umanità, ma lo si identifica unicamente con la negazione dell’Olocausto, legittimando e cristallizzando nella norma penale una rappresentazione ridotta di tale fenomeno, corrispondente a quella esistente nell’opinione pubblica tedesca (553).

Ciò detto, però, è opportuno precisare che, qualche mese prima dell’introduzione della suddetta fattispecie, il Bundverfassungsgericht aveva

550 La giurisprudenza tedesca distingue il revisionismo semplice da quello qualificato.

Quest’ultimo sussisterebbe in tutti quei casi in cui l’Olocausto viene presentato come un’invenzione, frutto di un complotto messo a punto dagli stessi ebrei (v. BVerfG, 16 novembre 1993, in Neue Juristiche Wochenschrift 1994, p. 140).

551 BGH, 15 marzo 1994, 1 StR 179/93.

552 La legge di riforma in questione risale al 28 ottobre 1994.

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pronunciato una sentenza “storica” (554), che legittimava la repressione del

negazionismo anche sulla base della legislazione allora vigente. L’episodio in questione riguardava una pubblica assemblea indetta dal Partito Nazional Democratico Tedesco di Monaco, nel corso della quale era previsto anche l’intervento di David Irving, noto contestatore delle risultanze storiche generalmente accettate sullo sterminio degli ebrei. Avuta notizia di questa riunione, la citta di Monaco adottava un provvedimento con cui proibiva ad ogni partecipante all’assemblea di negare i predetti accadimenti storici, giacché simili affermazioni avrebbero integrato i reati di ingiuria, di istigazione all’odio popolare o di offesa alla memoria dei defunti. Contro questa ordinanza, gli organizzatori della riunione ricorrevano dinnanzi alla Corte costituzionale tedesca, ritenendo che un simile divieto avrebbe compromesso inaccettabilmente la libertà di espressione.

Investito della questione, il Bundverfassungsgericht ha preliminarmente rimarcato la distinzione tra manifestazione del pensiero, che si sostanzia in una relazione soggettiva tra l’individuo e il contenuto della sua affermazione, e asserzione di un fatto (Tatsachenbehauptung), caratterizzata, invece, da una relazione oggettiva tra l’affermazione e la realtà. Mentre la prima è sempre meritevole di tutela, la seconda lo è solo se costituisce il presupposto per la formazione di un’opinione, con la conseguenza che tutte le asserzioni di fatti che non sono in grado di contribuire alla formazione di un’opinione, in quanto imprecise o dimostratamente false, restano escluse dalla garanzia costituzionale. Ciò premesso, la Corte di Karlsruhe ha dichiarato che le affermazioni negazioniste, la cui falsità è ampiamente dimostrata, sono asserzioni di fatti non tutelabili, che vanno incriminate perché attentano ai diritti della personalità. Punire il negazionismo è quindi costituzionalmente legittimo; la norma fondamentale sulla libertà d’espressione, infatti, non è dotata di portata illimitata, ma contiene nel suo stesso capoverso la previsione di limiti al suo esercizio. Questi limiti – prosegue la Corte – vanno individuati nella tutela di altri beni costituzionalmente protetti, tra i quali spiccano

554 BVerfG, 13 aprile 1994, il cui testo, tradotto in italiano, si ritrova in Giur. cost.

1994, con nota di M.C. VITUCCI, Olocausto, capacità di incorporazione del dissenso e tutela costituzionale dell’asserzione di un fatto in una recente sentenza della Corte costituzionale di Karlsruhe. La sentenza in questione è altresì denominata Leugnung der Judenverfolgung (Negazione dell’Olocausto).

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l’onore e l’identità personale della comunità ebraica: per i cittadini ebrei, negare l’accadimento storico della Shoah costituisce una prosecuzione della terribile persecuzione cui furono sottoposti durante il nazismo, e quindi una negazione della loro stessa personalità, che è un tutt’uno con la memoria di quegli accadimenti. Da ultimo, il Tribunale costituzionale tedesco ha precisato che, in assenza di una norma specifica sul negazionismo, le affermazioni incriminate dovranno essere ricondotte alla più generale norma sull’ingiuria, egualmente idonea a tutelare l’identità collettiva del popolo ebraico.

A nostro modesto avviso, la distinzione operata dalla Corte tedesca tra opinioni e asserzioni di fatti è troppo poco empirica e ancor meno pragmatica (555); essa, infatti, non fornisce un criterio di differenziazione

vero e proprio e, a causa della sua estrema vaghezza, comporta il rischio di restringere eccessivamente la libertà d’opinione, tanto più che la verità oggettiva del fatto che si afferma diviene qui il parametro per decidere se ci si trovi o meno in presenza di un’opinione costituzionalmente tutelata. Ma – come si interroga un’attenta dottrina – «non è forse troppo pericoloso accettare come criterio centrale nella decisione quello della verifica della verità oggettiva?» (556). Come si può avere la certezza che la verità sia una

piuttosto di un’altra? E, soprattutto, quali sono i confini tra verità storica e verità legale? L’impressione è che la Corte di Karlsruhe, ansiosa di archiviare velocemente la vicenda, non si sia neppure posta questi interrogativi (557) e abbia sottovalutato tutte le difficoltà insite in un giudizio

555 Secondo M. CERASE, La Corte di Karlsruhe alle prese con il revisionismo storico, in

Cass. pen. 1994, p. 2847, è certamente preferibile l’atteggiamento della giurisprudenza italiana «che induce ad un approccio più empirico che non sembra consentire un sindacato giudiziale sui percorsi teorici delle persone, singole o associate». La nostra Corte costituzionale, infatti, «più pragmaticamente (…) ritiene che tutto si possa opinare, finché non si cagioni il pericolo di condotte penalmente illecite».

556 E. FRONZA, Profili penalistici del negazionismo, cit., p. 1034. Nello stesso senso si

esprime M.C. VITUCCI, Olocausto, capacità di incorporazione del dissenso e tutela costituzionale dell’asserzione di un fatto, cit., p. 3391, quando afferma che, ricorrendo al parametro della verità oggettiva di un fatto, «si restringe pericolosamente l’ambito di operatività della tutela costituzionale della libertà di opinione», senza contare che «potrebbe poi mettersi in discussione la stessa verificabilità oggettiva di un fatto».

557 Osservazioni analoghe sono svolte da M.C. VITUCCI, Olocausto, capacità di

incorporazione del dissenso e tutela costituzionale dell’asserzione di un fatto, cit., p. 3391, laddove sostiene che «la Corte avrebbe potuto quanto meno pors[i]» «il problema – non giuridico ma filosofico – della stessa esistenza, oltre che della verificabilità della verità».

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che avrebbe dovuto competere più ad uno storico che non a un giurista. Nel contempo, la rigidità della decisione in esame denota «l’incapacità [della Germania] di risolvere politicamente il problema dell’eredità del nazismo e la necessità di rimuovere drasticamente ideali politici e di vita accolti per anni, per assumere da un giorno all’altro quelli delle potenze vincitrici» (558), quasi fosse uno scotto da pagare per chiudere definitivamente con «un

passato che non vuol passare» (559). Del resto, la necessità di reagire a

manifestazioni di pensiero eversive è tanto maggiore quanto più è instabile l’equilibrio di una comunità statale. Così è stato per la Germania, una «democrazia ferita» (560) che, dimostrando un forte senso di colpa per i

crimini commessi, ha assunto una posizione di assoluto distacco dall’impostazione liberale, bandendo tutte le opinioni minoritarie che fossero storicamente discutibili o comunque non verificabili.

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