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La circostanza aggravante dell’aver agito per finalità di discriminazione o di odio razziale (art 3, legge n 205 del 1993).

1. Le principali ipotesi istigative speciali Cenni introduttivi.

1.5. La circostanza aggravante dell’aver agito per finalità di discriminazione o di odio razziale (art 3, legge n 205 del 1993).

Pur esulando dalla tematica dell’istigazione, una completa indagine critica sul problema del “discorso razzista” richiede di soffermarsi anche sulla circostanza aggravante prevista dall’art. 3, l. n. 205 del 1993, che prevede un aumento della pena fino alla metà allorché un reato sia commesso “per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità”.

La controversa interpretazione della fattispecie in esame ha determinato un acceso contrasto giurisprudenziale, che ha visto contrapporsi due diversi orientamenti interpretativi (492). Secondo l’indirizzo più rigoroso, rivolgersi

ad un esponente di una minoranza etnica con espressioni che combinano una qualità negativa (es. sporco) al dato razziale (es. negro), costituirebbe sempre e comunque un’ingiuria aggravata dalla finalità di discriminazione o odio razziale. L’accertamento di tale finalità, quindi, non sarebbe subordinato ad una verifica circa la reale sussistenza dell’elemento psicologico sottostante al reato, non avendo alcun rilievo la mozione soggettiva dell’agente. Sarebbe invece sufficiente soffermarsi sul contenuto della dichiarazione che, laddove evocasse la razza del soggetto in un contesto di ingiuria, esprimerebbe intrinsecamente un intento di

491 In questi stessi termini si era pronunciata anche la Suprema Corte degli Stati Uniti

d’America quando, nel decidere il caso Yates v. United States, 354 U.S. 298 (1957), cit., aveva ritenuto di applicare al racist speech gli stessi principi a suo tempo formulati per il communist speech. Sul punto v. M. ROSENFELD, Hate Speech in Constitutional Jurisprudence: A Comparative Analysis, in Cardozo Law School 2001, Public Law Research Paper n. 41.

492 Una puntuale panoramica sui contrapposti orientamenti giurisprudenziali aventi

ad oggetto l’aggravante in esame è offerta da M.BELLINA, Dal “marocchino” allo “sporco negro”: due contrastanti sentenze in tema di ingiuria e di discriminazione razziale, in www.personaedanno.it, 20 maggio 2005.

L’istigazione

discriminazione razziale, la finalità d’odio essendo insita nell’epiteto ingiurioso. In questi termini si è pronunciata anche la Corte di cassazione, affermando che l’espressione “sporco negro” è inequivoca nel particolare significato che assume, collegandosi ad un pregiudizio di inferiorità di una razza rispetto ad un’altra; pertanto, «nel caso in cui tale epiteto sia diretto inequivocabilmente nei confronti di una persona di pelle scura, non [ha] alcun rilevo l’analisi sulla motivazione soggettiva dell’agente» (493).

Sennonché, ricorrendo ad un’interpretazione così ampia del concetto di discriminazione razziale (494), si finisce per applicare l’aggravante in esame

a tutte quelle generiche manifestazioni verbali connotate da espliciti riferimenti razzisti, etnici o religiosi, con il rischio di punire allo stesso modo espressioni che, pur essendo eguali nella forma, sono diverse nel loro contesto contenutistico; «si pensi, ad esempio, ad un zuffa tra due amici di diversa provenienza geografica, in cui si addivenisse ad uno sgradevole

493 Cass. pen., sez. V, 20 gennaio 2006, n. 9381, Gregorat, in Riv. it. dir e proc. pen.

2007, p. 1449, per cui l’insulto “vai via di qua, sporca negra”, rivolto ad un esponente di una minoranza etnica, costituisce sempre e comunque un’ingiuria aggravata dalla finalità di discriminazione o odio razziale. In senso conforme, v. Cass. pen., sez. V, 23 settembre 2008, Vitali, in Ced Cass. rv. 242219; Cass. pen., sez. V, 5 ottobre 2009, n. 38597, in Cass. pen. 2010, fasc. 11, p. 3833.

494 Un’interpretazione altrettanto ampia ha interessato la fattispecie di ingiuria

semplice ex art. 594 c.p. La Cassazione ha affermato che l’utilizzo reiterato del termine “marocchino” da parte di un cittadino italiano nei confronti di un extracomunitario è da considerarsi un insulto razzista, penalmente rilevante ai sensi dell’art. 594 c.p. In particolare, la Suprema Corte (Cass. pen., sez. V, 20 maggio 2005, n. 19378, Sciancalepore, in www.personaedanno.it, 20 maggio 2005) ha affermato che «il rispetto dell’altrui persona esige che ad essa ci si rivolga appropriatamente, mediante l’uso del nome e del cognome»; sostantivare l’aggettivo che riflette la provenienza etnica di una persona e apostrofarla in tal modo, quindi, costituisce un’ingiuria «che si connota, per giunta, di chiaro intento di discriminazione razziale, rendendo così più riprovevole sotto il profilo soggettivo la condotta offensiva». Ora, tali conclusioni lasciano perplessi per un triplice ordine di motivi: innanzitutto, «non è facile immaginare come un’espressione che richiama le radici e le origini etniche di una persona possa essere lesiva dell’onore e del decoro di questa» (M. BELLINA, Dal “marocchino” allo “sporco negro”, cit.); inoltre, «se il legislatore avesse voluto esigere un particolare animus dell’agente, semplicemente l’avrebbe detto, [ma] non essendovene traccia nella lettera del codice, un tale elemento non può essere richiesto dall’interprete»; infine, «si deve rilevare che le malevoli ragioni che stanno alla base della condotta abbiano poco a che fare con l’elemento oggettivo; semmai, esse potrebbero rilevare, qualora fosse richiesto un dolo specifico, ai fini della sussistenza dell’elemento psicologico». In sostanza, «desumere l’offensività della condotta materiale dall’atteggiamento psicologico dell’agente appare una forzatura» (M. BELLINA, Sostantivazione dell’aggettivo che riflette la provenienza etnica della persona e delitto di ingiuria: il caso del “marocchino”, in Cass. pen. 2006, p. 60). Queste riflessioni mettono in luce come, ancora una volta, il diritto penale sia stato utilizzato arbitrariamente quale strumento prioritario nella lotta contro le discriminazioni, quando invece esso dovrebbe intervenire solo in via sussidiaria, laddove le misure extrapenali si dimostrino insufficienti.

L’istigazione

scambio di insulti sul differente colore della pelle» (495). In casi del genere,

l’assenza di una disamina adeguata circa l’effettivo atteggiamento psicologico dell’agente «apre la via (…) ad una sorta di “criminalizzazione della parola”» e comporta il rischio di «interpretazioni oggettivizzanti dell’aggravante speciale» (496), che disattendono il principio di colpevolezza e

vanificano gli sforzi compiuti dal legislatore del 1990; quest’ultimo, infatti, intervenendo proprio in materia di presupposti soggettivi di applicabilità delle circostanze aggravanti, aveva richiesto quantomeno un atteggiamento colposo in capo all’agente, non essendo ammissibile nel nostro ordinamento alcuna forma di responsabilità oggettiva.

In sostanza, laddove si ritenga superflua l’indagine su un elemento quale la “finalità discriminatoria” – espressamente previsto dalla legge e con un ruolo fondante rispetto alla ragione dell’aggravamento di pena – si finisce per «nega[re] autonomo significato all’aggravante della discriminazione razziale, tanto da svuotarla di contenuti, “appiattendola” sul reato cui essa accede, cioè l’ingiuria» (497). Stando alla lettera della legge, infatti, l’art. 3

della legge citata non si accontenta di meri “motivi” di discriminazione, ma richiede una precisa “finalità” discriminatoria. Cioè a dire che non basterebbero semplici motivazioni interne all’agente, ma assumerebbe rilevanza la vera e propria finalità esterna della condotta, volta a divenire esempio per gli altri e tale da generare atti emulativi, e quindi ulteriori episodi di discriminazione. Questa lettura della disposizione, certamente più aderente ai principi di offensività e di materialità del fatto, è condivisa anche dal Supremo Collegio, quando afferma che «ai fini della configurabilità dell’aggravante (…), non può considerarsi sufficiente che l’odio etnico, nazionale, o religioso sia stato, più o meno riconoscibilmente, il sentimento che ha ispirato dall’interno l’azione delittuosa, occorrendo invece che questa, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto nel quale si colloca, si presenti come intenzionalmente diretta e almeno potenzialmente idonea a rendere percepibile all’esterno e a suscitare in altri

495 L.SCAFFARDI, Oltre i confini della libertà di espressione, cit., p. 205.

496 L. FERLA, L’applicazione della finalità di discriminazione razziale in alcune recenti

pronunce della Corte di cassazione, in Riv. it. dir. e proc. pen. 2007, p. 1449.

497 M.T. TRAPASSO, Il ruolo fondamentale dei “coefficienti soggettivi” nelle fattispecie

penali in materia di discriminazione razziale: il caso della circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio razziale, in Cass. pen. 2010, f. 11, p. 3833.

L’istigazione

il suddetto, riprovevole sentimento o comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori». Di conseguenza – prosegue la Cassazione – non si può «apoditticamente affermare che l’uso dispregiativo del termine “negre”, accompagnato da altri epiteti “ingiuriosi”, (…) [riveli] il reale pensiero degli aggressori, mosso da finalità di odio razziale e/o etnico»; al contrario, ciò che si deve dimostrare è «come e perché non il pensiero, ma la condotta ingiuriosa addebitata all’imputato [sia] da ritenere consapevolmente finalizzata e almeno potenzialmente idonea a rendere percepibile e suscitare in altri proprio quel sentimento di odio (…) ovvero a dar luogo al concreto pericolo di immediati o futuri comportamenti discriminatori basati sulla differenza di razza» (498).

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