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Sull’opportunità di mantenere la previsione normativa de qua nel nostro ordinamento.

2. La propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico (art 3, co 1, lett a), I parte, l n 654 del 13 ottobre 1975).

2.3. Sull’opportunità di mantenere la previsione normativa de qua nel nostro ordinamento.

La propaganda razziale lede il principio della pari dignità sociale, mettendo in discussione tutti i valori che stanno alla base di un paese civile. Nel contempo, però, si è visto che anche la sua incriminazione entra in collisione con i principi cardine di un paese democratico, primo fra tutti quello sancito dall’art. 21 Cost. Del resto, non è un luogo comune affermare che la dignità umana raggiunge la sua massima espansione quando all’individuo è consentito di esprimersi liberamente (315). E non convincono i tanti argomenti

volti a sostenere la necessità di una simile fattispecie criminosa, come quello per cui la propaganda inculcatrice dell’odio razziale andrebbe punita nella stessa ottica “preventiva” che sancisce la punibilità dei singoli atti discriminatori. Ragionando in questi termini, infatti, si confondono due concetti ben distinti, posto che una cosa sono gli atti, mentre altra cosa è la diffusione di idee attraverso le parole. Se, alla lunga, l’hate speech può sfociare in reazioni violente, non è detto che sia sempre così. Pertanto, la remota possibilità che ciò accada non può giustificare l’incondizionata repressione di una propaganda basata sull’odio razziale, per quanto essa sia riprovevole e fastidiosa. Autorevole dottrina ha affermato che, «se si vuole la libertà, se ne devono necessariamente accettare tutti i rischi» (316). La possibilità che un

discorso odioso degeneri in un’azione violenta è un rischio che bisogna correre in un sistema come il nostro, che si fa paladino della libertà di manifestazione del pensiero.

Inoltre, non va sottovalutato che la propaganda e, più in generale, la diffusione di idee, sono il sale della democrazia, che vive del dibattito, del confronto e dello scambio di opinioni politiche, etiche e sociali. Decidendo di ricorrere allo strumento penale, quindi, non solo si frustra questo indispensabile dialogo, ma si rischia di imporre un’idea dominante, reprimendo nel contempo ogni opinione ad essa difforme. In altri termini, «si rischia che la pena venga ad

315 Al riguardo, è opportuno citare nuovamente J.R. SEARLE, Social Ontology and Free

Speech, cit., per il quale «parlare è più fondamentale che altre naturali inclinazioni, poiché (…) noi raggiungiamo la nostra piena dignità (…) quando esercitiamo le nostre capacità espressive».

La propaganda

assumere il ruolo di dare un segnale e diventi una “pena simbolo” (317), con la

conseguenza che la legge penale non viene più a punire determinati comportamenti, ma ad elaborare valori e norme di coscienza» (318),

confondendo nuovamente due piani che invece andrebbero tenuti distinti, vale a dire l’etica e il diritto. E questo perché, se un discorso razzista è certamente riprovevole e immorale, ciò non basta a farne un fatto penalmente vietato. Del resto, è lo stesso principio di frammentarietà a ricordarcelo (319).

L’opzione di criminalizzare la propaganda razziale, peraltro, contrasta anche con il principio di extrema ratio, che impone di riconoscere al diritto penale carattere sussidiario, dovendosi ricorrere ad esso solo quando gli altri strumenti di tutela extrapenale risultino insufficienti e inefficaci per la salvaguardia del bene da tutelare. Per le ragioni già esaminate, quindi, la risposta penale non sembra essere quella più idonea a colpire le condotte di propaganda, risultando preferibili strade alternative. La circostanza che il bene “offeso” sia un bene di alto livello come la dignità umana, infatti, non basta da sola a far scattare la sanzione penale (320). Per scegliere di criminalizzare un

comportamento, invece, bisogna guardare ad una molteplicità di criteri che – come già rilevato – la fattispecie di propaganda razzista non è in grado di soddisfare.

Da qui il suggerimento – pienamente condivisibile – di abbandonare lo strumento penale per ricorrere alla sanzione amministrativa: «una alternativa ragionevole alla pena» (321) che, grazie ad una maggior tempestività ed

effettività, si dimostra più idonea sotto il profilo della deterrenza e ugualmente efficace in termini di prevenzione speciale e generale, «senza peraltro avere

317 Sull’accezione di “legislazione penale simbolica”, ove il ricorso alla sanzione penale

sarebbe giustificato prevalentemente dalla volontà di riconfermare gli interessi tutelati (in questo senso, v. F.PALAZZO,Offensività e ragionevolezza, cit., p. 382), v. supra cap. I, nota 26.

318 F. SALOTTO,Reato di propaganda razziale e modifiche ai reati di opinione,cit., p. 167 319 Sul punto v. G.FIANDACA E.MUSCO,Diritto penale. Parte generale, Milano 2006, p.

31, per cui, in base al principio di frammentarietà, «l’area del penalmente rilevante non coincide con quella di ciò che è moralmente riprovevole».

320 In questo senso, v. soprattutto G. FIANDACA, Il “bene giuridico” come problema

teorico e come problema di politica criminale, in Riv. it. dir. e proc. pen. 1982, p. 73, per il quale l’importanza del bene messo in pericolo non comporta automaticamente l’obbligo di creare norme penali ad hoc finalizzate a salvaguardarlo.

321 F. SALOTTO, Reato di propaganda razziale e modifiche ai reati di opinione, cit., p.

La propaganda

attitudine stigmatizzate e il pesante costo individuale che, in alcuni casi, può produrre effetti negativi maggiori rispetto ai benefici di tutela» (322).

Più azzardata, invece, appare la proposta di effettuare un’operazione selettiva delle manifestazioni cui attribuire rilevanza penale (323). In sostanza, si

vorrebbe riservare lo strumento penale a quelle fattispecie di propaganda rispetto alle quali la sanzione amministrativa si dimostri insufficiente. Per selezionare tali condotte si dovrebbe tener conto dei contenuti, dei mezzi impiegati, della posizione di chi parla, del pubblico cui il messaggio è diretto. Già si è visto, però, come l’analisi del contesto comporti un margine di discrezionalità molto elevato. Ciò che è percepito da taluni come un fatto particolarmente grave, per altri può apparire più lieve e quindi passibile di sanzione amministrativa. Il rischio è quello di trattare fatti uguali in maniera diversa, disattendendo sia il principio di eguaglianza sia quello di ragionevolezza. Senza sottovalutare tutte le complicazioni derivanti da una fattispecie “camaleontica” che, a seconda della sua gravità, sarebbe suscettibile di assumere sia la qualifica di illecito amministrativo, sia quella di reato. Se poi lo strumento penale, che in questa prospettiva dovrebbe essere l’eccezione, diventasse la regola, tornerebbero a ripresentarsi tutti i problemi fin qui riscontrati.

Alla luce di queste considerazioni, quindi, non resta che optare per la sola sanzione amministrativa, in quanto più consona ad arginare un fenomeno – sicuramente riprovevole, ma non per ciò solo criminalizzabile – come quello della propaganda razzista.

322 Così si esprime F. SALOTTO, Reato di propaganda razziale e modifiche ai reati di

opinione,cit., p. 179, richiamando a sua volta F. BRICOLA, Carattere “sussidiario” del diritto penale e oggetto della tutela, in Studi Delitala, I, Milano 1984, p. 99 e ss.

323 Anche questo suggerimento – cui l’Autrice dà molto credito – è di F. SALOTTO,

Reato di propaganda razziale e modifiche ai reati di opinione, cit., p. 180, la quale ritiene che «per punire la propaganda razziale le sanzioni amministrative possano rappresentare la regola e che lo strumento penale, invece, possa essere impiegato per le ipotesi più “gravi”, che si caratterizzino per il loro particolare disvalore».

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SOMMARIO: 1. L’apologia ex art. 414, comma 3, c.p. – 1.1. Una fattispecie controversa. – 1.2. L’interpretazione adeguatrice della Corte costituzionale (sent. n. 65 del 1970). – 1.3. Critiche all’intervento della Corte costituzionale. – 1.4. L’aberrante pronuncia della Cassazione sull’apologia di genocidio (Cass. pen., sez. I, 29 marzo 1985). – 1.5. La svolta del 2001: un argine alla deriva interpretativa in tema di apologia di genocidio. – 1.6. L’intervento riformatore del 2006: un’altra occasione persa. – 2. L’apologia del fascismo e le manifestazioni fasciste (artt. 4 e 5, l. n. 645 del 20 giugno 1952). – 2.1. Due fattispecie molto discusse. – 2.2. Gli interventi della Corte costituzionale in tema di apologia e di manifestazioni fasciste. – a) La sentenza n. 1 del 1957 sull’apologia del fascismo. – b) Le sentenze n. 74 del 1958 e n. 15 del 1973 sulle manifestazioni fasciste. – 2.3. Norme ancora attuali o inutili relitti storici? – 2.4. Profili di diritto comparato: manifestazioni naziste nel villaggio di Skokie.

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