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1. L’apologia ex art 414, comma 3, c.p.

1.1. Una fattispecie controversa.

Nonostante l’entrata in vigore della Costituzione e l’affermazione del principio di libera manifestazione del pensiero, sull’ipotesi normativa di apologia si è imperniata per quasi vent’anni una prassi giudiziaria apertamente repressiva del dissenso politico, in netto contrasto con i valori fondanti di uno Stato democratico. La pronuncia giurisprudenziale che

pubblico, cit., p. 31, per il quale «con l’apologia si esprime ad altri un giudizio positivo di valore, rispetto ad un comportamento che la legge prevede come reato; con l’istigazione si opera sulla psiche di altri, rappresentando motivi d’impulso o eliminando motivi inibitori, per indurre a commettere reati». È dello stesso avviso R. Dolce, voce Istigazione a delinquere, cit., p. 995, per il quale «“istigare” significa eccitare, provocare a compiere un atto, mentre “fare apologia” è sinonimo di manifestazione di un pensiero che si concreti nella esaltazione, nella difesa, nella lode o anche soltanto nell’approvazione, sia di un fatto sia del suo autore».

325 Dal greco, από λόγος, che significa “esposizione di ragioni a favore di una persona o

di una dottrina confutando le critiche”; “discorso a difesa o esaltazione di una dottrina religiosa o politica” (v. G.DEVOTO – G.C.OLI,Vocabolario della lingua italiana, Firenze 1979, p. 71).

L’apologia

meglio riassume l’intransigenza di questo atteggiamento è la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione del 18 novembre 1958, definita come «una delle interpretazioni della norma incriminatrice più drastiche e severe che sia dato immaginare», ispirata all’idea di «realizzare ad ogni costo la più integrale e inflessibile protezione di quel bene [ossia l’ordine pubblico] concepito nel modo più lato, senza riserve di sorta, senza sfumature» (326).

La dottrina dell’epoca (327) tendeva a ravvisare nell’apologia un reato di

mera condotta e di pericolo presunto, per cui il giudice doveva limitarsi ad accertare il semplice fatto che l’apologia fosse tenuta in pubblico, a nulla rilevando l’effettiva probabilità che essa degenerasse nell’immediata commissione di atti delittuosi, o anche solo riuscisse a persuadere taluno dell’opportunità di compierne in futuro. Nel contempo, però, la teoria dominante affermava la necessità che il discorso apologetico avesse quantomeno una portata suggestiva, tale da indirizzare al compimento di fatti delittuosi. Per questo, si era soliti ritenere che l’apologia fosse una forma di “istigazione indiretta”. Seppur criticabile sotto molti aspetti, la lettura fornita dalla dottrina era indubbiamente innovativa per l’epoca e avrebbe potuto costituire una buona premessa per un’interpretazione adeguatrice, che riallineasse la fattispecie al dettato costituzionale.

Sennonché, questo processo evolutivo ha subito un forte arresto – se non, addirittura, una regressione – in seguito al suddetto intervento delle Sezioni Unite che, dopo aver ribadito il carattere formale e di mero pericolo presunto del reato de quo, hanno spogliato del tutto la figura dell’apologia, privandola di qualunque proiezione intenzionalmente orientata verso l’atto delittuoso. In questa prospettiva, quindi, per aversi apologia basterebbe “aderire spiritualmente” a un fatto accaduto o “approvarlo con convinzione”, anche qualora quei discorsi non abbiano alcuna finalità dinamica, non siano cioè orientati alla commissione di atti contrari alla legge. Né si richiede una “rievocazione esaltatrice” del fatto criminoso o una sua “glorificazione”. Inutile dire che, ricorrendo a questa formulazione

326 G. BOGNETTI, Apologia di delitto e principi costituzionali di libertà d’espressione, in

Riv. it. dir. e proc. pen. 1960, p. 184.

327 B. CAVALIERI, La posizione logico-sistematica dell’istigazione nel codice penale, in

Arch. pen. 1953, p. 301; P. DI VICO, Il delitto di apologia, in Annali dir. e proc. pen. 1936, V, pp. 389, 794, 795; V. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, VI, Torino 1950, p. 151.

L’apologia

esageratamente ampia, diventano punibili tutte le apologie: dal «severo libro di storia» all’«eccitante pamphlet politico», tutto è idoneo a commettere reato, «sol che si aggiunga alla narrazione di un fatto delittuoso qualche aggettivo di convinto elogio» (328).

Continuando nell’esame della sentenza, l’atteggiamento della Cassazione si fa – se possibile – ancora più intransigente. In particolare, la Suprema Corte statuisce che «non vale a escludere il reato la natura peculiare dei motivi che ispirarono l’episodio elogiato e con riguardo ai quali la rievocazione apologetica è stata compiuta» (329). Questa affermazione si

pone in evidente antitesi con quanto disposto dall’art. 62, n.1, c.p., che accorda una diminuzione di pena al reato commesso “per motivi di particolare valore morale o sociale”: può infatti accadere che un fatto di reato sia portatore anche di valori etico-sociali positivi, oltre che del disvalore tipicamente connesso all’illecito penale. Ciò premesso, affinché sussista il delitto di cui all’art. 414, comma 3, c.p., non basta la generica esaltazione di un episodio criminoso, ma è necessario che «il discorso apologetico sia obiettivamente diretto (ed idoneo) all’esaltazione dello specifico disvalore giuridico-penale – riflesso nell’incriminazione – che costituisce il vero oggetto dell’apologia di delitto» (330). Pertanto, la difesa di

un fatto delittuoso, che sia stata compiuta con esclusivo riguardo a quei profili di esso che esprimono un valore etico-sociale positivo, non potrà integrare gli estremi dell’apologia. Basti pensare all’esaltazione del tirannicidio, che non costituisce certo apologia del delitto di omicidio, ma tende piuttosto a glorificare il fatto in sé della liberazione dall’oppressione tirannica. La Cassazione, invece, non opera alcuna distinzione in merito ai motivi della condotta e sancisce lapidariamente che la manifestazione di un giudizio favorevole sull’episodio rievocato risulta sempre e comunque rilevante ai fini della sussistenza dell’apologia.

Inoltre, come se non bastasse, il Supremo Collegio provvede ad estendere ulteriormente l’accezione di apologia: vi riconduce «la difesa elogiativa di un fatto che al presente la legge considera criminoso, ma che tale non era per

328 G.BOGNETTI,Apologia di delitto e principi costituzionali, p. 189.

329 Cass. pen., sez. un., 18 novembre 1958, Colorni, in Giust. pen. 1959, p.te II, p. 939

e in Riv. it. dir. e proc. pen. 1960, p. 183.

L’apologia

il diritto del tempo in cui (…) fu commesso», e qualifica come apologeta «anche chi faccia la difesa del fatto criminoso ignorandone la obiettiva illiceità penale», precisando che «non esclude il reato di apologia la circostanza che il fatto difeso risalga a epoca lontana o addirittura remota» (331). Il risvolto di queste affermazioni è a dir poco paradossale: stando ad

esse, infatti, «tutta l’immensa distesa dei fatti del passato, dai tempi remoti fino ai nostri giorni, andrebbe rivalutata in termini di diritto attuale italiano» (332). Quasi che l’elogio di certi episodi, divenuti ormai soltanto

storia, possa essere veicolo di inferenze pericolose, nonostante la diversità dell’ambiente e delle condizioni in cui oggi viviamo. Con questa presa di posizione, gli Ermellini incorrono in due errori: innanzitutto, confondono la storia con il diritto, senza rendersi conto che «il giudizio storico non può in alcun modo essere registrato sul metro delle incriminazioni del diritto vigente» (333); in secondo luogo – e questo, a dire il vero, è un “errore” voluto

– “dimenticano” che la difesa di un fatto storico non è altro che la manifestazione di un’opinione, «il riflesso di una più ampia visione storica, etica e politica delle vicende del nostro mondo umano» (334). Non a caso, i

principali processi per apologia di delitto riguardano vicende politiche. Pertanto, quello che a prima vista potrebbe sembrare una svista risulta essere, invece, una riuscitissima operazione di controllo politico sulle opinioni: si punisce l’esaltazione di certi fatti, anche remoti, in quanto

331 Cass. pen., sez. un., 18 novembre 1958, Colorni, cit.

332 G. BOGNETTI, Apologia di delitto e principi costituzionali, p. 189, il quale rimarca le

conclusioni paradossali cui perviene la decisione della Corte con una serie di esempi molto significativi. Stando ai principi enunciati dalla Cassazione – afferma l’Autore – «dovremmo considerare reato (…) l’approvazione convinta, contenuta, mettiamo, in un libro di storia, e giustificata in ragione delle esigenze della società dei tempi, della severità d’animo di qualche pater familias romano di cui le cronache riferiscono che punì con castighi corporali durissimi la disobbedienza di un figlio o di uno schiavo. Per essi dovremmo considerar delittuoso il caldo elogio compiuto da qualche patriottico storico del nostro Risorgimento, dello sdegno che spinse Gabriele Pepe ad affrontare in duello il Lamartine per mostrargli che l’Italia dell’Ottocento non era “terra di morti”. Per essi dovremmo considerar illeciti i versi di qualche poeta dei nostri giorni il quale approvi e faccia propri i sentimenti di spregio espressi da qualche suo predecessore di due o tre generazioni fa (per esempio, da un Gabriele D’Annunzio) nei confronti, mettiamo, di un Francesco Giuseppe, capo di stato estero, “angelo – come dice l’ingiusto verso – della forca sempiterna”; e via dicendo».

333 C.FIORE, I reati di opinione, cit., p. 50.

L’apologia

politicamente riconducibili ad alcune ideologie giudicate “scomode” da chi è al potere in quel momento (335).

Forti della propria funzione nomofilattica, consistente nel garantire l’uniforme interpretazione della legge, con questa pronuncia le Sezioni Unite hanno aperto la strada ad una giurisprudenza che, non solo ha confermato la severità dei principi ivi espressi, ma ne ha addirittura accentuato l’intransigenza (336). La dottrina (337), dal canto suo, cercava di

correggere l’interpretazione fornita dalla Cassazione, attenuandone il rigore repressivo e formulando definizioni di apologia che fossero più ristrette e circoscritte. In particolare, ciò che destava maggiori perplessità era la scelta, giudicata dai più assurda, di colpire condotte prive di qualsiasi carica di pericolosità. Da qui la proposta – parzialmente recepita dalla Corte costituzionale – di introdurre un elemento istigatorio nell’interpretazione dell’apologia, sulla scorta di quanto già sperimentato dal diritto anglosassone quasi due secoli prima (338). Richiedendo

l’accertamento in ogni caso di una seria pericolosità del discorso apologetico, infatti, si sarebbe ridotta l’incidenza punitiva della norma, garantendo nel contempo il pieno rispetto della libertà d’espressione: una soluzione apparentemente lineare e convincente che, però, non tarderà a

335 La stessa sentenza in commento riguardava uno scritto, apparso sul quotidiano

“L’Unità” del 26 giugno 1954 che, sotto il titolo “Bersaglieri dell’11 e popolo uniti in rivolta contro la guerra”, descriveva un episodio del 1920 e, traendo spunto dal suo anniversario, lo rievocava, indicando «l’insegnamento prezioso che ci viene da quei primi combattenti per la pace: andare avanti insieme, stare uniti, continuare la lotta fianco a fianco affinché le forze della distruzione e dell’avventura siano definitivamente sconfitte».

336 Trib. Firenze, 25 marzo 1963, in Giur. tosc. 1963, p. 326, per la quale l’apologia di

reato può presentarsi anche sotto la specie, o «mediante la sostanza stessa di una disquisizione di carattere teoretico-filosofico o morale»; Corte d’appello di Firenze, 15 ottobre 1963, in Foro it. 1963, II, p. 469, per cui l’apologia si realizza quasi «automaticamente», per effetto dell’esaltazione dell’autore di un fatto criminoso; Cass. pen., 1 giugno 1964, in Cass. pen. mass. 1965, p. 693, che, oltre a confermare l’irrilevanza delle finalità e dei motivi della condotta, sottolinea che non può mai valere come scusa il fatto che l’agente «abbia ripetuto ciò che era stato, ancorché impunemente, scritto o detto da altri autori o scrittori sia pure scientificamente autorevoli».

337 V., per tutti,G.BOGNETTI, Apologia di delitto e principi costituzionali, cit., p. 197. 338 Nel diritto penale inglese e nordamericano, in realtà, non esiste una norma

apposita per l’apologia di delitto. Ad essere incriminati sono solo i fatti di incitamento immediato o pressoché immediato al delitto. Sul punto, v.Z. CHAFEE, Free Speech in the United States, Cambridge 1945.

L’apologia

manifestare le proprie debolezze. Prima fra tutte, quella di confondere l’apologia con l’istigazione.

1.2. L’interpretazione adeguatrice della Corte costituzionale (sent. n.

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