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Gli interventi della Corte costituzionale in tema di apologia e di manifestazioni fasciste.

Sebbene il Giudice delle leggi sia stato ripetutamente investito di questioni di legittimità costituzionale inerenti gli artt. 4 e 5 della legge Scelba, bisogna riconoscere come il suo intervento non abbia affatto contribuito a risolvere le problematiche sottese a queste fattispecie. Per la precisione, nell’arco di tempo che va 1957 al 1973, la Corte costituzionale è stata chiamata per ben tre volte a pronunciarsi in merito all’asserito contrasto tra le norme suddette e l’art. 21 Cost., ma in tutti e tre i casi, con una fermezza che non ha precedenti, ha insistito nel dichiarare infondati i ricorsi, pronunciando le sentenze interpretative di rigetto che ci apprestiamo ad analizzare qui di seguito.

a) La sentenza n. 1 del 1957 sull’apologia del fascismo.

Nel corso di tre distinti procedimenti penali, i difensori degli imputati, chiamati a rispondere del delitto di apologia del fascismo, sollevano eccezione sulla illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge Scelba, perché in contrasto sia con la XII disp. trans e fin., sia con l’art. 21 Cost. La Corte costituzionale, ravvisata l’opportunità di decidere congiuntamente le tre cause, vertenti sostanzialmente sulla medesima questione, pronuncia la sentenza n. 1 del 16 gennaio 1957 (396) che, con una motivazione assai succinta, salva il

delitto di apologia del fascismo, fornendone un’interpretazione conforme al dettato costituzionale.

395 A.MANNA,Fascismo (sanzioni contro il), cit., p. 146.

L’apologia

Premettendo che l’art. 4 deve necessariamente essere esaminato in rapporto al primo comma della XII disp. trans. e fin., il Giudice delle leggi afferma che l’apologia del fascismo, per assumere rilevanza penale, non deve consistere in una mera difesa elogiativa, ma deve tradursi in una esaltazione tale da poter condurre alla riorganizzazione del partito fascista. In altre parole, essa non deve essere considerata in sé e per sé, ma deve essere rapportata a quella stessa riorganizzazione che la XII disp. intende vietare.

Ciò detto, i Giudici costituzionali, dimostrando di condividere il prevalente orientamento dottrinale dell’epoca, equiparano l’apologia del fascismo ad un’istigazione indiretta a commettere un fatto rivolto alla predetta riorganizzazione del partito fascista, e a tal fine idoneo ed efficiente. A sostegno di questa equiparazione – continuano i giudici – vi sarebbero ragioni topografico-sistematiche, sintetizzabili nel fatto che la lettera dell’art. 414 c.p., sotto l’intestazione “istigazione a delinquere”, prevede all’ultimo comma l’apologia di uno o più delitti.

Rileggendo la pronuncia in esame, si ha la sensazione che la Corte costituzionale abbia aggirato il vero problema che le era stato sottoposto, ossia «quello di vedere se la repressione dell’esaltazione (…) di esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo urtasse o meno contro il principio della libertà di manifestazione del pensiero enunciato nell’art. 21 della Costituzione» (397). Dei

rapporti tra apologia e libertà d’espressione, infatti, non si fa alcuna menzione nel testo della sentenza, quasi si trattasse di un discorso “scomodo”, che avrebbe inevitabilmente condotto a dichiarare incostituzionale una disposizione che, invece, si voleva salvare a tutti i costi. Sorvolata quella che avrebbe dovuto essere la questione cardine della pronuncia in esame, quindi, i giudici hanno tentato di conferire copertura costituzionale all’art. 4 ricollegandolo al divieto di riorganizzazione del disciolto partito fascista di cui alla XII disp. Come già correttamente osservato, però, la XII disp. riguarda il solo reato associativo, e non anche la mera esaltazione del fascismo (398). Per

superare anche questo ostacolo, dunque, il Giudice delle leggi ha cercato di ricondurre l’apologia alla fattispecie associativa, e l’ha fatto ricorrendo al paradigma del pericolo concreto, affermando cioè che l’apologia del fascismo è

397 G. VASSALLI,Osservazioni a Corte Cost. 26 gennaio 1957, n. 1, in Giur. cost. 1957, I,

p. 1.

398 In questo senso, A.MANNA,Fascismo (sanzioni contro il), cit., p. 146. Contra, invece,

P.BARILE –DE SIERVO,Sanzioni contro il fascismo ed il neofascismo, cit., p. 973; C.BON

L’apologia

da considerarsi costituzionalmente legittima solo ove risulti idonea a ricostituire il partito fascista.

Tuttavia, il ricorso al pericolo concreto ha suscitato legittime critiche in seno alla dottrina (399). In primo luogo, si è detto che, se il suddetto paradigma può

risultare di una qualche utilità per il reato di istigazione, che di fatto è più strettamente collegato al reato associativo, «lo è molto meno, se non affatto, per quanto attiene all’apologia» (400). Senza sottovalutare, tra l’altro, tutte le

difficoltà connesse ad un giudizio di pericolosità in concreto relativo a beni giuridici di carattere politico o meta individuale (401). Inoltre, si è osservato che,

da un punto di vista empirico-fattuale, è assai difficile che la mera esaltazione di un fatto o di un esponente del fascismo possa concretamente dar luogo alla ricostituzione del partito in questione, se non trasformando l’apologia in una forma istigativa come fa la Corte costituzionale. Ma già si è visto come questa soluzione strida sia con il principio di tassatività-determinatezza, sia con il principio di economicità (402): se il legislatore ha previsto due distinte ipotesi

criminose, ognuna con un apposito nomen iuris, perché volerle assimilare tra loro ad ogni costo? Se si fosse trattato della medesima fattispecie, che senso avrebbe avuto ribadirla? Infine, la lettera della legge conferma che la normativa in questione non richiede l’accertamento dell’esistenza di un pericolo concreto, tutelando solo in modo indiretto ed eventuale la sicurezza dell’ordinamento democratico. Sia il divieto costituzionale che quello penale, infatti, sono assoluti e incondizionati e rendono manifesto l’intento di impedire

comunque i fatti in essi descritti, indipendentemente dalla loro concreta

pericolosità (403).

399 Per puntuali critiche in merito si rimanda a E. GALLO E. MUSCO, Delitti contro

l’ordine costituzionale, cit., p. 77 e ss.

400 A.MANNA,Fascismo (sanzioni contro il), cit., p. 146.

401 Analoghe osservazioni erano già state svolte supra cap. I, par. 2.2.2. Sul punto v.

soprattutto F.ANGIONI, Il pericolo concreto, cit.

402 Il principio di economicità sta alla base dell'argomento interpretativo economico,

secondo cui il corpus normativo deve essere caratterizzato da coerenza (sistematicità strutturale) e da non ripetitività: il legislatore, infatti, non può enunciare due volte le stesse regole per far fronte alla stessa situazione.

403 In questo senso si esprime G.SPAGNOLO, Norme penali contro il neofascismo e XII

disposizione finale della Costituzione, in Riv. it. dir. e proc. pen. 1979, p. 318, il quale, però, è favorevole al mantenimento della normativa de qua nel nostro ordinamento. Le medesime considerazioni sono svolte da P. BARILE – DE SIERVO, Sanzioni contro il fascismo ed il neofascismo, cit., p. 973, per i quali la legislazione in esame è sì posta a tutela di alcuni valori antifascisti della nostra Costituzione, «ma non [è] direttamente finalizzata a combattere in questa sede le situazioni di pericolo concreto di costituzione di partiti costituenti riorganizzazioni del disciolto partito fascista».

L’apologia

A fronte di queste considerazioni, quindi, l’apologia del fascismo (che è un’apologia tout court e non una forma istigativa) può essere qualificata esclusivamente alla stregua di un reato di pericolo astratto. E siccome i reati di pericolo astratto disattendono il principio di offensività, bisogna concludere che per questa fattispecie non vi è spazio nel nostro ordinamento. Trattandosi poi di una figura criminosa in cui l’incriminazione del puro pensiero (politico) è ancora più evidente che in altri reati d’opinione, l’irrimediabile contrasto con l’art. 21 Cost. non fa che ribadire l’urgenza di espungerla dal sistema, data la sua inconciliabilità con i valori fondanti dell’odierno Stato democratico (404).

b) Le sentenze n. 74 del 1958 e n. 15 del 1973 sulle manifestazioni fasciste.

La Corte costituzionale ha avuto ben due occasioni per pronunciarsi in merito alla compatibilità della norma che incrimina le manifestazioni fasciste con l’art. 21 Cost. e la XII disp. e, in entrambi i casi, ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale che le erano state sottoposte, salvando dall’abrogazione l’art. 5 della legge Scelba.

La prima sentenza interpretativa di rigetto sulle manifestazioni fasciste risale al 1958 e, a differenza della pronuncia sull’apologia del fascismo, è molto articolata. Innanzitutto, il giudice delle leggi si sofferma sulla XII disp. trans. e fin., precisando che essa non deve essere intesa alla stregua di un rigido divieto penale, costretto entro i limiti della sua formulazione espressa, ma deve essere «interpretata per quella che è, cioè quale norma costituzionale che enuncia un principio o indirizzo generale, la cui portata non può stabilirsi se non nel quadro integrale delle esigenze politiche e sociali da cui fu ispirata» (405). Ciò premesso, i Giudici costituzionali proseguono nelle loro

argomentazioni, affermando che, dopo la caduta del regime, la necessità di impedire la riorganizzazione del partito fascista non poteva limitarsi a considerare soltanto gli atti finali e conclusivi della ricostituzione, ma doveva necessariamente riferirsi ad ogni comportamento che fosse idoneo a produrre

404 Così anche G.DE VERO,Tutela penale dell’ordine pubblico, Milano 1988, p. 221 ss;

C.FIORE, I reati di opinione, cit., p. 133; A. MANNA,Fascismo (sanzioni contro il), cit., p. 146.

L’apologia

quegli stessi atti. Queste considerazioni sarebbero confermate anche dall’inciso “sotto qualsiasi forma” contenuto nella XII disp., che starebbe a significare la preoccupazione del Costituente di spingere il divieto al di là degli atti riorganizzativi strettamente intesi, comprendendovi anche le minori manifestazioni di cui all’art. 5, purché idonee a creare il pericolo che si intende prevenire.

Tale lettura estensiva del precetto costituzionale si espone a non poche osservazioni critiche. In primo luogo, se è vero che la XII disp. non è un divieto penale, non bisogna però sottostimare la sua natura di norma eccezionale rispetto alla previsione generale di cui all’art. 18 Cost., con la conseguenza che resta comunque operativo nei suoi confronti il divieto di analogia ex art. 14 delle preleggi al c.c. Non appare quindi legittimo il tentativo di estendere a dismisura la portata della XII disp., fino a ricomprendervi le minori manifestazioni fasciste. Né lo si può giustificare richiamando le peculiari esigenze storico-politiche che ispirarono la previsione de qua: ogni disposizione, infatti, deve essere interpretata anche in chiave evolutiva, considerando se, dalla sua emanazione ad oggi, si siano verificate trasformazioni culturali, economiche o politiche tali da incidere sul modo di intenderla. E questo è, appunto, il caso della XII disp., che non può più essere interpretata alla luce delle stesse esigenze avvertite nel 1948, ma deve essere calata nell’odierno contesto storico-politico, ove una riaffermazione del partito unico fascista è assolutamente remota e improbabile. I Giudici costituzionali, invece, ritenendo che norme nate in un certo clima politico – quello dell’immediato dopoguerra – possano essere lette negli stessi termini di allora, dimostrano di non saper adeguare il diritto vivente ai mutamenti connaturati ad ogni società, e legittimano la permanenza nel sistema di disposizioni obsolete e antistoriche (406).

Affrontata la questione relativa alla XII disp., la Corte costituzionale si interroga sulla compatibilità del reato di manifestazioni fasciste rispetto all’art. 21 Cost. e risponde in termini affermativi al quesito, fornendo due possibili interpretazioni della disposizione de qua. La prima – a suo avviso palesemente errata – consisterebbe in un’interpretazione letterale del dato normativo, che indurrebbe a punire qualunque parola o gesto, anche il più innocuo, che

406 Analoghe considerazioni si ritrovano supra cap. II, par. 1.2, in merito al delitto di

propaganda. V., al riguardo, le già richiamate osservazioni di G.VASSALLI,Propaganda “sovversiva” e sentimento nazionale, cit., p. 1101.

L’apologia

ricordi comunque il passato regime e gli uomini che lo impersonarono, come ad esempio il fatto di indossare una camicia nera, di intonare una canto o lanciare un grido. Una simile interpretazione – dichiarano i Giudici della Consulta – «non si può ritenere conforme all’intenzione del legislatore» (407).

Egli, infatti, dichiarando espressamente di voler impedire la riorganizzazione del disciolto partito fascista, ha inteso vietare e punire «non già una qualunque manifestazione del pensiero tutelata dall’art. 21 Cost, bensì quelle manifestazioni usuali del disciolto partito che (…) possono determinare il pericolo che si è voluto evitare» (408): sarebbe questa la corretta interpretazione

dell’art. 5, l. n. 645 del 1952, avvalorata sia dalla denominazione di “manifestazioni fasciste” sia dall’uso dell’avverbio “pubblicamente”, che farebbero chiaramente intendere come il fatto, per essere penalmente rilevante, debba trovare, nel momento e nell’ambiente in cui è compiuto, condizioni tali da renderlo idoneo a provocare adesioni e consensi, concorrendo alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste. Così intesa, quindi, la norma impugnata risulterebbe compatibile sia con la XII disp. sia con l’art. 21 Cost.

Questa lettura, però, si espone alle medesime critiche già formulate con riferimento alla sentenza n. 1 del 1957 sull’apologia del fascismo. Introducendo il paradigma del pericolo concreto, infatti, la Corte costituzionale rischia anche in questo caso di trasformare le manifestazioni fasciste in forme istigative o comunque in attività così prossime alla ricostituzione del partito fascista, da confonderle con le vere e proprie forme di partecipazione al reato associativo (409); e così facendo, tra l’altro, si arroga il diritto di correggere la

formula normativa mutandone la sostanza, quando invece dovrebbe limitarsi ad interpretare la legge senza attribuirle altro senso se non quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dalla intenzione del legislatore (art. 12 preleggi al c.c.) (410). Da ultimo, poi, non va

sottovalutata l’estrema discrezionalità che una simile interpretazione finisce per attribuire al giudice del caso, il quale si ritrova a dover selezionare, di volta in volta, le manifestazioni incriminabili in rapporto all’accertamento della loro

407 C. Cost., sent. n. 74 del 25 novembre 1958, cit. 408 C. Cost., sent. n. 74 del 25 novembre 1958, cit.

409 Così A.MANNA,Fascismo (sanzioni contro il), cit., p. 146.

410 In questo senso si esprime C. ESPOSITO, Osservazioni a Corte Cost., 6 dicembre

L’apologia

effettiva pericolosità (411): come tracciare il labile confine tra libertà

d’espressione e manifestazione suscettibile di provocare adesioni al partito fascista (e perciò pericolosa)? In base a quali parametri? Le difficoltà insite in un simile giudizio aumentano se si considera che esso opera in rapporto a beni giuridici di tipo meta-individuale, e che si fonda sul discutibile criterio dell’ordine pubblico, il quale non è neppure previsto espressamente dalla Costituzione come limite alla libertà di manifestazione del pensiero.

Per salvare la disposizione impugnata, la cui incompatibilità con l’art. 21 Cost. e la XII disp. è evidente, la Corte costituzionale ha dovuto ridisegnarne la struttura, ma così facendo si è sostituita al legislatore e ha finito per disattendere il fondamentale principio di legalità, senza apportare alla fattispecie alcun beneficio in termini di determinatezza. E nonostante ciò fosse palese ai più, ha proseguito in tal direzione, ribadendo il suo intento conservatore anche nella sentenza n. 15 del 14 febbraio 1973 (412).

La circostanza che nel 1973 l’art. 5 della legge Scelba sia stato nuovamente impugnato dinnanzi alla Corte costituzionale è di per sé molto significativa e denuncia l’incoerenza interpretativa che caratterizza la precedente decisione. In questa occasione, il giudice a quo rilevava correttamente che la previsione di cui all’art. 5 incrimina tutte le manifestazioni pubbliche del disciolto partito fascista, senza fare alcun riferimento alla loro potenzialità riorganizzativa. Tanto che il legislatore – continuava il pretore di Recanati – avrebbe valicato il limite dell’attuazione del precetto costituzionale cristallizzato nella XII disp., che vieta soltanto la ricostituzione del partito fascista, e non anche le manifestazioni, più o meno nostalgiche, di coloro che tutt’ora credono nella validità di determinate ideologie. Esaminato il ricorso, però, i Giudici costituzionali ne dichiaravano l’infondatezza, precisando che si trattava di questione già decisa, su cui, evidentemente, non intendevano tornare. E sebbene fossero trascorsi quasi vent’anni dalla precedente pronuncia e la democrazia si fosse ulteriormente consolidata rispetto a quella dell’immediato dopoguerra, ribadivano la necessità di una simile disposizione per il nostro ordinamento, tradendo il timore di un ritorno al passato e negando in radice l’essenza stessa della democrazia, che presuppone anche e soprattutto la libertà di esprimere il proprio pensiero politico, qualunque esso sia. Ma quel che più lascia perplessi è il suggerimento di interpretare la norma impugnata

411 L.SCAFFARDI, Oltre i confini della libertà di espressione, cit., p. 170. 412 V. note 58 e 281.

L’apologia

secondo la ratio che l’aveva ispirata, quasi che l’odierno contesto storico- politico sia il medesimo di sessant’anni fa. Quanto al paradigma del pericolo concreto, ribadito anche in quest’ultima pronuncia, valgono le stesse considerazioni già svolte: il Giudice costituzionale non può sostituirsi al legislatore, stravolgendo la struttura della norma con interventi che, oltretutto, non sono neppure risolutivi del problema. In queste fattispecie, infatti, la prova del pericolo sconfina nell’universo delle c.d. discipline sociali, che – come già si è avuto modo di dire – sono inesatte per natura. L’oggetto da analizzare, inoltre, non è un determinato fenomeno naturalistico, ma una realtà socio-politica, che in questo specifico caso viene a coincidere con la possibilità che si ricostituisca il disciolto partito fascista: un evento soggetto ad innumerevoli variabili che, data la sua natura, non può essere studiato alla luce delle scienze esatte, in quanto fuoriesce dal terreno della causalità materiale e approda in quello della causalità psicologica, dove tutto può essere il contrario di tutto (v. supra cap. I, par. 2.2.2). Come l’apologia, quindi, anche le manifestazioni fasciste sono e restano reati di pericolo astratto, che disattendono il principio di offensività, e per i quali non può esserci spazio nel nostro ordinamento.

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