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La Corte costituzionale salva il primo comma dell’art 272 c.p.

1. La propaganda sovversiva o antinazionale (art 272 c.p.) e il lungo cammino verso la sua abrogazione.

1.2. La Corte costituzionale salva il primo comma dell’art 272 c.p.

Con ordinanza del 20 gennaio 1965, la Corte d’assise di Modena, facendo propri gli argomenti prospettati da una dottrina piuttosto compatta, solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 272 c.p. in riferimento agli artt. 2 e 21 Cost.

Il Giudice delle leggi, dopo aver precisato che l’art. 272 c.p. si articola in tre distinte ipotesi criminose (233), assume una decisione a dir poco deludente

(sent. n. 87 del 1966) (234), che sottovaluta l’impatto dei principi costituzionali

sull’ordinamento e prescinde in toto dall’origine storica della norma in oggetto. La Corte arriva addirittura a sostenere che l’art. 272 c.p. non esprime peculiari finalità del passato regime, bensì obiettive esigenze dello Stato, a tutela della

231 V.PLUMITALLO,Normativa sui reati di opinione, cit., p. 230. 232 Così si esprimeva l’On. Fracanzani nella sua proposta di legge.

233 Le ipotesi criminose contemplate dall’art. 272 c.p. sono tre: la propaganda per

l’instaurazione violenta della dittatura, o per la soppressione violenta di una classe sociale, o per il sovvertimento violento degli ordinamenti sociali ed economici costituiti nello Stato, o per la distruzione di ogni ordinamento politico e giuridico della società; la propaganda per distruggere o deprimere il sentimento nazionale; l’apologia dei fatti sopraindicati.

La propaganda

sua personalità e contro il sovvertimento violento degli ordinamenti economici, sociali e politici. Del resto – prosegue la Corte – «l’origine e la ratio iniziale di una disposizione non possono considerarsi decisive per un’esatta interpretazione nell’ambito del sistema, dal momento che, quali che siano il tempo e l’occasione che le hanno dato vita, la norma va esaminata nella sua obiettiva struttura ed interpretata nella sua reale portata» (235). Queste

considerazioni disorientano (e non poco) lo studioso di diritto, che sa di dover interpretare una disposizione anche alla luce dell’intenzione del legislatore storico. Sottovalutando questa prospettiva, invece, la Corte incappa in un errore piuttosto grave: «quello di pensare che disposizioni così chiaramente individuate come dirette contro determinati partiti possano essere trapiantate,

mutatis mutandi, in un ordinamento che quei partiti ammette» (236). Ritenendo

che norme di questo tipo, nate in un determinato contesto politico, possano essere innestate in un ordinamento radicalmente diverso, i Giudici costituzionali dimostrano di non saper adeguare il diritto vivente ai mutamenti storico-politici connaturati ad ogni società; e, così facendo, «esaspera[no] fino al paradosso (237) l’idea di una struttura obiettiva del diritto vigente e l’altra,

del tutto irreale e antistorica, di una inalterabile neutralità della norma

235 C. cost., sent. n. 87 del 22 giugno 1966, cit.

236 G. VASSALLI, Propaganda “sovversiva” e sentimento nazionale, cit., p. 1101, per il

quale il legislatore «non avrebbe mai immaginato che vent’anni dopo i giudici della Cassazione avrebbero scoperto che quelle norme esprimevano “non peculiari finalità del passato regime, ma obiettive esigenze dello Stato” e, meno ancora, che trent’anni dopo i Giudici costituzionali dell’Italia democratica avrebbero colto proprio quegli esempi per affermare (ancora una volta!...) il principio secondo cui (…) “la norma va esaminata nella sua obiettiva struttura ed interpretata nella sua reale portata”». Negli stessi termini si esprimono C.FIORE, I reati di opinione, cit., p. 102, secondo il quale «era il caso di riconoscere queste disposizioni per ciò che esse sono, e cioè norme dirette contro l’attività di ben individuati movimenti politici»; G. BETTIOL, Il problema

penale [Palermo 1948], ora in Scritti giuridici, vol. II, Padova 1980, p. 687, il quale ritiene che «senza la comprensione del clima politico e del momento storico nel quale si trova ad operare il sistema legislativo penale non se ne può spiegare completamente il valore, non si può capire la portata della giurisprudenza, non si percepisce il senso delle evoluzioni dottrinali»; G.BRUNELLI, Considerazioni sul primo annullamento di un reato associativo, in Giur. cost. 1985, I, p. 2665. Contra, invece, S.BERLINGÒ,Libertà di “religione” e “diritto” di vilipendio, in Il dir. eccles. 1975, I, p. 201; P.ROSSI,Lineamenti di diritto penale costituzionale, Palermo 1954; P. NUVOLONE, Le leggi penali e la Costituzione, cit., i quali rifiutano il criterio della ratio storica della disposizione e, aderendo alla posizione assunta dalla Corte, ritengono che gli artt. 270 e 272 c.p. non siano stati toccati dall’entrata in vigore della Costituzione.

237 Cass. pen., sez. I, 15 gennaio 1969, in Cass. pen. mass. 1970, p. 814, è arrivata

persino ad affermare che l’art. 272 c.p. può egregiamente servire alla tutela di uno Stato comunista.

La propaganda

giuridica, rispetto al sistema di dominio di cui costituì un cosciente strumento» (238).

Peraltro, anche volendo avallare la tesi della Corte, viene da chiedersi a quali partiti sarebbe oggi riferibile l’art. 272 c.p.: esclusa l’applicabilità di questa disposizione alla propaganda di idee socialiste, comuniste e anarchiche, sarebbe seriamente sostenibile la sua configurabilità rispetto ad altri movimenti e ad altre propagande? (239) La risposta a questo interrogativo non

può che essere negativa, posto che per le norme penali incriminatrici vige il divieto di analogia (240). Ne consegue che l’art. 272 c.p. può colpire i soli

movimenti per i quali era stato pensato, vale a dire i movimenti anarchici, socialisti, comunisti, oggi iscritti a pieno titolo «nell’arcobaleno autorizzato dall’art. 49 Cost.» (241). E questo perché – a riprova di quanto già detto –

«qualche volta l’origine delle norme conta ancora nell’interpretazione di esse, e norme politiche create in una determinata epoca più non si prestano ad essere applicate in una situazione politica e costituzionale radicalmente mutata» (242).

Se la Corte fosse stata meno miope e avesse preso in considerazione anche l’origine storica dell’art. 272 c.p., avrebbe avuto l’indiscutibile conferma di come tale disposizione non fosse nient’altro che «uno dei numerosi rottami superstiti del naufragio fascista» (243). Ma così non è stato, e i Giudici

costituzionali si sono prodigati in ogni modo per salvare questa previsione ormai obsoleta, fino ad assegnarle l’ufficio di tutelare l’ordine pubblico, qui inteso come «l’ordine economico, rispetto al diritto al lavoro, alla organizzazione sindacale, alla iniziativa economica privata, alla proprietà, ecc..» (244). Sennonché, il riferimento a questo concetto si è rivelato subito

238 C.FIORE, I reati di opinione, cit., p. 102.

239 G. VASSALLI,Propaganda “sovversiva” e sentimento nazionale, cit., p. 1102 si pone

molte domande (retoriche) di questo tipo. In particolare, si chiede se la Corte costituzionale possa «considerare vigenti ed applicabili oggi le norme dettate dal legislatore fascista contro partiti prefascisti disciolti e poi risorti…»; se possa «seriamente pensare che quelle stesse norme possano oggi servire (…) contro movimenti o propagande antidemocratiche e antirepubblicane»; e infine se «non sarebbe stato più giusto dire che l’art. 272 primo ed ultimo comma (…) erano stati emanati per situazioni completamente diverse ed appartenenti al passato remoto della nostra storia».

240 Lo stesso Manzini lo ricorda proprio con riferimento all’art. 272 c.p., di cui esclude

l’applicabilità alla propaganda repubblicana (del tempo).

241 G.VASSALLI,Propaganda “sovversiva” e sentimento nazionale, cit., p. 1102. 242 G.VASSALLI,Propaganda “sovversiva” e sentimento nazionale, cit., p. 1102. 243 G. AMATO,Libertà di pensiero e propaganda sovversiva, cit., p. 486.

La propaganda

«improprio» (245), oltre che sovrabbondante, e ha contribuito ad evidenziare

l’incompatibilità dell’art. 272 c.p. con l’ordinamento democratico. Infatti, laddove al singolo fosse impedito di prendere apertamente posizione contro lo

status quo – parola che sintetizza il riferimento agli ordinamenti politici, sociali

ed economici costituiti nello Stato – la libertà di espressione in materia politica ne uscirebbe inevitabilmente compromessa. Neppure il riferimento alla necessità di tutelare la legalità democratica è servito a giustificare la permanenza dell’art. 272 c.p. nel nostro ordinamento. Il codice penale, infatti, contempla già numerose disposizioni (artt. 238, 284-289, 294, 302-302, 306, 415 c.p.) che, nel loro complesso, ben valgono a sanzionare non solo l’attacco alle istituzioni statali, ma anche la più remota preparazione di un tale attacco (246). Più che alla difesa dello Stato e dell’ordine giuridico, quindi, il divieto di

propaganda mira alla difesa “ad oltranza” di un regime politico e sociale ormai superato, ed è dunque ipotizzabile solo nell’ambito di un sistema non democratico (247).

Nel prosieguo della decisione, poi, la Corte fa un «inammissibile salto logico» (248): premettendo che la propaganda non può identificarsi con la mera

manifestazione del pensiero, in quanto «rivolta e strettamente collegata al raggiungimento di uno scopo diverso, che la qualifica e pone su un altro piano» (249), i giudici ne deducono arbitrariamente che la propaganda

sovversiva risulta per ciò solo idonea a determinare reazioni violente, pericolose per la conservazione di quei valori che ogni Stato deve garantire. Si individua, così, una connessione diretta e immediata tra messaggio propagandistico ed azione, per cui la propaganda sarebbe sempre e comunque idonea a determinare reazioni pericolose per la conservazione del sistema democratico (250). Ma una tale conclusione si rivela carente proprio sul punto

245 C.FIORE, I reati di opinione, cit., p. 102.

246 In questi termini v. C.FIORE, I reati di opinione, cit., p. 97.

247 Queste osservazioni sono di S.FOIS, Principi costituzionali, cit., p. 160.

248 C. FIORE, I reati di opinione, cit., p. 99. Parla di «salto logico» anche G. AMATO,

Libertà di pensiero e propaganda sovversiva, cit., p. 491.

249 C. cost., sent. n. 87 del 22 giugno 1966, cit.

250 Condivide l’interpretazione fornita dalla Corte costituzionale P. NUVOLONE,Le leggi

penali e la Costituzione, cit., il quale osserva come il concetto di propaganda implichi un elemento pragmatistico (< gr. πράσσω, fare), la riserva cioè di un risultato immediato, di un influsso sulla volontà collettiva, che si vuol dirigere in un determinato senso. La propaganda, quindi, si distinguerebbe dalla mera esposizione dottrinaria, in quanto la prima sarebbe un discorso teleologico, finalizzato all’azione, mentre la seconda si esaurirebbe in un discorso logico.

La propaganda

che, invece, dovrebbe essere centrale, ossia quello della determinazione delle condizioni in cui la tutela di tale sistema può prevalere sulla libertà di pensiero. La Corte avrebbe dovuto accertare se il bene tutelato dalla norma fosse o meno protetto dalla Costituzione, in modo tale da giustificare la compressione della fondamentale libertà d’espressione e – ancora più importante – avrebbe dovuto considerare la concretezza delle singole situazioni in cui, di volta in volta, può sorgere un contrasto tra interessi contrapposti. Al contrario, il Supremo Collegio ha omesso tutte queste (fondamentali) verifiche ed è giunto all’apodittica conclusione per cui chi propaganda la sovversione dei valori costituzionali crea – sempre e comunque – un pericolo sufficiente ad esigere il sacrificio della libertà di propaganda.

Per avvalorare questa tesi, la Corte ricorre anche al concetto di violenza, di cui evidenzia l’incompatibilità strutturale con l’accezione di ordine pubblico democratico. Da qui il divieto immanente di rottura violenta delle fondamentali condizioni di vita delle istituzioni democratiche, che implicherebbe anche il divieto di propaganda della violenza. Ma, anche su questo versante, il ragionamento dei Giudici costituzionali si rivela fallace. Infatti, se è fondato ritenere che la Costituzione vieti l’uso della violenza come mezzo di lotta politica, ciò non basta a dedurne anche il divieto di manifestazione del pensiero sotto forma di propaganda della violenza, poiché tali comportamenti, esaurendosi in mere manifestazioni del pensiero, «non sono idonei, secondo il principio di causalità, a determinare una violenza, neppure nella forma di concreto pericolo» (251). In sostanza, dal divieto di violenza non si può

desumere il divieto della condotta «che manifesta la violenza semplicemente come pensiero» (252). E questo perché il concetto di violenza è unitario e

astratto, mentre la condotta violenta deve essere di volta in volta analizzata con riferimento alla situazione concreta e al contesto in cui si inserisce (253).

251 G. ZUCCALÀ, Personalità dello Stato, ordine pubblico e tutela della libertà di pensiero,

cit., p. 94.

252 G. ZUCCALÀ, Personalità dello Stato, ordine pubblico e tutela della libertà di pensiero,

cit., p. 95.

253 In proposito, G. AMATO,Libertà di pensiero e propaganda sovversiva, cit., p. 491 –

richiamando a sua volta C.LAVAGNA,Interventi ablatori e principio di congruità, in Giur. it. 1965, I, p. 11 – ha evidenziato la necessità di adeguare il dato giuridico al fatto reale, secondo il c.d. principio di congruità. Ciò significa che «gli interessi del singolo (…) devono trovare un punto di equilibrio compromissorio con degli interessi contrastanti, configurati appunto come loro limiti. Quel punto di equilibrio, in base al

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Come sapientemente sintetizzato da autorevole dottrina, «parlare di violenza è cosa ben diversa dal realizzarla» (254). Pertanto, le norme che vietano l’uso della

violenza non possono essere assunte a base di un’interpretazione estensiva o analogica del divieto, a meno che la manifestazione del pensiero sulla violenza sia “causalmente idonea” a realizzare la violenza stessa: unico caso, quest’ultimo, in cui dal divieto di violenza come fatto si potrebbe dedurre il divieto di violenza come idea. Il che implicherebbe, però, un’ambigua identificazione della violenza con l’idea di violenza, nonché il rischio di arbitrarie interpretazioni estensive del precetto che si invoca.

In merito a quest’ultima considerazione, peraltro, parte della dottrina ha rilevato che quantomeno il pensiero politico si presenta come indissolubilmente legato all’azione. E questo perché il dibattito politico si fonda su discorsi propagandistici destinati, per loro stessa natura, ad influire sui comportamenti dei consociati, in ragione del fatto che «la sollecitazione ad agire (…) è sempre presente (e non può non esserlo) nella vita politica» (255). Del

resto, tutte le dottrine che auspicano una trasformazione radicale della società prospettano il ricorso all’azione rivoluzionaria come possibile eventualità della lotta politica. La propaganda politica, quindi, non può non risolversi in un’esortazione ad agire (256) e, se così non fosse, risulterebbe del tutto inutile e

inefficace. In altre parole, «se si dovesse escludere dalla tutela della manifestazione del pensiero ogni discorso intorno alla “rivoluzione”, il dibattito politico (…) rischierebbe la paralisi totale» (257). Da qui la conclusione – un po’

estrema, ma in parte condivisibile – per cui non si può sostenere che la propaganda cessa di essere protetta quando risulta particolarmente efficace (ossia idonea a sfociare in un’azione), poiché «una tale affermazione negherebbe le ragioni stesse di esistenza del sistema democratico», alla stregua del quale si deve ritenere che «l’efficacia della propaganda sia correlata alla sua

principio di adeguamento, va rinvenuto volta a volta nella concretezza delle singole situazioni in cui può determinarsi o si è determinato il contrasto».

254 C.FIORE, I reati di opinione, cit., p. 99.

255 A. CERRI, Libertà di manifestazione del pensiero, propaganda, istigazione ad agire,

cit., p. 1194.

256 V. il già citato giudice O.W. HOLMES,Opinioni dissenzienti, Milano 1975, p. 98 e p.

130, per cui «every idea is an incitement».

La propaganda

sostanziale validità e, quindi, che sia assolutamente irrazionale qualsiasi divieto che la colpisca» (258).

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