1. Le principali ipotesi istigative speciali Cenni introduttivi.
1.3. L’istigazione all’odio tra le classi sociali (art 415 c.p.).
L’art. 415, seconda parte, c.p. prevede e punisce il fatto di chiunque istighi all’odio fra le classi sociali. Ora, tanto la nozione di odio, quanto quella di classe sociale sono di difficile individuazione e si prestano a plurime letture. La giurisprudenza si è quindi impegnata a fornire un’interpretazione quanto più uniforme di tali concetti, precisando che «l’odio a cui si deve istigare è un sentimento di profonda avversione,
463 Tra le tante sentenze che ricorrono ai beni costituzionali, utilizzandoli come limiti
impliciti alla libertà di manifestazione del pensiero v. Cass. pen., 8 marzo 1962, n. 19, in Foro it. 1962, I, p. 595; Cass. pen., 6 luglio 1966, n. 87, ivi 1966, I, p. 1650; Cass. pen., 2 aprile 1969, n. 84, ivi 1969, I, p. 1376.
464 L. STORTONI,L’incostituzionalità dei reati di opinione, cit., p. 904. Nello stesso senso
v. G.LOMBARDI, Lo Stato può difendersi, ma…non deve esagerare, cit., p. 94, il quale ritiene che nella sent. n. 16 del 1973 la Corte costituzionale abbia fornito una «interpretazion[e] riduttiv[a] della nozione di “pensiero” di cui all’art. 21 Cost. secondo un nominalismo culturalmente sterile, e del quale già altra volta [v. ID., “Fedeltà qualificata” e limiti modali alla libertà di manifestazione del pensiero, in Giur. cost. 1966, p. 1220] si è messa in luce la pericolosità latente». Infatti – prosegue l’Autore – «mentre si cerca di precisare l’ambito di intangibilità della libertà garantita in Costituzione, si riduce, e talvolta si annulla, il raggio di operatività della relativa garanzia».
L’istigazione
tendente a nuocere o a sopraffare con ogni mezzo» (465), mentre l’accezione
di classe sociale «deve essere considerata come categoria sociale, l’elemento unificatore della quale è rappresentato da interessi e prerogative di carattere esclusivamente economico» (466). Tuttavia, al di là della scarsa
determinatezza, il problema principale della fattispecie in esame risiede nella sua incompatibilità con i principi di libertà politica sanciti dall’odierno sistema costituzionale, «alla stregua del quale dovrebbe ritenersi lecito anche l’incitamento a seguire dottrine ideologico-politiche o filosofiche fondate sull’idea del contrasto e della lotta tra le classi sociali» (467). Tant’è che, sulla scorta di queste premesse, si è convenuto di sollevare
questione di legittimità costituzionale dinnanzi al Giudice della leggi, per ritenuta incompatibilità dell’art. 415 c.p. con l’art. 21 Cost. La Corte costituzionale, dopo aver respinto l’eccezione di illegittimità sollevata con riferimento all’istigazione a disobbedire alle leggi (v. supra par. 1.2), ha dichiarato parzialmente incostituzionale la norma «nella parte in cui non specifica che l’istigazione all’odio fra le classi sociali deve essere attuata in modo pericoloso per la pubblica tranquillità» (468). Questa pronuncia di
accoglimento parziale è stata oggetto di un ampio dibattito dottrinale e ha suscitato non poche reazioni critiche, soprattutto in relazione al suo contenuto manipolativo. La Corte, infatti, richiedendo che l’istigazione all’odio sociale debba essere realizzata “in modo pericoloso per la pubblica tranquillità”, ha di fatto costituzionalizzato il requisito del pericolo per l’ordine pubblico, imponendo al giudice di constatare se nel caso concreto l’atto istigatorio possa indurre a reazioni violente da parte di terzi o possa comunque produrre concreto turbamento nel corpo sociale. Ciò detto, però, è lecito domandarsi se sia «giusto togliere al legislatore il potere di stabilire
465 Cass. pen., sez. I, 17 maggio 1972, Sisi, in Cass. pen. 1973, p. 1247.
466 Cass. pen., sez. I, 18 marzo 1953, Gelmini, in Arch. pen. 1953, II, p. 487; Cass.
pen., sez. I, 31 marzo 1955, Piazzi, in Giust. pen. 1955, II, p. 695. Nello stesso senso, in dottrina, v. L.VIOLANTE, Istigazione a disobbedire alle leggi, cit., p. 1004.
467 G.BORRELLI, sub art. 415 c.p., in G.LATTANZI –E.LUPO, Codice penale. Rassegna di
giurisprudenza e dottrina, vol. IX, Milano 2010, p. 12 e ss. La medesima incompatibilità è sottolineata anche da G. DE VERO, Istigazione a delinquere e a disobbedire alle leggi, cit., p. 302; G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, cit., p. 471.
L’istigazione
lui che, in un determinato momento storico e con riguardo alla situazione dell’intero paese, l’istigazione all’odio di classe sia in sé pericolosa e meriti di essere punita anche se non vi sia probabilità di azioni o reazioni violente immediate» (469). Le conseguenze di una campagna d’odio, infatti, possono
manifestarsi anche a distanza di tempo; pertanto, non sarebbe così irragionevole che il legislatore volesse colpirla “a monte”, per prevenire successivi disordini. La magistratura, invece, «armata di un concetto così generico ed elastico come quello di “pericolosità per la tranquillità pubblica”» (470), potrebbe far valere convincimenti politici diversi da quelli
che hanno ispirato il legislatore, frustrandone la reale volontà. Del resto, già si è visto (v. supra cap. I, par. 2.2.2) come l’inserimento di un evento di pericolo quale ulteriore requisito della fattispecie, ove provenisse dalla giurisprudenza costituzionale, difficilmente si sottrarrebbe alla censura di compromettere i principi di legalità e tassatività che regolano la produzione normativa in materia penale sostanziale (471).
Il concetto di “tranquillità pubblica” introdotto dai Giudici costituzionali, peraltro, pone grossi problemi di interpretazione, giacché potrebbe essere inteso sia in chiave meramente soggettiva e psicologica, sia in termini oggettivi e, per così dire, materiali. E anche laddove si appurasse che l’interpretazione più idonea è quella che si collega a una situazione di comportamenti esterni (o materiali) dei consociati, resta comunque il fatto
469 G. BOGNETTI, Il pericolo nell’istigazione all’odio di classe e nei reati contro l’ordine
pubblico, in Giur. cost. 1974, p. 1434.
470 G.BOGNETTI, Il pericolo nell’istigazione all’odio di classe, cit., p. 1434.
471 Così si esprime G. DE VERO, Istigazione, libertà di espressione e tutela dell’ordine
pubblico, cit., p. 17, che a sua volta richiama quanto osservato da C. PEDRAZZI, Inefficaci le sentenze manipolative in materia penale?, in Riv. it. dir. e proc. pen. 1975, p. 646, in merito ai problemi sollevati dagli interventi additivi sul tessuto normativo compiuti in materia penale dalla Corte costituzionale.
Sebbene in passato l’opera “creativa” della Corte sia stata spesso contestata, oggi il ricorso alle sentenze additive da parte dei Giudici costituzionali è molto frequente (v., tra le tante, la sent. n. 364 del 24 marzo 1988 sull’art. 5 c.p.) e trova giustificazione nel fatto che la Corte non è libera di “inventare” la norma da aggiungere al significato normativo della disposizione, ma procede – usando una metafora poetica – per “rime obbligate”, completando il “verso” scritto dal legislatore con quell’unica parola che può far tornare il “calcolo delle rime”, e cioè la coerenza sistematica dell’ordinamento. Inoltre, sempre a giustificazione di questo fenomeno, si è detto che la Corte non apporta queste integrazioni per usurpare il potere del legislatore, ma per ridurre al minimo necessario l’effetto ablativo conseguente alla pronuncia di incostituzionalità, garantendo così il pieno rispetto dei principi di economicità e di conservazione dei contenuti normativi. Sull’argomento, v. R. BIN – G. PITRUZZELLA, Diritto costituzionale, Torino 2011,p. 426 e ss.
L’istigazione
che la cerchia di tali comportamenti, rilevanti ai fini della definizione di tranquillità sociale, non è stata minimamente individuata dalla Corte: perché ci sia tranquillità, è sufficiente una mera astensione dalla commissione di reati? O è forse necessaria l’assenza di discriminazioni a danno di un gruppo sociale? Si tratta di un concetto difficilmente circoscrivibile, così come lo è quello di “pericolosità”, le cui possibili letture erano già state vagliate dalla dottrina in occasione della sentenza n. 65 del 1970 sull’apologia di reato (v. supra cap. III, par. 1.2).
Muovendo da queste premesse, parte della dottrina è giunta alla conclusione che la sola strada percorribile sarebbe dovuta essere quella dell’abrogazione totale della disposizione: l’istigazione all’odio di classe, infatti, «non appare diretta a turbare immediatamente l’ordine pubblico, ma solo a stimolare un atteggiamento mentale o uno stato d’animo, ritenuto “pericoloso” per la conservazione di determinati equilibri sociali»; pertanto, non si può non riconoscere che «la compromissione, che ne risulta, della libertà d’espressione è troppo grave per essere ritenuta accettabile» (472). Già si è visto, del resto, come il libero sfogo delle tensioni
di classe giovi all’equilibrio della società più di quanto non gioverebbe il reprimerle e il contenerle fino a trasformarle in implacabile rancore e, quindi, in quella potenziale minaccia per la c.d. “pace sociale” che, invece, si vuole evitare.
Alla medesima conclusione è giunta anche la Corte di cassazione (473) che,
nel contestare la vincolatività della pronuncia in esame e nel valutare criticamente l’esagerata incidenza dei Giudici costituzionali sul testo normativo, è giunta alla conclusione per cui una siffatta decisione
472 C. FIORE, I reati di opinione, cit., p. 114. Contra, invece, G. BOGNETTI, Il pericolo
nell’istigazione all’odio di classe, cit., p. 1434, il quale ritiene che la Corte costituzionale avrebbe ridotto eccessivamente la portata punitiva della norma. Secondo l’Autore, infatti, limitando l’applicabilità della norma ai soli casi in cui l’istigazione all’odio mascheri un’efficace istigazione alla commissione immediata di un preciso atto criminoso, si finisce per ridurre «al minimo la pratica incidenza della norma nella vita quotidiana del paese», sebbene ciò risponda ad «un’esigenza intrinseca ai nuovi indirizzi politici che vi predominano». Tuttavia, egli confida nella possibilità riservata al legislatore di «rielaborare domani la norma in una nuova formula legislativa e di fare cadere nella sua sfera incriminatrice – qualora egli lo stimi necessario – tutti i fatti espressivi che la sentenza n. 108 gli consente di colpire».
473 Cass. pen., sez. I, 22 novembre 1974, Bindi, in Giust. pen. 1975, II, p. 674 e in Riv.
it. dir e proc. pen. 1975, p. 646, con nota adesiva di C.PEDRAZZI,Inefficaci le sentenze manipolative in materia penale?, cit.
L’istigazione
implicherebbe la completa caducazione della fattispecie relativa all’odio tra le classi sociali. Richiedendo che l’istigazione avvenga in modo pericoloso per la tranquillità pubblica, infatti, la Corte costituzionale ha inciso sulla fattispecie legale al punto di stravolgerne la struttura, disattendendo il principio di legalità e rendendo la disposizione incriminatrice totalmente incostituzionale (v. supra nota 471).
Tuttavia, non va dimenticato che la fattispecie in questione è pur sempre un’istigazione, riconducibile a quelle forme attivizzanti del pensiero che – a differenza della mera apologia o propaganda – sono teleologicamente orientate a suscitare nei destinatari comportamenti modificatori della realtà e che, in quanto tali, non godrebbero della piena garanzia apprestata dall’art. 21 Cost. Pertanto, l’abrogazione totale dell’art. 415 c.p. è un’eventualità che non può essere contemplata, poiché travolgerebbe anche quelle possibilità applicative della norma che si è visto essere compatibili con la legge fondamentale.
Non resta quindi che «suggerire de iure condendo una formula tecnica che elimini l’incostituzionalità della norma in esame», senza però sfigurarne il tipo descrittivo, come invece ha fatto la Corte costituzionale. Il suggerimento preciso sarebbe quello di «promuovere il momento del pericolo da modalità di struttura dell’offesa ad elemento a sé stante della tipicità formale, e quindi ad evento di una fattispecie causalmente orientata» (474). Solo in questo modo, infatti, si potrebbe confezionare una
disposizione che risulti in linea con i principi cardine del diritto penale, senza disattendere al contempo la garanzia predisposta dall’art. 21 Cost.
1.4. L’istigazione all’odio razziale o etnico (art. 3, comma 1, lett. a) e