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Problemi applicativi e spunti di diritto comparato Il caso Ruanda e le decisioni del Tribunale Penale Internazionale.

2. La propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico (art 3, co 1, lett a), I parte, l n 654 del 13 ottobre 1975).

2.2. Problemi applicativi e spunti di diritto comparato Il caso Ruanda e le decisioni del Tribunale Penale Internazionale.

Studiando gli atti del c.d. processo ai mass media, accusati di aver incitato al genocidio ruandese del 1994 (308), si percepisce quanto sia difficile, nella

306 C.CITTERIO,Discriminazione razziale, cit., p. 156. È del medesimo avviso F.PANIZZO,

Quando la propaganda politica diviene propaganda razzista, cit., p. 2353, che a sua volta richiama le osservazioni critiche prospettate da M. PELISSERO, Osservazioni critiche sulla legge in tema di reati di opinione, cit., p. 959.

307 L.SCAFFARDI, Oltre i confini della libertà di espressione, cit., p. 203.

308 Il genocidio ruandese del 1994 fu uno dei più sanguinosi episodi della storia del XX

secolo, le cui cause sono da ricercarsi nelle divisioni etniche interne al Paese, opera del dominio coloniale europeo. In Ruanda erano originariamente presenti tre gruppi etnici: i Tutsi (anche conosciuti come Watutsi o Watussi), prevalentemente allevatori e pastori, giunti dall’Uganda e dall’Etiopia intorno al XV secolo; gli Hutu (altresì noti come Wahutu), dediti prevalentemente all’agricoltura e giunti dal Ciad; e i Twa, un popolo pigmeo spesso alleato con i Tutsi. Questi tre gruppi etnici convivevano da almeno cinque secoli e condividevano la stessa lingua, cultura e religione. Sebbene i Tutsi fossero solitamente più ricchi (in quanto allevatori e pastori, possedevano

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realtà, individuare l’esatto confine tra parole cattive e azioni criminose, tra parole puramente odiose e parole che incitano ad uccidere. Questo compito è stato affidato al Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda (TPIR) che, analogamente al Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia, si è trovato a svolgere una funzione di creazione normativa molto significativa, data l’assenza di precedenti giurisprudenziali in materia.

Nonostante le indescrivibili atrocità commesse dagli Hutu nei confronti della popolazione Tutsi, si può dire che il TPIR abbia mantenuto un certo distacco nel giudicare i fatti. Di fronte ad una simile tragedia dell’umanità, infatti, la tentazione sarebbe stata quella di imporre forti limitazioni alla libertà di parola, ricercando un “capro espiatorio”, un colpevole ad ogni costo. Atteggiamento sicuramente comprensibile, quest’ultimo, ma non altrettanto giustificabile dal punto di vista giuridico, poiché sottovaluta l’importanza degli altri diritti in gioco e impedisce il libero confronto delle opinioni, ricreando una situazione analoga a quella che si disapprova. Al TPIR, invece, va dato il merito di aver quantomeno tentato di demarcare il confine fra parole ripugnanti, ma consentite, e parole che incitano alla persecuzione e/o al genocidio, sebbene si sia dovuto attendere il giudizio d’appello per addivenire ad una decisione pienamente condivisibile (309).

bestiame e pascoli), essi svolgevano un ruolo sociale complementare a quello degli Hutu. La differenza tra i due gruppi, quindi, riguardava solo lo status sociale e non aveva alcuna connotazione razziale. Tuttavia, con l’arrivo dei tedeschi e dei belgi, le cose cambiarono. Gli europei, forti delle teorie fisiognomiche di retaggio ottocentesco, preferirono appoggiarsi ai Tutsi che, essendo alti, magri, di carnagione più chiara e più ricchi, si avvicinavano maggiormente agli standard occidentali. Da qui la scelta di integrarli nell’amministrazione coloniale, come uomini di fiducia dei colonizzatori. Furono quindi gli europei ad introdurre in Ruanda il concetto di razza, con la decisione di inserire l’etnia di appartenenza (Hutu e Tutsi) nei documenti di identità. Negli anni Cinquanta, il malcontento provocato dallo sfruttamento coloniale portò gli Hutu a ribellarsi ai Tutsi, nei cui confronti ebbe inizio una serie di persecuzioni razziste e vendette, poi culminate nel tristemente noto genocidio del 1994: dal 6 aprile al 16 luglio di quell’anno vennero massacrate circa un milione di persone.

309 Le tappe salienti del c.d. processo ai mass media sono ampiamente descritte e

commentate da C.HENDERSON,Mera propaganda o arma di genocidio? Ruanda: il caso dei “media dell’odio” (parte I), in Cass. pen. 2009, f. 6, p. 2654; ID.,Mera propaganda o arma di genocidio? Ruanda: il caso dei “media dell’odio” (parte II), in Cass. pen. 2009, f. 9, p. 3617.

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a) La sentenza di primo grado.

Per valutare se l’impatto di certe espressioni sull’uditorio era stato tale da comunicare un appello allo sterminio, il Tribunale di primo grado ha analizzato il contesto dei fatti, soffermandosi soprattutto sull’ambiente semantico-culturale che faceva da sfondo ai messaggi trasmessi da radio RTLM e dalla rivista Kangura, le principali imputate della propaganda razzista. In particolare, la circostanza che RTLM rivelasse i nomi e i nascondigli dei Tutsi (chiamati “inyenzi”, ossia “scarafaggi”), così come il fatto che Kangura avesse pubblicato un elenco di soldati Tutsi, con i nomi dei rispettivi figli e l’appello ad “organizzare la vostra autodifesa”, erano stati considerati comportamenti idonei ad integrare la fattispecie di incitamento. Idem dicasi per la pubblicazione dei 19 comandamenti del Tutsi (un fittizio manifesto di superiorità etnica) e per il significato implicito della c.d. “propaganda degli specchi”, consistente nell’attribuire agli altri quello che si intende fare in prima persona. La lettura fin qui svolta dal Tribunale di primo grado appare senza dubbio convincente, poiché analizza a dovere il contesto in cui si erano svolti i fatti e le modalità con cui venivano trasmessi i programmi radiofonici: un vero e proprio “bombardamento” degli ascoltatori, non molto diverso da una tecnica di manipolazione delle coscienze. Nella propaganda illecita, infatti, non viene in evidenza solo un elemento qualitativo (il tipo di espressioni usate), ma anche un aspetto quantitativo (la ripetitività del messaggio propagandato). In altre parole, ciò che andrebbe vietato non è tanto «la propaganda, ma piuttosto

l’eccesso di propaganda, la creazione di una posizione egemone che giunga a

zittire o a soffocare le altre voci», così come andrebbe punita «ogni comunicazione che sia o tenda a diventare monolitica, ossessiva, oppressiva, che in breve sia rivolta a estorcere il consenso, più che a procurarselo attraverso ragionamenti argomentati» (310).

Tuttavia, nel sottolineare l’importanza dell’effetto delle parole sugli ascoltatori, il Tribunale di primo grado ha individuato un nesso tra discorso e azione più simile alla prevedibilità che non alla causalità, affermando che il nesso causale non è un elemento essenziale del reato di incitamento a commettere genocidio,

310 M.AINIS,Valore e disvalore della tolleranza, cit., p. 436, che riprende, a sua volta,

quanto dichiarato da C. cost. nelle sentenze n. 9 del 4 febbraio 1965 e n. 84 del 2 aprile 1969, entrambe reperibili su www.cortecostituzionale.it, per cui ad essere illecita non è tanto la propaganda in sé, quanto ogni «indiscriminata pubblica propaganda», ossia tale da risultare «veramente notevole».

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perché tale reato è talmente grave che «l’incitamento a commettere un crimine del genere deve essere punito in quanto tale, anche se (…) non ha prodotto il risultato perseguito da chi ha posto in essere la condotta» (311). Una simile

affermazione può essere condivisa solo in parte, poiché si appella all’atrocità del crimine di genocidio per giustificare l’incapacità di condurre un accertamento appropriato sulla sussistenza dell’evento e del nesso causale che lo lega alla condotta di propaganda. Sostenendo che le parole, di per sé, sono sufficienti ad integrare una condotta di persecuzione penalmente rilevante, il Tribunale ruandese di primo grado ha attirato su di sé le critiche degli studiosi americani del Primo Emendamento che – come era prevedibile – hanno messo in discussione la competenza di quei giudici a decidere sulla delicata tematica dell’hate speech (discorsi d’odio). Nonostante gli sforzi, i giudici non sono riusciti ad individuare univocamente quali discorsi avessero trapassato il confine tra coscienza etnica ed odio etnico, ed hanno finito per considerare alla stessa stregua la propaganda e gli appelli allo sterminio (312), ciò comportando

il rischio di «qualificare qualsiasi forma d’espressione patriottica, pronunciata dai mass media in periodo di guerra, quale reato al termine del conflitto» (313).

b) Il giudizio d’appello.

Gli appellanti, nell’impugnare la sentenza di condanna pronunciata nei confronti dei dirigenti e dei redattori di Kangura e di RTLM, ritenuti responsabili del reato di persecuzione come crimine contro l’umanità, hanno sostenuto che il mero discorso d’odio non può integrare una fattispecie delittuosa e che la propaganda priva di incitamento non è in grado di raggiungere il livello di gravità richiesto per l’accertamento di un crimine contro l’umanità.

Investita della questione, la Corte d’appello ha dimostrato di condividere gli argomenti difensivi di cui sopra e, facendo proprio il concetto di incitamento

311 Akayesu (Tribunale di primo grado) No TPIR-96-4-T (2 settembre 1998) [562]. 312 Così J.M. BIJU-DUVAL, “Hate Media” – Crimes Against Humanity and Genocide:

Opportunities Missed by the International Criminal Tribunal for Rwanda, in AA.VV., The Media and the Rwanda Genocide, a cura di A.THOMPSON, 2007, p. 349.

313 C. HENDERSON, Mera propaganda o arma di genocidio?, cit., p. 2667. Nello stesso

senso si esprime ZAHAR, The ICTR’s “Media” Judgment and the Reinvention of Direct and Public Incitement to Commit Genocide, in Criminal Law Forum 2005, vol. 16, p. 45.

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teorizzato dagli studiosi del Primo Emendamento, ha statuito che il discorso d’odio che non inciti direttamente alla commissione del genocidio non è meritevole di condanna. Sulla base di questa affermazione, i giudici di secondo grado hanno poi provveduto ad analizzare, uno ad uno, i messaggi radiofonici trasmessi prima e durante il genocidio dei Tutsi, enucleando quelli che avevano trapassato il confine della mera promozione dell’odio, per poi sfociare nell’incitamento diretto e pubblico a commettere genocidio. Fra questi vi erano gli appelli all’uccisione degli “scarafaggi”, descritti richiamando i tratti tipici dei Tutsi, nonché le esortazioni a sterminare gli stessi dalla faccia della terra e a continuare gli assassini affinché le generazioni future potessero chiedere, a distanza di tempo, come era fatto un Tutsi. Si è invece deciso di non incriminare i meri discorsi d’odio e, in particolare, l’avvertimento che tutti i Tutsi volevano derubare gli Hutu, le riflessioni sarcastiche sui Tutsi tese ad accendere risentimenti nei loro confronti, l’esortazione agli ascoltatori a proteggersi e ad essere vigilanti, e le chiamate ad imbracciare le armi contro gli “scarafaggi”, quando però non era chiaro se questo termine fosse riferibile ai Tutsi (314). In sostanza, la Corte d’appello ha limitato la configurabilità del

reato di incitamento alle sole chiamate allo sterminio che fossero esplicite o irrefutabilmente ed inequivocabilmente implicite. Al contrario, ha affermato che un semplice discorso d’odio, in assenza di ulteriori azioni discriminatorie, non è suscettibile di integrare un crimine.

Finché le parole restano “soltanto parole”, senza sconfinare nell’incitamento (che, di fatto, si risolve in un’azione), non possono essere punite. Alla Corte d’appello ruandese va quindi dato il merito di aver tracciato con fermezza il non sempre visibile confine tra parole cattive e azioni criminose, riconoscendo la necessità di soddisfare due esigenze contrapposte: la protezione della libertà d’espressione da una lato e la criminalizzazione degli atti di genocidio dall’altro.

314 Nahimana et al. v. Pubblico Ministero (Corte d’appello) No TPIR-99-52-A (28

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2.3. Sull’opportunità di mantenere la previsione normativa de qua nel

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