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Il primo incontro, di solito, avviene con la presentazione medica, clinica, con lo stabilire una reciproca riconoscenza, la “ferita del proprio nome” (Coppo, 2007b) generata dall'anonimato e dal brusco contatto con le istituzioni. L'etnopsichiatria, basandosi sulle differenze e sul far emergere spazi complessi e creativi per una costante circolazione tra il “noi” e “gli altri”, tende ad oltrepassare gli scogli della logica aristotelica del terzo escluso: essa mira ad una universalità che non sia la partenza ma il traguardo, lavorando le differenze dell'alterità psichica, culturale, religiosa, etc.. . lavora sullo scarto e sul malinteso. La consultazione è un luogo di negoziazione permanente in cui tutte le reti, moderne e tradizionali, si connettono, in termini psicodinamici, in cui si situa il sintomo nel contesto migratorio o nel passato familiare, mentre in termini culturali si offre la ragione che ha provocato il disordine. Il modo di accogliere, includere ed integrare l'ospite anche solo provvisoriamente, è segno di educazione presso alcune popolazioni. Al posto di argomenti freddi e violenti emergono progressivamente immagini commoventi, capaci di ri- umanizzare i presenti vicendevolmente: testimonianze tenere e fragili, che chiedono solamente di essere ascoltate, e trasmesse prima che il tempo, inesorabile, agisca disperdendole. È un delicato lavoro tra memoria e Storia.

Latour ci ricorda che tali nozioni (universale, progresso, etc..) dividono il mondo in due, coloro che credono e coloro che pensano (Latour, 1995), invitando quindi chi si occupa del fenomeno migratorio a problematizzare, sempre, i nostri concetti, le nostre categorie, e il percorso storico, sociale e culturale che hanno percorso fino ad arrivare a noi.

Paragrafo 6

Tobie Nathan: la posta culturale dell'etnopsichiatria

Sfida, accoglienza, attaccamento, ospitalità, contagio: sono alcuni termini ridondanti negli scritti di Nathan, chiariscono in modo piuttosto definitivo la teoria da cui lo studioso elabora le metodologie e tecniche di cura nei confronti dei suoi pazienti, migranti e non. Teorie e

pratiche, le sue e quelle portate dai pazienti, da considerare come un vero e proprio campo di sperimentazione naturale, in tutta la loro complessità, non in lettura lineare, ma osservate da tutti i personaggi interessati, i professionisti, gli utenti, i loro gruppi di appartenenza. Nathan, per molto, si è occupato di creare dispositivi, spazi che contenessero non solo il disagio dei migranti, ma anche le loro specificità culturali, il loro sapere tecnico, i miti fondatori e le pratiche che li hanno fabbricati, umanizzati, infine le loro concezioni del mondo, quelle griglie costruite su cultura, immagini e rappresentazioni che permettono di leggere l’esistenza.

Accettare la sfida lanciata dalla presenza di corpi che vengono da lontano significa perciò creare, con fatica, gli spazi capaci di ospitare la differenza che i migranti portano con loro, una differenza nutrita dalla profondità di quelle concezioni che aiutano l’essere umano nel tentativo di comprendere il mondo.

I lavori di Nathan sono molteplici, plurali, multivocali; certamente, la sua visione ha a che vedere con una delle tesi centrali dell'Antiedipo, ossia che il desiderio è sempre rivoluzionario, è una macchina sempre pronta a distruggere le rassicuranti polarità predisposte dal potere (Deleuze, Guattari, 2002). L'operazione monotona del potere per “controllare” il desiderio è sempre stata di iniettarvi la mancanza, la penuria, la rarità, operazione indispensabile per avere presa sui corpi (il corpo organico, il corpo economico, il corpo libidinale): dal momento che manchi di qualcosa, non potrai fondare le tue richieste che su questa mancanza, e qui ti terremo.

La macchina desiderante non è altro che l'inconscio che produce, niente che sia dell'ordine di una soggettività, di una totalità, di un organismo, di una struttura.

Le famiglie di migranti formano una prassi, una politica, una strategia di alleanze e di filiazioni; esse sono formalmente gli elementi motori della riproduzione sociale e non hanno nulla a che vedere con un microcosmo espressivo. E più che la madre, il padre, etc.., c'è l'alleato, che costituisce la realtà concretamente attiva e rende i rapporti tra famiglie coestensivi al campo sociale. Qui è rintracciabile il background filosofico dell'etnopsichiatra francese: è, infatti, tradendo i desideri dei migranti, tradotti dalle istituzioni in bisogni, che la posta culturale dell'etnopsichiatria si trasforma, muta, in postura politica, un impegno a rispettare il materiale culturale prodotto dal dispositivo, in cui la ricchezza e la ridondanza dei desideri diventano leva terapeutica e, contemporaneamente, motore di cambiamento.

Nell'esperienza di Nathan e il suo gruppo, i pazienti migranti sono sempre sospesi tra “due mondi” e questo stato di sospensione alimenta una condizione di fragilità identitaria, che può declinarsi anche in forma psicopatologica. La terapia dei migranti deve allora essere subordinata alla costruzione di un quadro relazionale ispirato al, e dal, rispetto dei loro “esseri invisibili” (spiriti, divinità, antenati) dai loro modi di vita e di pensiero, dei loro “dottori” (i guaritori tradizionali), dei loro oggetti di culto (amuleti, feticci). Il rispetto di queste modalità implica che l'etnoclinico occidentale attraversi una multidimensionalità teorica, problematica e contraddittoria al contempo, senza la quale le sue concezioni sul migrante risultano fortemente riduttive e causano l'amputazione delle originarie caratteristiche culturali dello stesso. L'eterogeneità dei fattori che concorrono alla costituzione dell'identità del migrante impone il dispiegamento di un complesso dispositivo multidisciplinare capace di attivare la mobilitazione di una pluralità di soggetti di diversa ascendenza culturale e di varia competenza professionale. Un simile gruppo terapeutico funziona come piano di appoggio e di rassicurazione conforme alla visione del mondo del paziente, più spesso abituato a vivere una dimensione gruppale della cura, della terapia e della relazione educativa, intese come reticoli di legami e responsabilità condivisa. I terapeuti partecipano a questo processo in quanto soggetti a mondi culturali diversi. Emigrare significa essenzialmente perdere l'involucro identitario costituito da luoghi, odori, colori, suoni, contatti originari; l'insieme di questi elementi rappresenta la superficie sensoriale ed esperienziale che permette la costruzione della struttura e del funzionamento psichico. L'apparato psichico si organizza nella propria autonomia funzionale solo a patto di rimanere immerso in questo ambiente oggettuale e consustanziale che garantisce il senso di identità psichica e culturale dell'individuo; se questo involucro viene perduto, o disintegrato, il paziente non sa più a cosa legare, o dove depositare, l'identità soggettiva e le capacità di un corretto funzionamento mentale. È per questo che diventa assolutamente prioritario fabbricare un involucro interattivo che accolga i contenuti mentali funzionando, al contempo, come una barriera di contenimento e una superficie di iscrizione. La cultura viene considerata da Nathan come una struttura specifica di origine esterna (sociale) che contiene e rende possibile il funzionamento dell'apparato psichico (Nathan, 1994); il sistema culturale è costituito da un insieme di enunciati che riguardano la natura e la trasformazione della persona, dei morti, degli antenati e del male. La cultura non è una sorta di capriccio o un aspetto secondario dell'evoluzione umana; essa non è un abito, né una sfumatura di colore, ma piuttosto rappresenta il fondamento strutturale e strutturante dello psichismo umano.

Il punto critico del lavoro terapeutico con i migranti è costituito dalla scoperta e dalla comunicazione delle eziologie tradizionali: in questa fase, risulta fondamentale la partecipazione attiva dei migranti alla costruzione di ipotesi di lavoro, di soluzioni di problemi, di ideazione e realizzazione del dispositivo etnoclinico. Appare altresì fondamentale la circolazione interrogante della parola, espressa nella lingua matrice del migrante grazie all'intervento di mediatori culturale, così da permettere la costruzione di un dispositivo di lavoro in cui vi sia scambio e confronto tra saperi, interrogati con domande coerenti al nostro pensiero quanto al pensiero dei migranti presenti. I dati culturale che emergono vengono assunti come informazioni compiutamente e coerentemente comprensibili attraverso il metodo antropologico: il materiale culturale è infatti in contenitore, e mai il contenuto, del discorso; è ciò che permette la parola, non è la parola. Bisogna anche guardarsi dall'intendere solo la parte culturale del disturbo e del problema, escludendo la sofferenza propriamente individuale del migrante; il clinico culturale è infatti esposto all'errore di considerare il migrante sofferente solo come un informatore culturale (controtransfert di fascinazione), mentre il suo lavoro si articola sulla ibridazione degli apparati tecnici e delle teorie esplicative elaborati nelle diverse realtà culturali, presenti nel dispositivo, e intorno all'individuazione di quadri di compatibilità tra le metodologie della clinica occidentale e quelle dei sistemi nosografici tradizionali.

Nel processo clinico, le teorie non hanno un ruolo solo esplicativo, rendendo omogenea e comprensibile una massa di fatti; esse sono parte costitutiva dei materiali clinici “grezzi”; i migranti contengono delle teorie che, malgrado talune rassomiglianze, sono spesso in completa opposizione logica rispetto alle teorie degli esperti in Occidente. Accettare, perciò, di maneggiare le teorie che organizzano i modi di vita dei migranti implica una riformulazione dello statuto della teoria nella clinica, nella terapia e nella pedagogia; ammettere queste premesse, conduce allo stesso tempo ad una modificazione dei luoghi della cura, del pensiero e dell'agire pedagogico e terapeutico.

Ci si trova spesso, nelle istituzioni preposte alla cura, di fronte a popolazioni di migranti che vengono spesso descritti in termini di carenza (sociale, innanzitutto), di ciò che si suppone manchi loro, ossia mancanze di mezzi di sussistenza, o incapacità di elaborazione della nuova realtà che li circonda, nel paese di accoglienza, e anche, alle volte, di una generica “povertà culturale”; ecco, direi che la risposta etnoclinica a questo immaginario disturbante e dalle sfumature razziste nasce proprio dalla trasformazione di queste pretese carenze in fonti di arricchimento e di innovazioni tecniche. Questi poveri, isterici, disgraziati, si sono rivelati, poco a poco, ricchi di un pensiero complesso, e

soprattutto si sono rivelati come l'unica fonte d'informazione concreta su una dimensione della clinica fino ad allora trascurata; l'utilizzazione della drammaturgia culturale è una delle leve terapeutiche più attive nella risoluzione di questioni psicoterapeutici.

La psicologia ha sempre implicitamente ammesso il postulato di un “soggetto” universale, individualizzato e indipendente dal suo universo culturale, una sorta di “uomo nudo”. Il concetto di un essere umano universale, in grado di acquisire una cultura come se essa fosse un semplice abito da indossare, è una pura astrazione: possedere una cultura ed essere dotati di psichismo sono due fatti strettamente equivalenti, e per il clinico, la differenza culturale è un dato di fatto altrettanto “umano”, imprescindibile quanto lo è l'esistenza del cervello o dei reni. Per occuparsi di etnoclinica, tenendo appunto conto del fatto che la cultura di un individuo è indissociabile dal suo essere, bisogna innanzitutto accettare tre enunciati teorici preliminari:

– se si ammette che possedere una cultura ed essere dotati di psichismo sono enunciati strettamente equivalenti, non si può più considerare la psiche come una monade isolata, animata da forze proprie e strutturata in modo autonomo. Bisogna considerare la psiche, che Freud definì “apparato psichico”: a) come una macchina per creare legami; b) come autoregolantesi su una macchina simile, con analoga funzione, ma di origine esterna, ossia la cultura (Freud, 1975);

– tutte le terapie tradizionali sapienti sono operazioni: a) razionali, anche quando la loro razionalità non appare evidente; b) efficaci; c) suscettibili di indagini approfondite;

– ammessi i primi due enunciati, il terzo ne costituisce il presupposto indispensabile: non esiste un sistema di pensiero migliore di altri, ma tutti i modi di pensare e di vivere presenti nel dispositivo etnoclinico concorrono alla stesso scopo, ossia la modificazione e la cura di un disturbo, o di uno stato patologico.

In etnoclinica, chiaramente, le indagine antropologiche sull'etnia e l'origine del migrante di cui il dispositivo si occupa costituiscono una fonte di informazioni preziose; associando sistematicamente alla pedagogia e alla clinica i dati provenienti dall'antropologia in tutte le sue forme, l'etnopsichiatria è una disciplina multidisciplinare e complementarista (Devereux, 2007); in più, mettendo costantemente in parallelo le delucidazioni derivanti dalle teorie occidentali e quelle provenienti dai pensieri inerenti alla cultura dei migranti, l'etnopsichiatria è anche una disciplina comparativa.

La psichiatria, come del resto la psicoanalisi e molte altre terapie psi, in genere ha mantenuto la sequenza logica del modello medico; diagnosi, prognosi, trattamento; nella

clinica etnopsichiatrica, invece, tutto parte dalla tecnica (il trattamento) il cui esito potrà eventualmente portare all'enunciato completo di un'eziologia tradizionale. Il trattamento, insomma, precede e dà forma, e sostanza, alla diagnosi.